Immaginiamo un’aula di università del Kent, in cui un docente di un’ipotetica disciplina nota come semiotica calcistica domanda agli studenti: “Chi di voi sa cos’è una Magic Box?”. Alcuni pensano a una console giapponese. Altri, più colti, rispondono che è un concetto astratto della post-modernità. Uno solo, col sorriso da intenditore, esclama: “Gianfranco Zola!”. Perché sì, Magic Box è stato lui: Gianfranco Zola da Oliena. Oliena, non Oslo, non Otranto — quella della Ruota della Fortuna del Mike nazionale — ma Oliena, che negli anni ’90 diventò la risposta più gettonata nel gioco di Nomi, Cose e Città.
Un luogo che pare scolpito nel pane carasau e nel granito della Barbagia, da cui sgorgò questo piccolo grande uomo che un tempo, da ragazzino, giocava nel Pane Carasau. Che non è un errore, ma la squadra di paese, sì, proprio come la pietanza. E siccome i soprannomi, come le ginocchia, arrivano sempre dai campi polverosi, lo battezzarono “Il Merendina”, perché era ghiotto di merendine del bar di famiglia. Poi fu Nuorese, Torres e panchina, all’inizio, dietro a un certo Lubbia — ex vivaio Torino — che, ironia delle favole calcistiche, avrebbe appeso le scarpette a soli 25 anni. Il calcio è beffardo, e Zola, il più minuto del gruppo, quello che sembrava destinato a una carriera tra C1 e C2, cominciò a prendere forma.
E lì lo scoprì Luciano Moggi, o meglio, lo fece scoprire un certo Nello Barbanera, uomo di calcio scomparso troppo presto. Moggi ne intravide il potenziale e lo volle a ogni costo. E fu Napoli. Sbarcò sotto il Vesuvio a 22 anni, con gli occhi grandi e la mente aperta come una spugna. “Per me Maradona era il tuo Satta o la tua Deledda. Il mio Hemingway, per capirci”. E lo capivamo, eccome. Giocava dietro Diego, ne assorbiva gli umori e le magie. Maradona, appena lo vide, scherzò: “Finalmente avete comprato uno più basso di me.” Quando poi se ne andò, non esitò: “Non comprate nessuno. Avete già Zola“. Zola imparava. Zola cresceva. Zola studiava. Non era figlio del talento puro, ma dell’arte dell’adattamento, quella virtù che i latini chiamavano ingenium e che nel calcio diventa geometria delle scelte. Quella virtù e quell’apertura mentale che gli permise di accettare usi e costumi inglesi senza battere ciglio. Quasi un unicum per i figli del Belpaese.
Data la precaria situazione economica della società presieduta dall’Ingegner Ferlaino, Zola fu sacrificato sull’altare del bilancio. Il Napoli accetto l’offerta del Parma, dove danzò tra i fantasmi di Brolin e Asprilla, orchestrando calcio con la levità di un poeta della palla (celebri le serpentine in qualsiasi zolla del campo). Vinse in Europa. Innamorò. Ma poi venne Ancelotti, allora allergico ai numeri 10 come i bimbi all’olio di ricino. Il primo Ancelotti, parafrasando le parole dello stesso Zola, non rivolte comunque al mister di Reggiolo, fu tra i primi a dare il via alla transizione del fantasista verso la fascia. Il fuoriclasse di Oliena era troppo abituato a partire dal centro, come i classici 10 vecchia scuola. Si stava avvicinando l’epoca della sparizione del numero 10 come lo abbiamo conosciuto. E allora, direte voi, la carriera ad alti livelli di Gianfranco Zola finì? Macché. L’apogeo doveva ancora venire.
A Londra lo avevano chiamato Magic Box. E una parte di verità c’era, ma solo una parte. Perché quella scatola non conteneva solo la magia: custodiva disciplina, dolore, risate da bambino e precisione da orologiaio svizzero. Conteneva l’idea romantica che si potesse ancora giocare per bellezza e non solo per risultato. Quando il Nostro arrivò in Inghilterra, nel 1996, il calcio di Albione era ancora grezzo, diretto, ruvido. Era la Premier dei tackle a due gambe, dei portieri con la maglia larga e variopinta, degli stadi con l’eco nei tubi. E in quel contesto, arrivò lui, minuto, gentile, con lo sguardo da artista e il pallone tra i piedi come fosse una piuma. Non era giunto a conquistare, ma a dialogare con il pubblico. Eppure, conquistò. Lo Stamford Bridge, che da anni attendeva un eroe, se ne innamorò subito. Sette stagioni, sei trofei. Ma i numeri sono mappe incomplete, e Zola non va contato con freddi numeri: va vissuto.
Il Sun, che non lesina in iperboli ma sa riconoscere un’anima bella quando la vede, lo mise dietro solo a George Best tra gli artisti assoluti del football inglese. George Best. Poi Zola. Nessun altro. E pensare che l’Italia, madre poco premurosa, lo aveva relegato ai margini. Un’espulsione beffarda contro la Nigeria a USA ’94 — colpa di un arbitro più confuso di un paroliere stonato — e quel rigore sbagliato con la Germania a Euro ’96. La Nazionale come il cortile da cui eri stato escluso pur portando il pallone. Il Calimero azzurro, lo chiamavano alcuni, con affetto misto a dispiacere.
Ma a Londra, Zola si costruì una Nazione tutta sua. Si fece subito amare perfezionando la lingua e sfoggiando un inglese ogni volta più fluent. Con i piedi parlava ancora meglio. Ogni punizione era un haiku. Ogni tocco, un dialogo tra matematica e poesia. Gli inglesi lo amavano come si ama chi ti cambia le domeniche. Gary Lineker, che di attaccanti se ne intende, lo definì “il miglior straniero mai visto in Premier”. A renderlo speciale non erano solo le giocate — i tunnel, i colpi sotto, i serpentini, le parabole liftate. No. Era lo spirito. L’assenza di ego, l’etica del lavoro, lo spirito di sacrificio. Quella capacità rara di rendere semplici le cose che sembravano oltrepassare i limiti dell’impossibile.
Zola aveva il baricentro basso — come i grandi numeri 10 del passato — e con esso scivolava via alle marcature come un concetto troppo elevato per essere trattenuto. I suoi gol erano gesti che sembravano citazioni di un testo che non avevi ancora letto ma che sentivi tuo. E poi, la notte di Stoccolma. Finale di Coppa delle Coppe, 13 maggio 1998. Entra al 71°, acciaccato. Dopo 21 secondi, uno stop perfetto, un destro sotto la traversa. Un lampo che accese il firmamento del Chelsea, ancora orfano di Champions. Un gesto che sembrava dire: “Io sono qui per questo. Non per esserci, ma per cambiare la storia.”
Alla fine del viaggio, quando il corpo iniziava a chiedere tregua, tornò dove tutto era cominciato: Cagliari. Ma non fu epilogo, fu epica. Trascinò i rossoblù dalla Serie B alla salvezza in A. Segnò 9 gol, comprese due perle in una notte di incanto contro la Juve, i soliti giganti contro cui il piccolo Zola danzava, irridente e ispirato. Più di 200 reti in carriera. Ma la grandezza di Zola non risiede in quello che ha fatto. Sta in quello che ha reso possibile per gli altri. Senza di lui, Vialli non avrebbe osato. Di Matteo, Di Canio, Ravanelli forse non avrebbero guardato a Nord Ovest. È stato un ponte tra due culture calcistiche, un ambasciatore discreto e gentile di un’Italia tecnica e sensibile, non solo cinica e tattica.
Diego Armando Maradona aveva ragione: Zola non era un’imitazione. Era una nuova lingua calcistica. Il classico leader silenzioso che non gridava, ma incantava. Alla fine, ci resta la frase che lui stesso ha detto, senza enfasi, come sempre: “Cosa è stato il calcio nella mia vita? Felicità, felicità e basta”. E lì capisci tutto. Che la felicità, per Zola, non si limitava a vincere trofei. Voleva dire giocare bene. Farlo con stile, con rispetto, con passione intelligente. Come se la bellezza fosse un dovere morale. Come se ogni partita fosse un gesto poetico, un dono da lasciare al mondo. D’altronde, il calcio, quello vero, non certi surrogati, è l’incontro tra l’essenziale e ciò che incanta. E Gianfranco Zola, Magic Box, è stato uno dei pochissimi a donarci entrambe le cose.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
Una risposta
Splendido omaggio ad un grande calciatore che è anche un uomo speciale