FILOSOFIE NON REPLICATE

Il calcio di oggi non appartiene più a un solo Paese. Le idee viaggiano come merci in un porto: entrano, escono, cambiano mani. Tutti ormai giocano la palla dal basso, dai giganti della Champions fino alle nazionali che una volta campavano di lanci lunghi e speranze. L’anno scorso, guardando un Far Oer–Macedonia, ho visto i nordici far girare palla con calma, come se fossero il Barcellona di Guardiola. E non era un’amichevole estiva: era una gara vera, giocata fuori casa, contro avversari più quotati.

Negli ultimi anni, dalle periferie del calcio, sono arrivati segnali forti. L’Ajax di Ten Hag, capace di sfiorare una finale di Champions e poi svenduto pezzo per pezzo. Lo Sporting di Amorim, che ha imposto il suo gioco in Portogallo e in Europa fino alla chiamata dello United. Due tecnici pieni di idee, risucchiati dallo stesso buco nero: quel Manchester post-Ferguson che divora allenatori e sogni come se fosse maledetto, alla maniera del Benfica dopo l’anatema di Béla Guttman. In patria erano maestri, a Manchester sono diventati studenti sotto esame.

E poi c’è il Bodø/Glimt, che a sentirne il nome sembra quasi uno scherzo di geografia. Con Kjetil Knutsen in panchina ha cambiato la faccia del calcio norvegese: niente più palle alte per i giganti biondi, ma passaggi rapidi, sincronismi, gioco collettivo. Lì conta il gruppo, più che i singoli. A Tottenham, in una notte di coppa, hanno fatto sudare gli inglesi e in campo c’era persino Aleesami, sì, proprio quello visto a Palermo: un difensore goffo, che in Italia aveva lasciato pochi ricordi e nessuna nostalgia.

Analizziamo brevemente alcuni tratti distintivi di queste tre compagini. Si tratta di tre esempi calzanti, tuttavia non esaustivi.

Bodø/Glimt di Knutsen

Le rotazioni dei ragazzi di Knutsen paiono un gioco di prestigio: il terzino che sale, l’interno che finge di smarrirsi, l’ala che taglia dentro a pungere. Gli Spurs sembravano invitati a una corrida senza aver visto il toro. I norvegesi non forzano nulla: tengono la palla, la coccolano, l’addormentano. Aspettano solo che qualcuno del Tottenham si distragga e apra un varco tra centrale e laterale. Allora parte il passaggio verticale. Se lo sbocco non c’è, non si affannano in dribbling da baraccone: riportano la sfera al cuore del gioco e ricominciano da capo, fino a che il taglio non viene seguito. Schema, ordine, pazienza nordica.

Sporting di Amorim

Amorim è tutto fuorché un tecnico dogmatico. Sa premere alto come un indemoniato e sa anche arretrare se il contropiede nemico fa paura. Il suo 3-4-3 è una coperta corta solo per chi non capisce che dietro concede briciole. In avanti, invece, è un continuo cercare il triangolo: centrali che escono palla al piede, mediani che scompaiono e riappaiono, ali che tagliano a creare lo spazio giusto. Non un’orgia di possesso fine a sé stesso, ma una trama tessuta con metodo. Amorim non inventa il gioco: lo aggiusta come un meccanico di lusso, ingrassando i cuscinetti e riducendo i rischi.

Ajax di Ten Hag

L’Ajax di Ten Hag fu l’utopia resa squadra. Calcio liquido, dicevano “quelli bravi”. A me sembrava piuttosto mercurio vivo: impossibile afferrarlo, scivolava dappertutto. Pressione alta, difesa al limite del ridicolo in quanto avanzata, triangoli su triangoli finché non veniva il mal di testa agli avversari. Geometrie perfette, quasi da compasso: il terzino che stringe, l’esterno che resta largo come una bandierina, la densità tutta sul lato forte, con esterno sinistro larghissimo, e poi improvviso cambio di fronte. Un calcio da equilibristi, capace di trasformare la perdita di palla in un agguato immediato: riaggressione feroce, collettiva, in ogni zolla. Non era solo gioco: era frenesia organizzata, scienza travestita da arte.

Perché queste filosofie non sono state replicate?

Sarebbe comodo, troppo comodo, incolpare tutto e tutti: la dirigenza dello United, l’ambiente, la stampa inglese che ti osanna al lunedì e ti crocifigge al venerdì. Ma la verità è più semplice, e proprio per questo più scomoda: certe filosofie calcistiche non sono esportabili. Sono organismi viventi, nascono e crescono in un terreno preciso, respirano un’aria precisa, e muoiono appena cambiano latitudine. Ten Hag lo ha detto chiaramente, con la sincerità di chi ha smesso di raccontarsela: «Questo calcio si insegna ai bambini». Già, perché l’Ajax che fece tremare l’Europa era un’idea cresciuta nei campi polverosi dell’Olanda, dove il possesso palla è un dogma e la libertà tattica è un obbligo morale. Non si improvvisa un secolo di scuola calcistica.

Luis Enrique lo imparò a sue spese a Roma, dove il suo gioco a tocchi e linee alte fu travolto da un ambiente che brucia allenatori e sogni con la stessa disinvoltura. E lo stesso accadde a Sacchi in Spagna, dove il verbo del pressing non attecchì, come certe colture che non trovano il clima giusto. Tutte quelle squadre, ovvero l’Ajax dei ragazzi di Ten Hag, il Barcellona di Guardiola e Luis Enrique, lo Sporting di Amorim, persino il Bodø/Glimt di Knutsen, avevano un denominatore comune: una lingua condivisa. Non il calcio come mestiere, ma come cultura. I giocatori crescevano insieme, imparavano lo stesso alfabeto tecnico, la stessa grammatica tattica, la stessa sintassi del movimento. Quando tutto funziona, è come un’orchestra che suona a memoria: non c’è bisogno di guardarsi, perché ognuno sa già dove andrà l’altro.

Ma basta spostare un singolo musicista in un’altra banda, e la sinfonia si trasforma in rumore. Ecco perché tanti “fenomeni” appassiti fuori casa sembrano improvvisamente normali. Non si sono spenti loro: è venuta meno la corrente che li alimentava. Il calcio vive di contesti. Guardiola, se non avesse trovato La Masia, forse sarebbe rimasto un brillante teorico. Amorim, senza lo Sporting costruito su misura, sarebbe stato un nome da scommessa. E Ten Hag, senza l’Ajax che gli ha cucito addosso un pensiero collettivo, non avrebbe mai fatto scuola.

Quando uno di questi tecnici cambia ambiente, deve rifare tutto da capo. E se non trova l’humus giusto, il miracolo non si ripete. È facile se hai dietro uno sceicco che ti compra il tempo e ti costruisce la squadra come vuoi tu. Ma prova a farlo in una polveriera come lo United, dove ogni pareggio è un processo e ogni sconfitta un referendum. Il calcio moderno si ostina a credere che il denaro basti a tutto. Ma la verità, e lo sanno bene gli olandesi, i norvegesi e gli uomini del buon senso, è che non puoi comprare la cultura calcistica. Puoi solo coltivarla, lentamente, con la pazienza dei contadini.

Ecco perché certi miracoli non si ripetono: perché non nascono da un conto in banca, ma da un modo di pensare.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *