Mio fratello, con l’aiuto concreto di un gruppo di amici, ha riqualificato un campetto lasciato andare, un luogo che esisteva, ma non viveva. Hanno fatto molto più che sistemare due canestri, ridipingere le linee e colorare il terreno di gioco perché hanno ridato dignità a un pezzo di quartiere. Quel luogo, che fino a poco tempo fa era solo un pezzo di asfalto trascurato, è diventato un punto d’incontro e ha restituito alla comunità un campo da basket che è diventato molto più. È un posto dove si cresce, si sbaglia, si impara il rispetto e la competizione, si fanno amicizie che durano anni.
È uno spazio fisico che genera spazi interiori.
Viviamo in un’epoca in cui molto spesso ci si lamenta della mancata proattività dei giovani. Vengono considerati superficiali e poco attenti a un futuro che pende sulle loro teste e per il quale non sono mai stati veramente coinvolti perché considerati incapaci di una visione a lungo termine.
Viviamo in un’epoca nella quale spesso si avverte la paura di non sentirsi parte di niente.
Eppure sabato sera si è tornati a respirare un’aria diversa. Quei giovani, spesso considerati poco grandi per avere una voce in capitolo ma allo stesso tempo grandi abbastanza per essere rivestiti di aspettative e responsabilità irrealistiche, hanno trasformato quel campo in un simbolo di possibilità e comunità usando lo sport come catalizzatore di aggregazione e accoglienza.
Questo gruppo di ragazzi ha riqualificato un campetto abbandonato. L’ha sistemato, ripulito, ridipinto.
Poi ha organizzato un torneo femminile di basket 3vs3.
Non per fare qualcosa di diverso ma semplicemente perché era giusto così.
La cosa più potente di questo torneo è che non è stato accompagnato da grandi slogan o dichiarazioni.
Non c’è stata retorica, non c’è stato bisogno di spiegare perché fosse importante farlo.
È stato fatto e basta.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Con la stessa serietà, la stessa cura, lo stesso rispetto che si dedica a qualsiasi evento ben fatto. Con musica, maglie pensate nei dettagli, pane e salamella, tifo, musica ed energia.
Con lo stesso entusiasmo che normalmente si riserva ai tornei maschili.
Nella sua apparente semplicità questo torneo mi ha esplicitato il futuro al quale la società deve ambire, un futuro nel quale lo sport femminile non ha bisogno di essere spiegato o difeso, ma nel quale può essere riconosciuto per quello che è: sport, fatica, talento, competizione, emozione.
Il fatto che questa visione sia partita da uomini, è un segnale di maturità collettiva.
Non hanno fatto qualcosa “per le donne”. Hanno fatto qualcosa con uno sguardo più ampio, più giusto, come se la dignità nello sport non fosse legata a chi scende in campo, ma al modo in cui lo si guarda.
Si tratta di uomini che hanno sentito una mancanza nel loro territorio e hanno deciso di colmarla. Non per riempire un vuoto, ma per dare forma a una presenza che c’è sempre stata, anche se troppo spesso ignorata.
È importante che sia partito da loro non perché valga di più, ma perché dimostra una cosa semplice e necessaria: la lotta per la parità non è una questione che riguarda solo le donne ma è una responsabilità condivisa.
Il cambiamento avviene davvero solo quando chi ha sempre avuto più spazio si rende conto che quel privilegio ha senso solo se può essere usato per allargarlo, non per difenderlo.
Ed è proprio questo che è successo: un gruppo di ragazzi ha scelto di usare tempo, energie e creatività per costruire qualcosa che parlasse di equità, di possibilità, di sport vero. Hanno scelto di mettere le ragazze al centro, di creare un torneo dove fossero protagoniste assolute, dove non ci fosse nulla da giustificare. Solo da esprimere, vivere, sentire.
Questo gesto è un segnale, una direzione, un inizio perché se dei ragazzi, in un quartiere qualsiasi, sentono la necessità di creare uno spazio dedicato allo sport femminile, allora c’è speranza.
Vuoldire che le nuove generazioni stanno imparando a guardare con occhi diversi, a decostruire i modelli ricevuti, a scegliere consapevolmente di voler un futuro più equo, più giusto, più ricco di voci e di storie.
Il segno di un mondo in cui il cambiamento non lo chiede solo chi ne ha più bisogno, ma lo costruisce anche chi ha capito che è necessario semplicemente perché è giusto e perché è ora.
Già durante la giornata di sabato si sono potuti intravedere i primi germogli di questa semina rivoluzionaria.
Finita la finale del torneo, dei bambini mi hanno avvicinata prima con un secco “Complimenti tu sei fortissima” e poi hanno iniziato ad inondarmi di domande, con l’entusiasmo negli occhi e la voglia di sapere. Erano poco più alti di un metro, eppure in quel momento mi stavano sovrastando per quanta ammirazione stavano proiettando verso ciò che avevano appena visto. “Dove giochi?” “Da quanto giochi?” “Che ruolo hai?” “Che numero indossi?” “Come si arriva in serie A?” “Ma giochi in NBA?”.
Nella simpatia e spontaneità delle loro domande non trasmettevano solo curiosità ma anche la ricerca di riferimenti, dei punti fermi, delle ispirazioni.
E per una volta, quei riferimenti erano donne.
Viviamo ancora in una realtà dove lo sport, e il basket in particolare, è raccontato attraverso narrazioni maschili. I poster, i videogiochi, le pubblicità, le partite in TV ruotano intorno agli uomini mentre le figure femminili, quando ci sono e vengono rappresentate, sembrano sempre un’eccezione, qualcosa di straordinario.
Sabato invece era la normalità.
Per quei bambini vedere un torneo femminile non è stata solo una novità. È stato uno scarto culturale, una breccia nell’abitudine. Hanno capito che la bravura, la passione, l’energia non hanno un genere. E questo conta. Eccome se conta. Perché se un bambino cresce vedendo solo uomini giocare, penserà che quello è l’unico modo possibile di essere forti. Se invece cresce vedendo anche donne fare sport, guidare una squadra, allora crescerà sapendo che il talento non ha volto né genere prestabilito.
In occasioni come queste i modelli trasformano, le immagini catturano e i gesti rimangono.
Magari oggi quei bambini non riescono ancora a metterlo a fuoco, a dare un nome a quello che hanno provato ma lo porteranno dentro e domani, quando vedranno una ragazza prendere un pallone in mano, non penseranno che sia “strano”. Penseranno che sia normale, magari persino figo.
Spesso si dà per scontato che le giocatrici, possano essere fonte di ispirazione solo per altre ragazze, come se il valore, la grinta, la bellezza del gesto sportivo femminile potessero parlare solo a chi si rispecchia nella stessa esperienza, nello stesso corpo, nello stesso cammino.
Sabato invece è successo qualcosa di diverso. Qualcosa che ha rotto quella gabbia invisibile.
Perché quei bambini si sono lasciati travolgere da ciò che hanno visto sul campo, facendo il tifo ed emozionandosi. E, alla fine, volevano sapere, volevano capire e hanno cercato un contatto non con “una ragazza che gioca bene”, ma con una giocatrice.
Questo è uno spartiacque culturale perché testimonia che le barriere si possono rompere e che i ruoli si possono riscrivere.
Ed è così che cambia davvero qualcosa. Non tutto insieme, ma un torneo alla volta, un campetto alla volta, una domanda alla volta, un bambino alla volta, adulto del domani, che vedendo una donna giocare si libera dagli stereotipi.
E questo fa bene a tutti.

BIO: LAURA ZUCCHETTI
Gen Z di nascita ma vintage nei modi, parlerei per ore di sport e questioni di genere. Vivo il calcio femminile da tifosa ma con lo sguardo da psicologa sociale per riflettere sulle sue contraddizioni e opportunità figlie della realtà nella quale siamo immersi.