UNICATT – T.T.D. DEGLI SPORT INDIVIDUALI E DI SQUADRA 2, CALCIO – “DA GIOCATORE A MANAGER: È POSSIBILE UNA COERENZA METODOLOGICA?”

Per il terzo anno consecutivo ho l’opportunità di frequentare presso l’Università Cattolica di Milano alcune lezioni del Corso di “Teoria, Tecnica e Didattica degli sport individuali e di squadra”, dedicato al GIOCO DEL CALCIO, tenuto dal Prof. Antonello Bolis, coordinato da Edgardo Zanoli, assistiti da Elena Vagni, all’interno del Corso di Scienze motorie e dello sport, proporrò, in una serie di articoli, le note raccolte in aula. Saranno appunti, come mi piace definire…sparsi.

Quest’anno il primo incontro mi vede come relatore sul tema proposto dal Prof. Bolis che leggete nel titolo.

Ho provato a raccontare il mio percorso calcistico, da giocatore, allenatore e manager, partendo dagli inizi.

Un tempo era possibile giocare a calcio nei cortili, negli spazi verdi, negli oratori e nelle strade. Si iniziava a giocare in un contesto organizzato (settore giovanile) qualche anno dopo rispetto a quanto accada oggi. Così, parallelamente alla mia passione per il calcio che praticavo con gli amici miei coetanei ma anche con i più grandi, dai 9 ai 12 anni mi sono dedicato alla ginnastica artistica, tradizione di famiglia perchè i miei zii erano stati degli ottimi atleti in questa disciplina. Soltanto a 13 anni ho cominciato a giocare nella COSOV la società di calcio di Villasanta (MB), il paese in cui sono cresciuto, per poi arrivare all’esordio in prima squadra “Prima Categoria” a 16 anni. Da lì è iniziato l’interesse degli osservatori del Milan e fu il Sig. Brambilla a fare la prima segnalazione. Andai a Milanello, pieno di emozione e speranze. Il provino basato su tutta una serie di esercizi analitici (palleggi, palleggi in corsa, “treccia” tra giocatori, passaggi a coppie e a terne, colpi di testa con l’avversario (compagno) posto davanti a te e con il terzo compagno che ti lanciava la palla sopra la sua testa: il compito era decidere se anticipare o saltare dietro la schiena dell’avversario per colpire il pallone, alla fine 10-15 minuti di partita (non partitella!). La faccio breve… dopo una settimana l’AC Villasanta ricevette una lettera in cui si diceva che non ero idoneo al Settore Giovanile rossonero. Venni richiamato due mesi più tardi per giocare un torneo a Solbiate Arno (VA), 3 partite e da lì a pochi giorni la comunicazione: “Filippo entrerà a far parte del Settore Giovanile rossonero”. Gli osservatori erano Mister Braga, Capello e Galbiati.

Due anni in Primavera e poi l’esperienza in serie C a Pescara, era il 1982, allenatore Tom Rosati, un omone grosso così con un animo buono che comprese i miei problemi fisici: soffrivo di pubalgia che mi consentiva di sostenere solo un allenamento giornaliero. Mister Rosati fu condiscendente e mi seguì con cura. Insieme a lui la famiglia Grossi e Giuliano , tifosi del Pescara e del Milan, che mi fecero sentire a casa. RELAZIONI e CONTESTO mi hanno aiutato in questo delicato passaggio della mia traiettoria di carriera, insomma, anche grazie a loro l’annata fu positiva e il Milan mi richiamò tra le sue fila. Stagione 1983-84, allenatore Ilario Castagner, un altro che, nonostante non m’avesse impiegato nel derby dopo due partite giocate molto bene (una contro la Lazio di Miki Laudrup) fu straordinario nella mia gestione. La Presidenza del Club era a quel tempo nelle mani di Giussy Farina, persona bizzarra a cui non si poteva voler male, nonostante le modalità non proprio signorili, anzi!: “Alla fine della prima stagione andai in scadenza di contratto, mi convocò in sede per il rinnovo, mi fece aspettare sei ore. Entrai nell’ufficio mi salutò e mi sottopose il contratto pressochè identico, lo firmai e mentre mi stavo alzando per uscire mi disse con accento vicentino: “Ti gò ciavà un’altra volta!”…geniale!

La gestione di Milanello era “particolare”: andavamo in ritiro per preparare la partita della domenica, per trovare concentrazione e le sale del centro venivano affittate per accogliere feste di compleanno o di matrimonio…vi lascio immaginare. Come molti sapranno il Club fu vicino al fallimento e come spesso accade il momento di crisi divenne opportunità. Dopo una lunga trattativa il Milan passò sotto il controllo dell’azienda FININVEST guidata da Silvio Berlusconi, imprenditore rampante, fucina di idee, visionario, deciso a portare il Milan a vincere in Italia e poi sul tetto d’Europa e del Mondo. Questa la vision ora bisognava realizzarla. Ciò che mi colpì fu l’attenzione alle persone, alla loro storia, l’attenzione ai particolari, insegnamenti che ancor oggi porto con me: Invitati ad una convention di Publitalia (la concessionaria di pubblicità delle reti televisive di FININVEST) a Saint Vincent, Berlusconi tenne un “discorso a braccio” di quasi un ora e poi la cena conviviale: il Presidente passò in ciascuno dei 12 tavoli parlando con gli invitati di cui conosceva nome, cognome, azienda di appartenenza, hobbies, la squadra per cui tifavano e molti altri dettagli.

L’organizzazione societaria era pressochè perfetta. Il Presidente e la dirigenza, dopo l’esonero del tecnico Liedholm e dopo aver affidato a Mister Capello la squadra per il finale di campionato compreso il play-off vinto con la Sampdoria per partecipare alla Coppa Uefa, scelsero un nuovo allenatore: Arrigo Sacchi, era il 1987. Innovativo, metodico, maniacale Sacchi portò una nuova mentalità, quella cioè di affrontare ogni avversario, in casa o fuori, con il preciso intento di dominare la partita attraverso il controllo degli spazi. Arrigo portò anche un nuovo metodo di allenamento che, pur prevedendo un alta percentuale di “lavoro a secco” con il preparatore atletico Vincenzo Pincolini, contemplava anche tante esercitazioni “situazionali” in cui si replicava ciò che poteva accadere in partita.

L’unità di intenti, la scelta di giocatori funzionali all’idea di calcio che si voleva giocare e la loro professionalità hanno consentito di raggiungere gli obiettivi proclamati all’inizio. Quando la leadership di Sacchi cominciò a venir meno, la società scelse Fabio Capello come suo successore. Scelta che risultò altrettanto vincente. Nel novembre del ’96 lasciai il Milan per la Reggiana, due stagioni a Reggio Emilia, tre stagioni a Brescia, poi Watford nel Championship inglese ed infine poco più di una stagione e mezza nella Pro Sesto in C2. Mi sono ritirato all’età di 40 anni e, dopo qualche mese lontano dal calcio, sono rientrato al Milan grazie ad Ariedo Braida e ad Adriano Galliani, con il ruolo di assistente tecnico nello staff di Franco Baresi allora allenatore della Primavera rossonera. Dopo due anni la nomina ad allenatore responsabile della squadra, carica che assumerò per due stagioni per poi entrare nello staff tecnico della Prima squadra, guidata da Ancelotti e Tassotti, nella stagione 2008-09.

Ricordo che da assistente alla “Primavera” uscivo con qualche giocatore una mezzoretta prima dell’inizio dell’allenamento per far fare loro esercizi di tecnica nella convinzione, così come mi era stato detto da giocatore, di poterla migliorare in quel modo: lanciavo la palla, con le mani, al giocatore che la colpiva di interno piede, dx e sx, poi con il collo del piede, quindi chiedevo un controllo prima di restituire la palla senza che la stessa cadesse a terra, quindi passaggi a coppie, a terne, con quattro giocatori, utilizzando tutte le parti del piede, quindi ci si allontanava fino a raggiungere la distanza in cui non era più possibile calciare con l’interno del piede ma era necessario utilizzare il “mezzo collo” o il collo pieno indicando di volta in con quale parte del piede si sarebbe dovuta calciare la palla per avere un passaggio forte, teso e preciso, piuttosto che. Così, mi avevano spiegato e convinto, si migliora la tecnica.

Quando ho assunto la guida della squadra ho realizzato ancor più chiaramente come tutto fosse separato: in particolar modo lo erano tecnica e tattica rispetto alla parte fisico-atletica. I preparatori atletici di Milan Lab arrivavano con il lavoro stabilito e chiedevano i 20-30 minuti di lavoro: “la squadra esce con noi poi passa a voi per la parte tecnica”, nessun confronto, tutto prestabilito, si discuteva sull’avere qualche minuto in più per il lavoro con il pallone oppure aggiungerne qualcuno in più per la corsa o il lavoro in palestra. Dal punto di vista metodologico, in quei due anni, mi ha aiutato molto la presenza nel mio staff di Angelo Castellazzi e, soprattutto, di Andrea Maldera che avevano lavorato nell’attività di base del club e che avevano già una visione sistemica, seppur in fase embrionale, dell’allenamento.

Il Settore Giovanile in quegli anni organizzò un corso in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano con il gruppo di lavoro coordinato dalla Prof.ssa Caterina Gozzoli. Un corso che aveva come scopo quello di sensibilizzare i tecnici rispetto alle modalità relazionali con i colleghi e con i giovani calciatori. Un’esperienza che mi tornerà utile più avanti. Al termine della stagione 2007-’08, Billy Costacurta, mio ex compagno di squadra e componente dello staff della 1^ squadra, accettò l’offerta del Mantova dandomi, di fatto, l’opportunità di entrare nello staff di Carlo Ancelotti e Mauro Tassotti: fu un anno equivalente ad un Master!

Al termine della stagione il Club, nella persona del suo AD, Adriano Galliani, mi nomina Responsabile del Settore Giovanile. Lo scopo di un settore giovanile, in sintesi, è quello di formare i giovani calciatori e, oggi, anche giovani calciatrici, che possano arrivare alla Prima Squadra o al professionismo o, in caso di contesto dilettantistico, di migliorare i giocatori affinchè possano essere attenzionati da un club prof o, comunque, creare le condizioni affinchè ciascun talento possa esprimersi al massimo del proprio potenziale.

Gli incontri importanti sono stati molteplici: Domenico Gualtieri, sport scientist e preparatore atletico responsabile di Milan Lab per il Settore Giovanile, Edgardo Zanoli arrivato come scout su indicazione di Silvio Broli allora responsabile dell’Attività di Base, Stefano Baldini tecnico e formatore, Fulvio Fiorin, già tecnico delle giovanili a cui si aggiunse Attilio Maldera.

Nel Settore Giovanile la squadra in cui si riconosce l’identità del movimento è la “Primavera”, allora U19. La scelta fu quella di nominare un nuovo allenatore: Giovanni Stroppa allora tecnico dell’Attività di Base. A condurmi a questa scelta fu, soprattutto, l’importanza che ritenevo avesse l’idea di gioco e quindi la proposta di gioco delle squadre. Se l’obiettivo del Settore Giovanile è quello di formare giocatori che possano giocare a San Siro, che vogliano comandare il gioco e che vogliano divertire il pubblico, aspetto caro al Presidente Berlusconi, era necessario fare in modo che, a partire dai più grandi, le squadre provassero a giocare in quel modo e, pertanto, si allenassero di conseguenza. Mi guidarono il mio vissuto con Mister Sacchi prima e Mister Capello poi nonchè l’arrivo nel panorama calcistico europeo del Barcellona di Rijkaard e successivamente di Guardiola, una squadra che dominava le gare attraverso il possesso del pallone. Stroppa aveva vissuto il calcio di Sacchi la cui peculiarità era la volontà di dominare il gioco attraverso il controllo dello spazio, e aveva vissuto anche l’esperienza di Zeman, allenatore offensivo: queste le ragioni della mia scelta. Mettere i giocatori nelle condizioni di migliorarsi attraverso il gioco, attraverso una determinata proposta di gioco.

Questa idea si rafforzò ancor di più quando il Club cambiò modello di business (2011-2012) che culminò con la cessione di Ibra e Thiago Silva Al PSG): minori investimenti e conseguente impossibilità di acquistare giocatori di prima fascia per la Prima Squadra. La ricaduta sul Settore Giovanile fu quella di non poter più investire per acquisire giocatori nelle categorie superiori a quella dell’U15. Questo cambiamento determinò la necessità di dover lavorare ancor più a fondo dal punto di vista metodologico sui giocatori del territorio lombardo e su quelli, quattordicenni, che invece provenivano da altre regioni d’Italia.

Insieme al gruppo di lavoro, in particolare Gualtieri, Baldini e Dolcetti, e dopo aver chiesto autorizzazione al nostro AD, cominciammo a visitare i vivai dei club competitors, e non solo, del Milan, quelli cioè che partecipavano con continuità alla Champions’ League e che avevano diversi giocatori della “rosa” cresciuti nel proprio Settore Giovanile: Ajax, Barcellona, Anderlecht, Athletic Bilbao, Arsenal, tra gli altri.

Una cosa ci colpì: la coerenza e la continuità di principi che questi club avevano all’interno dei loro vivai, dalla squadra dei più piccoli fino alla loro “Primavera” e, in alcuni casi, fino alla loro prima squadra.

Tutto molto diverso, almeno per quella che era stata la mia percezione negli anni precedenti e, per quello che mi era dato di conoscere rispetto alle realtà italiane. Ci mettemmo pertanto a redigere una sorta di vademecum in cui erano indicate le linee guida su cui lavorare rispetto alle caratteristiche che dovevano avere i nostri giocatori (cominciammo a parlare non solo di ruoli ma di funzioni), su come dovessero giocare le nostre squadre e, va da sè, come si sarebbero dovute allenare. Il documento, mentre staff e squadre avevano già cominciato a lavorare in quella direzione, venne portato all’attenzione e all’approvazione dell’AD. Il documento era stato firmato da Mister Allegri e da Mister Tassotti che ci aiutarono ad avviare il progetto. Dopo qualche giorno il documento ci ritornò firmato. Avevamo l’investitura istituzionale. Ora dovevamo continuare a condividere i contenuti delle linee guida on tutte le professionalità.

Nel contempo, Silvio Broli ed Edgardo Zanoli che, per una serie di ragioni, dovettero dedicarsi al Progetto Giovani (tutte le attività per i giovani che non erano del Settore Giovanile) portarono i principi di lavoro presso le nostre scuole calcio in Italia (allora circa 150) e all’estero ( un ventina circa) per cui potemmo di fatto verificare l’efficacia di un approccio metodologico basato sulle teorie che affermano che l’apprendimento della tecnica e la conoscenza del gioco avvengano esattamente nella realtà del gioco. Anche nei contesti dilettantistici, anche dove i giocatori non erano selezionati, anche dove le strutture erano modeste: la differenza la faceva la volontà degli addetti ai lavori di abbracciare con convinzione un cambiamento metodologico che significava abbandonare il conosciuto, la cosiddetta zona-comfort. I feed-back che ci arrivavano ci davano ulteriore forza, convinzione. Non più un pensiero legato ad un apprendimento lineare (dal facile al difficile, dalla tecnica individuale alla situazione di gioco) ma un pensiero per cui l’apprendimento avviene nella complessità del gioco.

Ora, come detto, era necessario condividere, non solo con gli allenatori bensì con tutte le professionalità questa idea legata all’apprendimento. Questo approccio considera gli aspetti mentali, emotivi, relazionali, come parte integrante del contesto che favorisce o meno l’apprendimento del gioco. Temi toccati dalla Dott.ssa Gozzoli nel corso, sopra accennato, a cui avevo partecipato tre anni prima. Grazie al sostegno del club ci fu possibile implementare nel Settore Giovanile un’area psicopedagogica a sostegno dei nostri ragazzi, delle loro famiglie e del loro percorso. L’Area non aveva una funzione clinica ma era pensata per aiutare i ragazzi nella loro formazione calcistica. Era pertanto fondamentale che pedagogisti/e, psicologi/ghe fossero invitati/e ai momenti di formazione perchè, per poter davvero aiutare i ragazzi, dovevano necessariamente conoscerne i bisogni e, per conoscerne i bisogni, dovevano conoscere il gioco del calcio.

Abbiamo condiviso il nuovo approccio metodologico utilizzando una serie di dispositivi di lavoro che vedete nella slide seguente. Edgardo Zanoli, subentrato ad Aldo Dolcetti e a Stefano Baldini che, prima l’uno poi l’atro seguirono Max Allegri alla Juventus, e Domenico Gualtieri furono i veri protagonisti del cambiamento attraverso coordinamento e formazione delle professionalità.

La modalità degli incontri è sempre stata DIALOGICA, basata cioè sul CONFRONTO e non direttiva e unidirezionale. In questo modo, nel tempo, tutti si sono sentiti coinvolti, anche quelli più restii nel proporre idee, nel discutere e nel controbattere: erano co-costruttori di un nuovo metodo di lavoro. Una crescita delle conoscenze e delle competenze, non solo specifiche ma anche di quelle relazionali e di comunicazione che ha determinato uno sviluppo esponenziale del capitale umano in tutta l’organizzazione del settore giovanile. Non abbiamo imposto ma abbiamo condiviso in modo tale che tutti avessero comprensione di quello che stavano facendo. Comprendere ed agire, non eseguire.

A loro volta le figure professionali hanno portato sul campo questo nuovo approccio accompagnando il giovane giocatore nel suo percorso, incoraggiandolo e sostenendolo in ogni momento. Allenatori e professionalità intesi come accompagnatori e facilitatori del processo di formazione del giovane calciatore.

Entrando nello specifico dell’apprendimento del gioco del calcio, ed in estrema sintesi, siamo partiti dal presupposto che, in qualunque modo si voglia giocare, i principi regolatori del gioco siano essenzialmente due: SPAZIO e TEMPO a cui si aggiunge il sottoprincipio della CONDIZIONE NUMERICA che ne determina la comprensione.

SPAZIO e TEMPO vanno ricondotti al contesto della partita, del gioco che porta con sè elementi imprescindibili che, appunto, determinano il contesto di gara, l’ambiente in cui avviene l’apprendimento.

La nostra idea di calcio formativo si basava, sottolineo, su un CALCIO DI PRINCIPI e su UN CALCIO DI POSSESSO. Nella slide sottostante i parametri che questa modalità di calcio enfatizza e sollecita.

Ora un passaggio sulla tecnica.

Dunque non possiamo separare la tecnica dal contesto in cui necessita il suo utilizzo. L’organizzazione dei gesti motori è finalizzata ad un obiettivo che può essere il passaggio, il tiro in porta ed il dribbling ecc…ecc…ancora, la TECNICA ha lo scopo di risolvere una situazione di gioco, È STRUMENTO NON È UN FINE. Se voglio apprenderla devo necessariamente essere nel contesto del gioco che, come abbiamo detto, comprende la presenza dell’avversario.

Per concludere: ” “DA GIOCATORE A MANAGER: È POSSIBILE UNA COERENZA METODOLOGICA?”

Studi, ricerche, hanno consentito di sviluppare nuove teorie sull’apprendimento del gioco del calcio. Ho avuto la possibilità di sperimentarle, applicarle, condividerle, abbracciando un cambiamento che andava in contrasto o, perlomeno, in una direzione diversa rispetto a quanto vissuto da calciatore e da allenatore, nell’ottica di offrire un servizio adeguato ai tempi. Ringrazio tutti coloro che me lo hanno permesso.

2 risposte

  1. Complimenti Filippo per questo prezioso excursus della tua lunga e luminosa carriera professionale.
    A tratti nella tua scrittura sei sapientemente riuscito a sintetizzare, come in una sorta di Bignami calcistico, alcuni passi e movenze basilari a ricordare alle nuove leve odierne gli imprescindibili postulati per iniziare a giocare, con la giusta marcia, lo sport più antico di questo mondo!
    Un caro abbraccio.

    Massimo Baldoni

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