IL NOSTRO CALCIO È IN CRISI DI SISTEMA. E SE PROVASSIMO A PARLARNE DAVVERO?

In Italia il calcio è molto più di uno sport. È un linguaggio sociale, una cassa di risonanza culturale, un moltiplicatore di contraddizioni. In questa riflessione, provo a leggere alcune dinamiche ricorrenti — l’ipervalutazione e la svalutazione repentina dei giovani, il moralismo intermittente, la mancanza di visione — non come sintomi isolati, ma come parte di un impianto culturale che ci appartiene da secoli. Unimpianto che ci accompagna anche nei momenti decisivi della nostra storia calcistica.

La storia italiana è segnata dal campanile prima ancora che dalla bandiera. Comuni, ducati, le contrade, il sud, le isole, il nord, il nord est: la nostra identità si è costruita per contrapposizione e appartenenza parziale. Questa frammentazione, affascinante sotto certi aspetti, diventa però un limite quando si cerca una visione comune, un progetto condiviso.

Nel calcio, tutto ciò si manifesta in un continuo confronto tra scuole, metodologie, principi di gioco ed ere calcistiche. Si celebra il localismo, si guarda con sospetto al diverso, al nuovo. Siamo pure sempre il paese del Gattopardo oltre che del “si è sempre fatto così”. La diversità non è ricchezza, è distanza, la si guarda con diffidenza se non con arroganza. E così, ogni dibattito calcistico — dalla Nazionale a cosa sia calcio formativo — diventa una guerra di posizione.

Uno dei nodi più vistosi di questa cultura è il trattamento riservato ai giovani. In Italia, un calciatore emergente è osservato con lenti deformanti: se sbaglia, è un brocco; se segna, è il nuovo simbolo della rinascita ma in fondo aspettiamo sempre il prossimo errore. Guardate Sinner, tre slam a nemmeno 24 anni e siamo ancora a trovare la crepa, a sottolineare la sconfitta, la percentuale di servizio, la varietà dei colpi non ancora eccelsa.

Il problema non è il giudizio in sé, ma la sua ciclicità isterica. Il giovane italiano deve “dimostrare” tutto e subito. Non c’è spazio per l’errore, per il tempo, per il contesto. Si salta da un estremo all’altro: inadeguato il lunedì, imprescindibile il giovedì e viceversa la settimana successiva.

Questa dinamica non è solo figlia della stampa o dei social, ma di una cultura collettiva che fatica a concepire la crescita come processo. Non ci fidiamo del percorso, ci nutriamo dell’evento. Il risultato è il rischio di bruciare i talenti, oppure di caricarli di attese impossibili.

Nel calcio, come altrove, l’Italia sembra vivere alla giornata. La Federazione cambia strategia ogni due anni, i club oscillano tra “progetto giovani” e “andiamo a vincere la Coppa”, i media giudicano ogni sceltasull’ultima partita e danno un voto, non serve argomentare, basta prendere una posizione chiara, meglio se controversa che fa più audience.

Manca una struttura che protegga e guidi. Manca la pazienza, il metodo, il tempo. L’improvvisazione è diventata normalità. E quando i risultati arrivano, non è per visione, bensì per reazione. È come se il sistema trovasse compattezza solo quando viene screditato. L’indignazione funziona più della progettualità. Ma a quale costo?

Ad ogni sconfitta, si torna a parlare di “principi di gioco”, “valori morali”, “spirito di gruppo”. Ma sono concetti vuoti, se non trovano radicamento nelle scelte quotidiane. Si chiede identità a un CT senza dargli tempo o strumenti. Si chiede etica a un sistema che spesso si regge sul compromesso. Quando poi a casa ai nostri figli insegniamo a screditare le istituzioni, a trovare la scorciatoia.

Nel nostro calcio, la moralità è spesso selettiva. Si invoca quando serve un capro espiatorio. Il CT, la metodologia nei settori giovanili, il giovane inesperto: diventano bersagli facili in una narrazione che cerca responsabili più che soluzioni.

E intanto, chi alimenta il disordine — opinionisti frettolosi, stampa gridata, dirigenti a caccia solo di una rielezione — resta fuori discussione. Non è questione di colpe, ma di corresponsabilità. E da qui il cambiamento può (e deve) partire. Serve più che una riforma, una cultura della complessità. Un nuovo modo di pensare il calcio, che non viva di eccezioni ma di struttura. Che accetti il tempo, l’errore, la gradualità. Che affidi ai giovani un percorso, non una roulette. Che non giudichi un allenatore in base all’umore generale, ma alle condizioni in cui ha lavorato, alle pressioni che ha subito, alla solitudine in cui è stato abbandonato.

Finché continueremo a ragionare a episodi, a vivere di umori e non di idee, a reagire invece di costruire, ci stupiremo delle disfatte e potremo solo sperare nelle resurrezioni. Senza capire che entrambe sono figlie della stessa cultura. Il calcio italiano non ha bisogno solo di nuovi volti. Ha bisogno di nuove lenti. Di nuovi strumenti. Di coraggio sistemico, non reattivo. Di accettare una volta per tutte il “costi quel che costi” dell’iniziare a costruire.

E, soprattutto, di una visione che guardi oltre il risultato di oggi. Perché nel lungo periodo, nel bene e nel male, è sempre il percorso a rendere il risultato una conseguenza.Al fine di non essere ancora una volta solo di rottura e divisivi ecco punti urgenti da mettere sul tavolo per un sereno confronto che porti a salvifiche riforme:

1. Nuova struttura di classificazione dei settori giovanili italiani prendendo spunto dall’Elite Player Performance Plan (EPPP) che suddivide le accademie in 4 livelli scollegando il valore del settore giovanile da quello della prima squadra secondo i seguenti punti cardine:

• Qualità delle strutture

• Staff tecnico (numero e qualifiche)

• Metodologie e curriculum formativo

• Budget minimi d’investimento

• Volume orario di allenamento e supporti esterni (medici, psicologi, nutrizionisti, video

analisti, data analyst)

Le accademie di Elite nazionale riceveranno contributi federali e tutele nel poter selezionare giovani giocatori del proprio territorio in modo esclusivo al fine di evitare la vera e propria tratta e mercificazione di giovanissimi calciatori sino al compimento del 16esimo anno e alla eventuale stipula del primo contratto da professionista.

2. Creare un “patentino di percorso” per i giovani talenti dove ogni giovane U18 di interesse sportivo nazionale (50/100 per ogni classe di età) riceve un programma triennale al quale tutte le parti in gioco (calciatore con il suo entourage, Club e Federazione) si devono attenere scrupolosamente e che includa:

• Obiettivi tecnico, atletici, tattici e psicologici

• Tutor adulto (ex calciatori selezionati, psicologo sportivo)

• Limite alle presenze mediatiche

• Contratti prestabiliti

• Range di minutaggio garantito

3. Stabilire progetti tecnici triennali per le figure apicali tecniche dei club e della Federazione con specifiche clausole di stabilità salvo risultati minimi da garantire nel percorso.

4. Obbligare i media sportivi a inserire figure competenti per alzare il livello della narrazione pubblica del calcio:

• Abolendo le pagelle con il voto secco dopo ogni gara nei confronti degli U21

• Inserendo parametri fissi come contributo tattico, atteggiamento e pulizia tecnica da argomentare, non da votare o da denigrare

5. Creare un portale pubblico di trasparenza tecnica FIGC dove si possono trovare:

• Linee guida sui settori giovanili

• Report mensili su criteri di selezione delle Nazionali

• Relazioni di fine torneo (dati, analisi, perché si è vinto/perso)

6. Formare i genitori dei giovani calciatori a partire dalla U8 tramite incontri con frequenza almeno annuale

su:

▪ Cosa aspettarsi dal percorso

▪ Come sostenere il proprio figlio

▪ Cosa evitare (pressioni, giudizi, isterie)

7. Introdurre l’educazione sportiva nelle scuole con almeno 5 lezioni annuali obbligatorie in cui si parla ai giovani dagli 8 ai 16 anni di età di:

• La gestione dell’errore

• Il valore del gioco di squadra

• La pressione e il rispetto

I sette punti proposti non sono la soluzione a ogni male, ma un inizio di conversazione. Ora tocca a te: esprimi il tuo pensiero, anche se completamente diverso dal mio. Ne abbiamo tutti, davvero, un disperato bisogno.

BIO: Nereo Omero è direttore sportivo e responsabile di settore giovanile, con una formazione tecnica maturata grazie all’incontro con veri maestri e un’attenzione costante alla dimensione educativa del calcio.

Affascinato dal metodo, ma convinto che sia solo un mezzo per veicolare contenuti di qualità. Cura i dettagli senza perdere la visione d’insieme. Ama costruire più che vincere — anche perché crede che costruire bene sia il modo più sicuro per vincere con continuità.

15 risposte

  1. Tutto condivisibile soprattutto i punti 1) e 7) sono importanti e da mettere in campo il prima possibile.
    Frequento le scuole calcio per via di un figlio da circa 8 anni, ed ritengo che le federazioni preposte dovrebbero essere più selettive nel concedere la qualifica di “ÉLITE”.
    E qui faccio riferimento a quanto indicato nel punto 7. Buon lavoro e se posso permettermi di aggiungere che da genitore io ci sono per qualsiasi forma di contributo.Cordiali saluti

  2. Grazie mille Giambattista per aver condiviso il tuo punto di vista. Sicuramente c’è tanto da fare e i miei sono solo spunti per attivare un confronto. Cordiali saluti,

  3. Complimenti,per la profondità di analisi e gli spunti proposti.io sono un’ istruttore dell’ attività di base e agonistica con qualifica UEFA B che opera in Campania a livello di settore giovanile dilettante,collaboro anche con L’ SGS sempre in Campania, in questi anni mi sono posto sempre una domanda, perché a livello federale non è mai stata creata una figura che possa analizzare con competenza la metodologia,la comunicazione e la preparazione di istruttori oppure formatori che lavorano a stretto contatto con i giovani di diverse fasce d’età? faccio questa riflessione basandomi sull’esperienza fatta negli anni sul campo, visto che sono arrivato alla conclusione che tanti personaggi che girano sui campi creano parecchi danni,non avendo conoscenze o competenze e nemmeno l’umiltà di comprendere che bisogna aggiornarsi perché l’ evoluzione è continua e rapida , invece continuano ad essere ancorati a logiche passate che non permettono la crescita dei ragazzi anzi la inibiscono poiché legati alla cultura del risultato e non quella dello sviluppo.faccio un ultimo esempio gli arbitri hanno un osservatore che li segue durante il percorso e li aiuta a migliorare nell’ errore, perciò sono convinto che ad ogni livello del sistema ci sia il bisogno di una figura che abbia conoscenza per analizzare l’operato dell’ istruttore-formatore o allenatore, altrimenti verranno commessi sempre i soliti errori.attenzione la mia riflessione è legata al contesto del calcio giovanile dilettante che è la base di quello pro.spero di aver creato uno spunto di discussione , grazie per i vostri approfondimenti.

    1. Buon giorno e grazie per il contributo, credo la Federazione abbia già in essere sufficienti corsi territoriali e federali, ne conto 6 tra quelli da allenatore e quelli da responsabile settore giovanile attivi sul territorio italiano. Il problema è che spesso le docenze, alcune anche di grandissimo valore, sono in contrasto tra loro; non c’è una tangibile linea guida Federale che indichi la strada. Questa frammentazione consente un po’ “il vale tutto” e forse si riscontrano a causa di questo le difficoltà che viviamo quotidianamente, dilettanti e professionisti non fa molta differenza. Le mille sfaccettature del calcio italiano sono una ricchezza a patto che si inizi a farle parlare tra loro con l’obiettivo di una sintesi condivisa, diversamente rimarremo una solo affascinata Babele.

      1. Grazie per la risposta, aldilà dei corsi che sono un momento di formazione importante per acquisire delle linee guida e conoscenze,la mia riflessione sul fatto di creare una figura pratica che vada sui campi è diversa.faccio un esempio ci sono scuole calcio di 3° livello,in pratica l’ ex titolo elite per rendere l’ idea ,le quali vengono supervisionate dalle AST territoriali per quanto riguarda lo sviluppo e la metodologia, però cosa succede nell’ appuntamento con l’AST le società e gli istruttori si mostrano nel modo più amichevole possibile,mostrano una bella facciata della casa diciamo,poi durante le partite del fine settimana di qualsiasi categoria dell’ attività di base o agonistica, succede tutto il contrario di tutto , diventa una giungla che siano bambini di 7 anni o adolescenti , mettere un’ osservatore super partes per un dato periodo,che vada a visionare la società presa in questione durante le partite del fine settimana per poi in sinergia con il lavoro svolto dai tecnici delle AST avere un quadro completo di come quella società lavori durante la settimana e nelle gare settimanali , porterà come conseguenza di andare a correggere avendo le informazioni giuste, per creare del valore.nel caso in cui la società continui a commettere un determinato errore si procede con degli avvisi o sanzioni.perche’ altrimenti continuerà a regnare l’anarchia e si bloccherà il processo di sviluppo per tutte le componenti già dalla base della piramide.grazie, scusate se mi sono dilungato troppo sull’argomento,ma è un piacere potermi confrontare con persone che analizzano il calcio con profondità e passione come voi.

        1. Buona sera, l’idea che possa esserci un supervisore è certamente una possibilità percorribile. Rimango però dell’avviso che l’obiettivo sia la crescita e non la sanzione. Sarebbe un peccato che tutto si risolvesse in regolamenti, avvisi e pene per chi sgarra. Necessariamente quindi si dovrebbe passare tramite una crescita culturale. Che si poggi non esclusivamente su riforme politiche e federali, ma anche su prese di posizioni individuali connesse alla tutela di questo sport e al benessere di chi ne fa parte. In sintesi: tutti dobbiamo fare la nostra parte.

  4. Condivido tutto, specialmente la mancanza di pazienza. In Italia non si può sbagliare perchè si viene subito etichettati. Dopo ogni sconfitta, ogni brutta figura, si torna a parlare delle stesse cose, magari si cambia qualcosa, ma non si fa mai abbastanza. Perchè per cambiare veramente bisognerebbe tornare indietro di un bel po’, ci vorrebbe un cambiamento importante e quindi troppe persone dovrebbero ammettere di aver sbagliato qualcosa. Ci vorrebbe troppo tempo per riprovarci da “lontano” e la mancanza di pazienza fa si che si continuino a commettere gli stessi errori.
    Anche chi ci prova, dopo un po’ rischia di sentirsi “sbagliato” in un sistema che non lo accetta perchè vengono valutati i risultati immediati e non i percorsi.
    Tutto questo l’ho trovato nei dilettanti e nei professionisti, nei settori giovanili e nelle prime squadre.
    E SE PROVASSIMO A PARLARNE DAVVERO?

    1. Grazie Francesco, hai ragione dovremmo parlarne davvero. Chiaramente non si può sistemare tutto in un giorno, ma certamente sarebbe già importante iniziare con una visione e avere il coraggio di portarla a compimento anche davanti alle inevitabili difficoltà che si incontreranno.

  5. Grazie per il bell’articolo. L’analisi della situazione del nostro calcio si può tranquillamente traslare all’analisi dell’intero sistema-Paese: tic, miopie, difese corporative di rendite di posizione, rimpianti per passati mitici che, troppe volte, mitici non lo sono stati affatto, e via dicendo. In un Paese in profondo declino, è difficile immaginare che il calcio — legato a doppio filo alla società nel suo insieme — possa rappresentare un’oasi nel deserto. Sui sette punti non mi so pronunciare, ad di là dell’ultimo. Non sono competente e quindi mi rimetto a chi ne sa.

  6. Grazie per la condivisione Roberto, sicuramente le criticità che ho sottolineato sono trasversali nel nostro paese. Ma ci si può se per lavorare.

  7. Secondo me manca un punto fondamentale, è cioè l’estensione del numero di corsi per fare i diversi patentini di allenatore e l’eliminazione delle barriere d’ingresso che in pratica permettono ai soli ex calciatori l’accesso ai corsi di grado più elevato (UEFA A / UEFA PRO).

    E in questo contesto andrebbero probabilmente rivisti anche i contenuti dei percorsi formativi.
    Stando fuori (io il UEFA A l’ho fatto in Spagna), ho l’impressione che in Italia i contenuti siano influenzati dall’ossessione di migliorare il gesto tecnico (concetto quest’ultimo risaltato continuamente dagli ex calciatori, che probabilmente lo vedono come l’unica opportunità di far valere una superiorità di conoscenze che invece non riescono a farsi riconoscere in tutti gli altri ambiti metodologici) e che non vi sia invece un percorso metodologico che riprenda le conoscenze dei club di élite e che renda possibile la divulgazione a tutti i livelli di queste conoscenze.

    1. Buon giorno e grazie per lo spunto, più il sapere è condiviso e trasversale e più il movimento calcistico ne avrebbe beneficio. Come già risposto in un altro post tra i docenti Federali centrali e territoriali credo ci siano talvolta competenze altissime, quello che manca è una linea comune. Spesso nello stesso corso abilitativo si possono riscontrare posizioni da parte dei docenti contrastanti che non aiutano la crescita del movimento. Sarebbe bello che la Federazione, con un approccio contemporaneo sia dal punto di vista metodologico che da quello dei principi di gioco, prendesse una posizione forte e chiara e facesse da stella polare per la rinascita del calcio italiano, ne hanno chiaramente le competenze. Al momento però la sensazione è che il compromesso abbia preso il sopravvento.

  8. Premetto che condivido e sottoscrivo in pieno tutta la premessa. La pianificazione non l’abbiamo inventata noi, ma sostanzialmente la natura. Qualunque sia il problema io faccio sempre riferimento al grano: si ara, si semina, si innaffia, si cura la crescita, quando arriva alla maturazione si falcia.

    Se vuoi stare fuori di questa logica il grano lo devi rubare o non ne avrai a sufficienza e forse anche di scarsa qualità.

    In questa logica vi è la tua premessa.

    Poi, proponi dei singoli punti sicuramente accettabili! Ma per chi? Io continuo a distinguere l’area dei giovani che devono divertirsi e contemporaneamente imparare a vivere in comunità, rispettando i ruoli e gli obiettivi fissati. Tra gli obiettivi vi deve essere la sportività ed il rispetto per compagni e avversari.

    Poi, viene la logica inerente la scuola calcio intesa come vivaio calcistico di futuri calciatori. Questa area specifica è costosissima, vuole una organizzazione di buon profilo e anche addetti di livello adeguato.

    Poi, come lasci sotto intendere tu, per me un calciatore di 20 anni non è più giovane. Proprio perchè giocando campionati ufficiali e di prima squadra si matura moltissimo. Un ventenne che gioca in prima squadra da quando aveva 16 anni rispetto al ventenne della nostra primavera ha quattro anni di maturazione tecnico/tattica ed agonistica rispetto al giovane della Primavera.

    Come detto, Sono d’accordo con i singoli punti da te evidenziati, che ovviamente, non sono esaustivi, in quanto, tra l’altro, vanno anche considerate le aree inerenti i bilanci societari e la struttura dei singoli campionati.

    1. Buon giorno Giuseppe, grazie per la risposta. I miei punti vorrei che vincessero visti in maniera olistica, non sono da intendersi dedicati ad un singolo settore ma trasversali. Io parlo di un cambiamento culturale generale, non a comportamenti stagni, e che si basi sugli stessi principi e valori trasversalmente. I settore giovanili costano tanto? forse sì, ma in molti casi non più del 5/10% di quanto costi una prima squadra, quindi non può essere quello lo scoglio. A 20 anni si possono avere molte esperienze di campo emotive e tattiche, ma se ne possono anche avere pochissime, sogno un club o meglio tutto un movimento dove il percorso dai 17 ai 20 anni sia tutelato, o che quantomeno ci si impegnasse seriamente nel provarlo a costruire con cura. Il rischio è di perdere troppe occasioni. Confermo in fine che il mio scritto è tutto fuorché esaustivo e ti ringrazio per averlo anche tu arricchito.

      1. Buon giorno a te Nereo.
        Nella mia esperienza ho sempre considerato l’approccio al calcio (ma vale per tutti gli sport), sotto due aspetti diversi: a) il discorso sociale, dove l’obiettivo non è assolutamente il calciatore, ma il ragazzo che vuole divertirsi anche se non ha grandi attitudini. Qui ci sono le scuole calcio ludiche (ormai le strade e l’oratorio sono scomparsi dal panorama calcistico, anche se negli oratori si continua a fare questa attività). Qui insieme a qualche fondamentale di calcio si insegna a stare con gli altri compagni, a rispettare certi ruoli (nel senso di spazi e compiti) in campo e soprattutto a gioire di giocare. Certo tutti vogliono vincere. Ma alla fine della partita, a prescindere da chi ha vinto, si vedono amici-avversari che se ne vanno in grande armonia. Quando mia figlia, 10 anni fa, mi chiese di trovare una scuola calcio per mio nipote, non la voleva competitiva, ma frequentata da gestori e ragazzi educati.
        b) Poi c’è il gruppo a cui ti riferisci tu, chi. ovvero: coloro che, a prescindere dal livello, perseguono soprattutto obiettivi agonistici. Purtroppo la mia esperienza in questi settori risale agli anni ottanta e novanta. Avevamo una scuola calcio abbinata inizialmente ad una squadra di 1^ categoria . La società (Polisportiva San Giorgio) era nata dalla fusione di 2 squadre giovanili e nel 1992 da una terza società che ci ha portato solo il titolo di 1^ categoria. Abbiamo abbinato scuola calcio e la 1^ categoria, per cui del 1997 abbiamo giocato solo con i nostri ragazzi (nel frattempo cresciuti), vinto 2 campionati consecutivi arrivando in eccellenza.
        Nel 1997 abbiamo abbandonato il settore giovanile, poichè essendo gestori del campo, data l’alta richiesta di spazi, abbiamo preferito rinunciare noi e abbiamo sostituito il settore giovanile con la Juniores fatta seriamente.

        All’epoca (dal 1982 al 2001), il patentino per allenare i giovani si otteneva con un semplice corso di 5 giorni. Io non ho potuto frequentarlo per via del mio lavoro che mi lasciava libero solo la sera, anche sul tardi.

        Quindi, la tipologia di organizzazione di cui parli tu, esisteva in poche società professionistiche.
        La nostra scuola calcio, che nell’ambito cittadino era la migliore, costava sulle 30-50 mila lire al mese. Gratis per chi non poteva. All’inizio i 15 soci mettevamo 300.000 cadauno poi diventati 1.000.000 quando siamo approdati in eccellenza.
        Come vedi con tutto che si minimizzavano all’osso i costi, comunque il prezzo medio per ragazzo a San Giorgio era di 50.000 lire al mese più l’acquisto del materiale e istruttori gratis.
        Sempre con l’esperienza dell’epoca, ero diventato amico del Prof. Gigli factotum giovanile del Sorrento (all’epoca militava tra C e 4^ serie), spesso di sabato andavo a trovarlo a Sorrento e mi diceva dello scandalo di tante società di C, che, per obbligo , dovevano avere delle squadre giovanili, ma che venivano allestite senza nerbo calcistico, perchè tutto il denaro era puntato sulla prima squadra.

        Chiudo! Non sto contestando il tuo articolo che condivido in pieno, dalla A alla Z, con riferimento alle società come io ho indicato come gruppo B, nell’aspetto olistico.

        Il gruppo A è totalmente fuori di questa logica, per cui servono discreti istruttori e grandi uomini.

        Quanto al gruppo B, lo spezzatino delle partite ha finito per distruggere quasi tutte le realtà dalla C in giù. Perciò dicevo che vanno valutati i costi. Se la nave sta affondando, ti dispiace, ma butti giù il carico e non le persone.

        Quindi, per chiudere, condivido quanto dici, ma soprattutto come linee guide per il futuro. Ma questo richiede un ripensamento di tutta l’organizzazione calcistica.

        Un saluto.

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