Ci sono fotografie che valgono più di mille cronache. Quella del 1966, ad esempio: Bobby Charlton che alza la Coppa del Mondo, i capelli spettinati dal vento di Wembley, il volto segnato da un’espressione che non è solo esultanza, ma quasi liberazione. Trent’anni appena, eppure ne dimostrava quindici di più. Era il calcio d’allora: crudo, senza filtri, in bianco e nero come le emozioni che suscitava.
Un’altra foto lo ritrae disteso su un letto d’ospedale, gli occhi ancora pieni di fumo e paura, sopravvissuto al disastro aereo di Monaco. Molti dei suoi compagni, i Busby Babes, non ce l’avevano fatta. Tra essi il mitico Duncan Edwards, morto dopo un paio di settimane di agonia, ritenuto all’unanimità il calciatore inglese più forte dell’epoca. E da quel giorno, per Bobby Charlton, ogni partita sarebbe stata un modo per ricordarli.
Sopravvissuto alla tragedia e rinato dalle sue ceneri, divenne il volto del riscatto inglese. Non soltanto il miglior calciatore del mondo, ma l’emblema di un modo di stare in campo: elegante, corretto, impassibile anche nel dolore. Un uomo che combatteva battaglie silenziose, vincendole con quel talento naturale che pareva appartenere a un’altra dimensione.
Sir Bobby aveva solo vent’anni quando tutto accadde. È lì, in quella ferita mai rimarginata, che nasce la leggenda. La parte centrale di una storia che lo trasforma da grande atleta a figura quasi mitologica, un simbolo non solo del calcio britannico, ma dell’intero sport moderno. Il suo tiro, potente e preciso è diventato una firma indelebile. Ma più del gesto tecnico, ciò che resta è l’uomo: la calma nel caos, il coraggio della misura.
Forse era scritto nel destino. Bobby veniva da una famiglia in cui il pallone era un’eredità più che una scelta: il fratello Jack, compagno d’impresa mondiale; quattro zii calciatori, tra cui il leggendario Jackie Milburn del Newcastle; e una madre, Cissie, che tifava con la stessa passione con cui si prega.
Dopo il disastro di Monaco, ebbe inizio la seconda vita di Sir Bobby Charlton, l’uomo che seppe unire la tragedia e la gloria in un’unica, inconfondibile parabola umana. Fu l’uomo chiave della rinascita del Manchester United, la pietra su cui Sir Matt Busby,superstite anch’egli di Monaco, decise di ricostruire la cattedrale crollata. Quando tutto pareva perduto, Charlton divenne la fiaccola che Matt accese di nuovo tra le macerie. Il ragazzo dagli occhi malinconici, sopravvissuto per caso, prese sulle spalle l’eredità dei caduti e la trasformò in missione.
Poco più di due mesi dopo il disastro, Sir Bobby esordì con l’Inghilterra, contro la Scozia a Hampden Park. Da quel giorno, il fuoriclasse inglese sommò 106 presenze in nazionale. Aveva debuttato con lo United nel 1956, contro il Charlton Athletic, e come in una profezia scritta nel nome dell’avversario, mise subito due palloni in rete nel 4-2 dell’Old Trafford. Da lì, la carriera divenne un lungo romanzo di fedeltà: 758 partite, 249 gol. Numeri da attaccante puro, ottenuti giocando da mezzala con il passo e la visione del regista antico.
Il campionato del 1956-57 fu il primo assaggio, ma la beffa della finale di FA Cup contro l’Aston Villa insegnò a Bobby che la gloria, nel calcio, è spesso impastata col dolore. Negli anni Sessanta, lo United rifiorì. A Charlton si unirono due figure destinate a entrare nel mito: Denis Law, l’attaccante scozzese comprato dal Torino, e un ragazzo irlandese dal dribbling ubriacante, George Best. Insieme, formarono un tridente che ancora oggi popola le memorie dei vecchi di Manchester: Law la furia, Best la fantasia, Charlton l’anima.
Con loro arrivarono la FA Cup del 1963 e i campionati del ’65 e del ’67, anni in cui il calcio inglese si giocava più sui prati infangati che nei salotti televisivi. In mezzo, il 1966, l’anno dell’apoteosi: Charlton Pallone d’Oro, miglior calciatore dell’anno e perno della nazionale di Sir Alf Ramsey. In Cile, quattro anni prima, aveva già mostrato la stoffa del campione; ma in Inghilterra, nel Mondiale della vita, si superò.
Contro il Messico, un destro da venticinque metri trafisse la rete come una fucilata d’altri tempi. In semifinale, i due gol al Portogallo di Eusébio valsero la finale e l’immortalità. A Wembley, contro la Germania Ovest, i fratelli Jack e Bobby Charlton caddero in ginocchio in lacrime dopo il 4-2 ai supplementari: due figli del Nord che avevano riscritto la storia della nazione.
Poi venne la Coppa dei Campioni del 1968, la notte di Wembley contro il Benfica. Charlton segnò ancora, due volte, di fronte a Eusébio, come a chiudere un cerchio iniziato due anni prima. Fu l’ultimo canto della grande orchestra di Sir Matt, prima che il tempo, impietoso, ne spegnesse la musica.
Il terzo capitolo della vita calcistica di Bobby Charlton comincia dove quasi tutti avrebbero messo il punto.
Dopo seicento partite con il Manchester United e più di cento con l’Inghilterra, dopo un Mondiale, una Coppa dei Campioni e due decenni vissuti tra trionfi e tragedie, chiunque avrebbe potuto congedarsi dal calcio con un inchino e un applauso. Non Bobby. Così, nel 1974, si ritrovò a Preston, nel Nord-ovest, a condividere la panchina con Nobby Stiles, compagno di tante battaglie, occhiali spessi e sorriso da uomo che ha visto di tutto. Due eroi del ’66 in un club che cercava soltanto di sopravvivere. Ma non bastava il carisma, né il nome inciso sulla Coppa del Mondo. Il Preston finì giù, in Terza Divisione, e Charlton scoprì quanto può essere amaro il mestiere dell’allenatore: discussioni con la dirigenza, trasferimenti saltati, sogni logorati dalle carte e dai bilanci. Alla fine lasciò, senza rancore ma anche senza un piano.
Poi, un giorno del 1976, arrivò l’offerta più improbabile di tutte: Waterford United, Irlanda. Non l’America luccicante di Pelé o Chinaglia, ma un campionato modesto e genuino. Lì, in un inverno di pioggia e fango, Sir Bobby ridiventò soltanto Bobby: centrocampista fra ragazzi che lo guardavano come si guarda una leggenda che ha sbagliato fermata. Al debutto segnò, fece segnare, e il pubblico raddoppiò. Le casse si riempirono per un po’, i giornali titolarono con entusiasmo. Ma la magia durò lo spazio di qualche settimana: gli incassi promessi non arrivavano, gli accordi cadevano a pezzi, e Charlton capì che anche la nostalgia, a volte, costa più di quel che rende.
Oramai ultra quarantenne e ritiratosi dalla nazionale dei Tre Leoni da quasi un decennio, Sir Bobby Charlton decise di accettare dei contratti a gettone in Australia. Ben sette anni dopo la sua ultima apparizione con il Manchester United, Sir Bobby Charlton riemerse dall’album dei ricordi per tornare a calcare i campi polverosi d’Australia. Erano gli ultimi scampoli degli anni ’70; il calcio laggiù cercava ancora un’identità e, per farsi notare, chiamava a raccolta le vecchie glorie d’Europa: George Best, Bobby Moore, Alan Ball. Uomini che avevano illuminato Wembley e Old Trafford, ora in viaggio verso l’altro emisfero per seminare un po’ di passione tra stadi improvvisati e notti d’estate.
Charlton finì ai Perth Azzurri. Nome e maglia dicevano tutto: un blu acceso, quasi mediterraneo, e sul petto la bandiera italiana. Un club fondato dagli emigrati che avevano portato con sé il pallone come memoria e come lingua. Sir Bobby segnò ancora. Due gol, quarantadue anni suonati, e cinquemila persone stipate sugli spalti per vederlo calciare come ai tempi di Busby. L’ultima rete arrivò con il Blacktown, il 9 marzo del 1980: un destro che beffò il portiere e scrisse l’epilogo di una carriera che nessuno, nemmeno lui, aveva mai voluto chiudere davvero. A quarantadue anni e cinque mesi, Charlton diventò il marcatore più anziano della massima serie australiana. Nessuno lo ha ancora superato.
Non sono stati i freddi numeri a definire Bobby Charlton, bensì la grazia antica dei suoi gesti, quella malinconia che appartiene ai sopravvissuti. L’ultimo dei Busby Babes, l’uomo che aveva visto la morte in faccia a Monaco e aveva continuato a giocare come se ogni partita fosse un modo per ringraziare la vita. La quintessenza del calciatore britannico: glaciale, leale, implacabile. Quando nel 2023 se n’è andato, dopo anni di lotta silenziosa contro la demenza, la stessa che aveva portato via suo fratello Jack, l’Inghilterra ha salutato un pezzo della propria memoria.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.










Una risposta
Un bellissimo racconto.
Grazie