E SE IL CALCIO RIPARTISSE DAL VOLLEY?

Lo sport italiano sta vivendo un autunno 2025 molto particolare: da un lato c’è la Nazionale azzurra di calcio, impegnata in una disperata rincorsa per un posto al Mondiale 2026, dall’altro ci sono state le selezioni azzurre volley, capaci di confermarsi sul tetto del Mondo sia nel contesto maschile che in quello femminile. Da questi successi una domanda è sorta a tanti sportivi: perché l’Italia domina così tanto e così profondamente nel volley? Parliamo di un’egemonia mondiale con pochi precedenti, esercitata sia al maschile che al femminile, con due vere e proprie, nuove, “generazioni d’Oro” e che si estende dal livello senior a quello giovanili. Quali sono le ragioni strutturali di questo successo e, soprattutto, possono queste essere replicate per rianimare il movimento calcistico?

Se sintetizzassimo, come punto di partenza, l’attuale situazione calcistica, potremmo iniziare col dire che il calcio è l’autobiografia del nostro Paese. È un luogo comune risaputo, ormai, ritenere questo sport come lo specchio metaforico su cui proiettiamo la nostra vita pubblica, in cui i fallimenti della Nazionale diventano un riflesso del declino generale politico-economico: con il ricordo dei successi del passato che provocano una nostalgia per un’Italia che contava di più ed era più prospera economicamente. I social network sono pieni di pagine nostalgiche dove si celebrano, di pari passo, Paolo Rossi e Maradona assieme a Sandro Pertini e, magari, Bettino Craxi. Anche i ruoli dirigenziali appaiono gestiti da figure politiche troppo deboli, incapaci, o impossibilitati, di fare una riforma totale del sistema calcio, che pure è in crisi da almeno 15 anni. I vari Abete, Tavecchio e Gravina sono apparsi, agli occhi della critica, più dei “Re tentenna”, in balia dei club e delle varie leghe, che dei veri riformatori del sistema, e quindi delle figure assai distanti, non solo dal totem Artemio Franchi, ma anche da un Tonino Matarrese. Unica costante trasversale del calcio italiano sembra essere la divisione tribale tra le tifoserie, una prerogativa potentemente italiana, nel suo essere erede delle guerre medievali tra città, o del rito del Palio di Siena in cui scongiurare la vittoria della contrada nemica è più importante di sperare nell’affermazione della propria. Inutile ricordare i caroselli gioiosi in Italia dopo il successo del PSG sull’Inter nella finale di Monaco di Baviera, partita che, in verità, ha frantumato un po’ tutto il sistema Serie A, visto l’esito tennistico della sfida.

Il volley invece si presenta in modo diverso, l’anima di questo sport è “provinciale” nel senso genuino e positivo del termine. I campionati professionistici vedono, infatti, il dominio di realtà legate alle comunità provinciali del nostro Paese come: Modena, Macerata, Civitanova, Conegliano, città che raramente si trovano nella Serie A di calcio. Prendiamo come esempio la Imoco Conegliano: parliamo di una società molto giovane, con sede nella città veneta, che negli ultimi anni ha dominato il volley femminile mondiale. La Imoco si mostra come simbolo di quella alleanza tra pallavolo ed economia italiana che è alla base della fondazione recente delle “Pantere”. Coloro i quali curano le vigne, da cui si ricava il Prosecco, realizzano le botti in legno in cui si affina e producono le etichette da apporre sulle bottiglie con cui viene imbottigliato e infine commercializzato, hanno partecipato alla creazione di una squadra-distretto, che in poco più di un decennio è diventata leggendaria. La Imoco è diventata talmente grande che, con il suo pubblico cresciuto in modo esponenziale rispetto ai successi, ha già mostrato l’interesse ad approdare nella nuova arena veneziana da diecimila posti, che verrà inaugurata nel 2026. Per semplificare l’esempio: la Imoco si è approcciata alla pallavolo con una programmazione, che nel calcio, abbiamo visto fare solo dall’Atalanta, ovvero scouting, cura del vivaio e ricerca dei talenti stranieri in grado di alzare il livello medio, e in tempi brevi ha ottenuto gli stessi successi del Manchester City, senza gli investimenti degli sceicchi. Ovviamente a livello di club, tra calcio e pallavolo, è azzardato fare paragoni in termini di successi, semplicemente perché il giro di business è diverso, nel volley i club italiani non subiscono, a differenza di calcio e basket, la concorrenza danarosa anglo americana. Tuttavia è bene sottolineare come anche nella pallavolo qualche top player sceglie di inseguire contratti più ricchi all’estero : i due MVP dei titoli mondiali, Romanò e la Orro, infatti, giocheranno all’estero. La differenza però, rispetto al calcio, è che queste partenze non appaiono come “sacrifici” ma piuttosto come parte di un percorso. Quando Paola Egonu lasciò, da miglior pallavolista al Mondo la Imoco Conegliano per volare in Turchia, il club veneto aveva già preparato la sua erede: Isabelle Haak, tanto che le venete continuarono il loro ciclo vincente. Da questo resoconto mi preme quindi sottolineare che la differenza tra la due consiste nella programmazione, onnipresente nella pallavolo e approssimativa o improvvisata nel calcio.

La programmazione è la base della pallavolo italiana, e si intravede già nel modo con cui questo sport si avvicina ai giovani: un approccio che nasce nelle scuole ed è un unicum negli sport del nostro Paese. Il successo italiano, e di riflesso globale, ha una matrice scolastica. Il connubio pallavolo- scuola nasce alle origini di volley, già negli anni ’50 si insegnava questo sport alla mattina nelle palestre scolastiche e poi vi tornava al pomeriggio per insegnarlo nuovamente agli allievi reclutati nelle nascenti società sportive.

Molti tra i pionieri tecnici di questo sport erano insegnanti: come Franco Anderlini, professore di educazione fisica e giocatore di volley che vinse i primi scudetti a Modena e che poi negli anni Settanta diventerà allenatore della leggendaria Panini. Tutti i coach della pallavolo, soprattutto quelli delle giovanili, hanno mantenuto questa attitudine da insegnanti, e per capirlo basta leggere uno dei tanti libri scritti dai tecnici più vincenti: Julio Velasco o Ferdinando De Giorgi. Recentemente mi è capitato di leggere “Egoisti di squadra” scritto dal commissario tecnico della nazionale maschile, il 5 volte campione del Mondo, Ferdinando “Fefè” De Giorgi: il volume è un condensato di valori, insegnamenti tratti dalle sue esperienze, nel quale è più marcata la sua volontà di trasmettere o insegnare principi piuttosto che autocelebrare la sua carriera. Si nota da subito una enorme differenza, senza generalizzare, rispetto ai tanti libri scritti da allenatori di calcio, più dediti al racconto cronologico della propria carriera e che al più si soffermano sulla gestione dello spogliatoio.

Un percorso simile ad Anderlini lo ebbe Alfa Garavini, insegnante di educazione fisica, partita dalla periferia di Ravenna per fondare la prima dinastia del volley femminile italiano: quella dell’Olimpia Teodora, coinvolgendo nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta le sue studentesse. Il lavoro pionieristico della Gavarini ha innescando uno dei processi sociologici e sportivi più interessanti degli ultimi decenni: l’esplosione della partecipazione sportiva di bambine e ragazze italiane in questa disciplina, cresciuta al punto da superare quella maschile, sia nei numeri della pratica che anche nell’attenzione mediatica, con le protagoniste femminili, da Sylla a Orro, enormemente più famose e glamour dei colleghi maschi e ormai vere eredi mediatiche della generazione dei fenomeni. Soprassiedo da ogni paragone con il calcio femminile, ma sottolineo come la differenza di fondo viene fatta soprattutto dal primo approccio con la disciplina: nel volley, nelle giovanili. ci sono da sempre vere insegnanti entusiaste del loro ruolo, mentre nel calcio spesso si trovano dei volontari che sognano di approdare presto in altri ambiti e che quindi vedono il proprio impegno come un qualcosa di passeggero. 

Nella pallavolo non esiste, o se esiste è molto limitato, un approccio spontaneo come invece per il calcio o il basket. In questo senso la pallavolo è lontana tanto dalla metafora calcistica dei campetti o dalla libertà del playground del basket. Al contrario, è uno sport che manifesta il bisogno essenziale della guida che educa, di qualcuno che possa insegnare a bambini e bambine movimenti per nulla scontati e cognitivamente molto complessi di coordinazione neuro-motoria e di interazione con gli altri. Nell’attuale sistema formativo calcistico, invece, sembra che sia stata abiurata la figura del tecnico-insegnante che forma spiritualmente e tecnicamente i giovani. Un tempo si tramandavano come leggende figure come Djalma Santos, arrivato a Bassano del Grappa ad insegnare a “trattare la sfera di cuoio”, o il Nils Liedholm che si soffermava con i giovani per allenamenti extra, oggi sembrerebbe che, nelle giovanili, a tecnica e valori si preferisca l’utilizzo di schemi e lavagnette.

Nel volley non è cosi, non potrà essere cosi e sembra che le cose funzionino meglio. A questo sistema territoriale va affiancato la grande macchina organizzativa e manageriale di carattere superiore, gestita dalla FederVolley. Da decenni la federazione italiana è, con ogni probabilità, quella più attiva nel prendersi cura della crescita dei giovani prospetti, con progetti specifici molto all’avanguardia: su tutti il Club Italia. Il Club Italia nasce da idea di Julio Velasco concepita nel 1998, concepita inizialmente al femminile e poi estesa anche alla costola maschile.

Nessuna federazione sportiva può prescindere dai meccanismi della selezione giovanile su base territoriale, quel processo di affinamento che dalle società di base porta all’età di 14 o 15 anni i più bravi e talentuosi a entrare nelle Nazionali giovanili, attraverso stage, raduni, competizioni internazionali. Il Club Italia si presenta, invece, come una selezione giovanile che partecipa alle categorie inferiori, proprio come fanno le tante Under 23 viste nel mondo del calcio. Il selezionatore recluta per 4 anni i giovani migliori presi dalle selezioni giovanili dei club, facendoli competere nei campionati senior. Qualcosa di simile nel calcio si ha solo con il centro di Clairefontaine, che però dura solo per una stagione e che nei weekend prevede sempre il ritorno degli atleti al proprio club di origine.

Sul sito della federazione si possono consultare le selezioni femminili di ogni annata, delle attuali campionesse olimpiche e mondiali ben 12 ragazze hanno partecipato al campionato di A2 dal 2015 al 2017 con il Club Italia. La selezione femminile svolge le proprie attività nel Centro Pavesi di Milano, tuttavia, su decisione della federazione, tutte le partite vengono disputate solo in trasferta con il fine di avvantaggiare i club provinciali impegnati nella A2. Sarebbe replicabile un modello del genere nel calcio? Io suppongo di si, anche perché il progetto costituirebbe una vetrina niente male per creare plusvalenze future e nel caso sarebbe più opportuno coinvolgere una Lega non professionistica come la D. 

Altro pilastro della ricerca dei giovani talenti sono i Regional Days, i raduni territoriali di selezione da cui il Club Italia prende vita ed è diretta conseguenza. Anche questa è una idea di Julio Velasco, il quale ha davvero dato un’impronta collettiva forte al movimento pallavolistico italiano. Le idee del leggendario tecnico argentino, padre della “Generazione d’Oro” degli anni ’80 e ’90, vennero elaborate alla fine degli anni ’90, quando venne coinvolto attivamente dalla FederVolley nel tentativo di portare la costola femminile ai livelli di quella maschile. All’epoca le idee di Velasco vennero tutte approvate e messe in pratica, caso ha voluto che proprio lui ha poi colto i frutti (le medaglie) di quei semi. Anche il calcio seguì una strada simile: dopo il fiasco di Sudafrica 2010 l’allora presidente FIGC Abete coinvolse, nel tentativo di ricostruzione della Nazionale, figure come Arrigo Sacchi, Roberto Baggio e Gianni Rivera. Dei tre grandi ex solo Sacchi, che comunque tanto ha contribuito alla rifondazione delle selezioni giovanili, è durato fino al 2014, Rivera lasciò il settore scolastico nel 2010, mentre Baggio lasciò nel 2013 perché “ogni suo progetto era rimasto lettera morta”. Insomma noterete come concretamente nel calcio, come già detto, sembra quasi impossibile intervenire con riforme strutturali in modo più o meno rapido. Le stesse Under 23 dei club, annunciate da Abete in quel 2010, le quali non possono sostituire il lavoro di scouting fatto dalla Federazione, sono poi state avviate quasi 15 anni dopo da Gravina. 

La domanda quindi da porsi è: può il volley costituirsi come modello per il calcio? È difficile, al netto di una facile retorica populista, dire se il successo della pallavolo possa essere un modello per gli altri sport di squadra, soprattutto il calcio. La concorrenza internazionale è differente, così come le dimensioni economiche ed organizzative. Però nel volley italiano, a differenza del calcio, la circolazione di idee e contatti tra vertice e base è più forte, non c’è la bolla mediatica che separa i pochi eletti che ne fanno parte dal resto, è tutto molto più avvicinabile, prossimo, diretto. Come detto nel calcio bisognerebbe iniziare a “formare” i “formatori”, ovvero i tecnici delle giovanili, rendendoli dei professionisti specifici per il settore e non dei semplici “uomini di passaggio”. Un tempo, proprio in quegli anni ’70 e ’80 tanto rimpianti, nelle giovanili lavoravano dei veri artigiani del calcio che avevano come obiettivo quello di portare il maggior numero di giovani nel professionismo. Nel volley ci sono figure come Mario Barbiero, tecnico che da anni gira l’Italia palmo a palmo, palestra per palestra alla ricerca di nuovi talenti da segnalare al Club Italia. Lo stesso progetto Club Italia potrebbe essere una idea concreta da mettere in atto con le selezioni Under 18, perché la rifondazione della Nazionale non può prescindere dal lancio dei talenti, e per fare questo bisogna accorciare il più possibile le tempistiche che separano i giovani dal lancio tra i grandi e portando gli stessi a misurarsi con realtà più formative dei tornei giovanili. 

Quindi, con buona dose di ottimismo, credo che il modello volley potrebbe essere un modello da studiare, adattare o migliorare per rilanciare la Nazionale azzurra, perché limitarsi a dire che il problema “è la mancanza dei ragazzini che giocano in cortile” è abbastanza puerile. Altrettanto pericoloso è inseguire modelli tratti da realtà straniere, perché ognuna di queste realtà è figlia di un contesto culturale a sè, mentre adattare un modello autoctono, che parte dalle scuole, dal territorio e dal lavoro propositivo della Federazione, potrebbe essere la soluzione più congeniale. 

BIO: STEFANO TERRANOVA

Stefano, nato a Policoro (Mt) 37 anni, insegnante di Storia e Storia dell’Arte. Seguo il calcio per passione, convinto che dietro un pallone che rotola c’è sempre una storia interessante da raccontare, dietro un gesto tecnico un pò si sprezzatura da ammirare. 

3 risposte

  1. Buongiorno Stefano, condivido tutto quello che è stato scritto in questo articolo.
    Il metodo pallavolo avrebbe da insegnare molto al calcio, ma il calcio non è abbastanza umile…

  2. Interessante

    Venendo dal mondo volley ed essendo tecnico giovanile

    La formazione dei tecnici è la base, nel.volley i processi selettivi sono da anni al centro dei piani della federazione

  3. Romanò giocatore A2 entra nella finale degli Europei e spacca.
    Eccellente Porro e decisivo Sani, giocatori non del roster principale, nella semifinale con la Polonia.
    “Attenzione a non bruciare i giovani” nel calcio…e chissà quanti che potrebbero stupire non vedono mai i grandi palcoscenici.
    Almeno il calcio abbia l’umiltà di confrontarsi con il volley. Qui non si tratta di questioni tecniche, ma di mindset! E quando sei sott’acqua, chiedere aiuto è il gesto più grande che si può fare…

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