IL CALCIO ITALIANO TRA STEREOTIPI E PREGIUDIZI

Dopo la brutale sconfitta in terra norvegese, con sequenziale esonero del Commissario Tecnico sedutosi in panchina con la Moldova da esautorato, sono rimbalzate puntuali le consuete affermazioni pretestuosamente dirette ad individuare i motivi della crisi del nostro football.

Si va dall’inflazionato “non si insegna più la tecnica” al più recente “i calciatori non provano amore per la nazionale” sino all’ormai consolidato “il guardiolismo ha distrutto il talento” passando per un classico dell’ultimo decennio secondo cui “i nostri calciatori non saltano l’uomo”.

Ma quanto c’è di vero in queste affermazioni?

Siamo sicuri che queste asserzioni siano effettivamente spendibili?

O alcune di esse scontano una serie di stereotipi e luoghi comuni di pregiudizievole utilizzo al fine di non confrontarsi nel merito, forse per mancanza di competenze?

Non si insegna più la tecnica:

Sarebbe interessante che coloro i quali affermano con veemenza un simile concetto ci spiegassero nell’ordine:

– a quanti e quali allenamenti e/o esercitazioni di compagini di settori giovani sono soliti assistere;

– che cosa intendano per “insegnare la tecnica”;

– che percentuale di incidenza riveste la tecnica fine a se stessa nel calcio di oggi;

Al netto delle singole opinioni che, in quanto diverse spingono ad un confronto che è sempre positivo oltre che fonte di arricchimento, alcuni opinionisti della TV e della stampa non fruiscono quotidianamente di una presenza presso i campi di allenamento delle squadre giovanili con l’effetto che il loro pensiero non risulta supportato da conoscenze analitiche né empiriche.

A questo si aggiunga che il concetto di “insegnare la tecnica” viene ancora oggi rapportato all’idea della pedissequa ripetizione del gesto esulante da un contesto di gioco. Si ritiene cioè che la metodologia da seguire per migliorare tecnicamente i calciatori sia quella di far loro ripetere gesti con l’ausilio del muro e/o della forca.

Peccato, per i fautori di questa teoria, che detti accorgimenti risultino alla prova dei fatti, ossia durante la contesa, anacronistici nel momento in cui i calciatori li devono compiere in tempi ristretti, sotto pressione degli avversari, con l’intento di opzionare la scelta corretta, tenendo in buon conto il movimento dei compagni oltre che all’interno di uno spazio dimensionale di volta in volta differente.

Il gesto tecnico in partita presuppone una condizione completamente diversa da quella in cui ci si  trova quando si colpisce 100 volte dallo stesso punto contro lo stesso muro posizionato nello stesso segmento di spazio.

Ma quand’anche, per denegata ipotesi, si volesse dar valore a un simile ragionamento, siamo sicuri che nel calcio moderno la tecnica rappresenti l’elemento più dirimente?

Ad avviso di chi scrive, la tecnica è una delle componenti che formano il complesso degli elementi atti a definire un giocatore di qualità (cfr. “Non solo tecnica: la qualità nel calcio” “La complessità del calcio; www.filippogalli.com” parti 1, 2, 3;  16-17-18 gennaio 2023).

Nella comunicazione vigente si tende a confondere, o meglio ad uniformare, il calciatore tecnico con il calciatore qualitativo compiendo un errore basico e dando vita ad un messaggio distorto.

È la qualità a fare la differenza ed all’interno di questa deve, ovviamente, trovare posto la tecnica.

Questa, tuttavia, deve essere rapportata ad altre situazioni in seno ad una complessità di elementi tra loro correlati.

La tecnica risulterà dirimente se inserita in un contesto di conoscenze ed attitudini in seno al quale alberghino l’attitudine a non perdere tempi di gioco, a sapersi dimostrare utile e duttile, a ridurre i margini di intervento dell’avversario, a opzionare la scelta corretta, a determinare usufruendo nella maniera corretta degli spazi a disposizione, eventualmente contribuendo a rimodularli a seconda del tipo di giocata che si sta profilando.

Allora, e solo allora, la tecnica sarà determinante.

Ma perché lo sia in seno al complesso offerto dalle variabili che caratterizzano il gioco non deve essere preparata o, peggio ancora, addestrata a mezzo di esercitazioni estranee alle situazioni che si incontrano in partita.

Il fenomeno Yamal,  per citare un calciatore oggi decantato, non trae origine dall’esercizio del muretto ma dall’essersi formato sin da ragazzino in seno ad un calcio di possesso, di organizzazione propenso al collettivo ed all’inclusione.

Il dribbling che è solito offrire alla platea non si basa sull’esercitazione ripetuta a tutto campo. E’ un insieme di elementi quali la postura, il contromovimento, il controllo a seguire, l’accettazione del rischio e il non perdere i tempi di gioco.

I calciatori non provano amore per la nazionale

La delusione derivata dagli ultimi risultati ha spinto non solo tifosi ma anche ex campioni ed ex allenatori a prendersela con la mancanza di amor proprio e di attaccamento alla nazionale.

L’adagio diffuso nelle ultime ore è quello per cui i calciatori di una volta non avrebbero fatto certe figure.

“Con gli Zoff. i Tardelli, gli Scirea, i Rossi ecc non si sarebbe perso in Norvegia” si è sentito affermare dimenticando che gli eroi del Mundial 82, fallirono le qualificazioni al successivo europeo arrivando quarti nel girone dopo aver pareggiato con Cipro.

Oppure: “I Bergomi, I Baresi, i Maldini, i Vialli non avrebbero fatto simili figure” rimuovendo dai ricordi la sconfitta in Norvegia del 1991 (e la compagine scandinava all’epoca era meno forte di oggi) con i suddetti in campo che ci costò la qualificazioni all’Europeo 1992.

E ancora: “Quelli del 2006 si che erano uomini; loro amavano la maglia azzurra e si sarebbero ribellati all’idea di perdere così in Norvegia”, dimenticando che buona parte degli stessi durante il campionato del mondo 2010 totalizzò due punti in tre gare contro Nuova Zelanda, Paraguay, Slovacchia.

Davvero qualcuno si spinge ad affermare che ad un calciatore non interessi la maglia azzurra o, peggio ancora, che non gli rechi dispiacere incappare in simili batoste?

Alessandro Costacurta, che qualche titolo con il Milan l’ha vinto, alla domanda “quale partita in carriera ricordi con maggior piacere?” ha pubblicamente risposto: “tutte quelle giocate con la maglia della nazionale”.

Non esiste bambino in Italia, appassionato di calcio, che non coltivi il sogno di vestire la maglia azzurra.

Non può bastare la rinuncia alla convocazione di un calciatore per fare di tutta l’erba un fascio. Purtroppo, nel calcio ci sono alti e bassi e gli esempi di cui sopra, uniti a sconfitte contro la Corea o figuracce al mondiale 1974, ci insegnano che anche ai più bravi può capitare di “toppare” uno o più appuntamenti.

Il guardiolismo ha distrutto il talento

Con questa affermazione si tende ad addebitare ad un eccesso di collettivo, di gioco organizzato e di possesso palla la carenza di giocatori di qualità in quanto, secondo i sostenitori di questa tesi, il gioco che si basa su simili principi abortirebbe il talento.

Il riferimento all’operato di Guardiola, o meglio a quello dei suoi seguaci, è da intendersi in senso critico avverso le componenti ed i principi alla base del credo del tecnico catalano.

Una visione depurata dal pregiudizio porterebbe, tuttavia,  alla conclusione opposta ovvero di come il gioco organizzato sia la chiave per coltivare (prima) ed esternare (poi) il talento del singolo.

Più volte in questo blog è stato scritto che Xavi ed Iniesta sono stati esaltati dal gioco di Guardiola, incontrato dai due assi catalani quando avevano già maturato centinaia di presenze tra i professionisti senza tuttavia toccare i picchi di rendimento e di estetica raggiunti con Pep.

E più volte, rimanendo al contesto di casa nostra, si è evidenziato come la squadra più rivoluzionaria del calcio italiano, grazie ai principi innestati da Arrigo Sacchi, abbia permesso a calciatori come Evani, Tassotti, Virdis, Galli, Colombo, Massaro di svoltare in carriera ed abbia comunque elevato il rendimento di campioni già affermati quali Baresi ed Ancelotti.

Non è forse nel Barcellona di Guardiola che Messi ha mostrato al mondo il suo valore?

Non è forse quando, con Mancini C.T., l’Italia ha provato a perseguire un calcio di controllo e possesso che il centrocampo Barella-Jorginho-Verratti ha raggiunto l’apice?

Risulta a qualcuno dei lettori che ad Euro 2020 (giocato nel 2021) a Chiesa e ad Insigne sia stato proibito di saltare l’uomo?

Vi propongo un gioco, o meglio una squadra (1-4-4-2):  Victor Valdes (20); Melchiot (18), Badstuber (19), Puyol (20), Alaba (17); Overmars (19), Seedorf (16), Xavi (18), Iniesta (18), Kluivert (18), Thomas Muller (19). A disposizione: Kanu (16), Davids (18).

Trattasi di un undici composto da calciatori di epoche differenti che hanno vinto una o più edizioni della Champions League, schierati titolari nella massima competizione europea all’età indicata tra parentesi, da Louis Van Gaal, uno che passa per essere molto attento ai principi di calcio collettivo nonché guru dell’ormai iconico Luis Enrique.

È plausibile sostenere che un calcio organizzato ha abortito il loro talento in giovane età o è più corretto affermare che si sono giovati di questo per mostrare le loro qualità sin da giovani?

Quando opinionisti autorevoli si lasciano andare a determinate affermazioni, siamo sicuri che lo facciano dopo adeguata analisi e non perché ancorati a principi old style?

Il continuo ricorrere a concetti del tipo “il calcio esiste da oltre un secolo, non si inventa nulla… il calcio è semplice…se si è sempre fatto così ci sarà un motivo …” sono realisticamente spendibili agli occhi degli appassionati?

I tempi cambiano, talvolta evolvendosi, talvolta involvendosi, ma cambiano.

Anche l’edilizia esiste da secoli ma nessun costruttore si sognerebbe oggi di rifiutare prioristicamente le nuove tecniche e di edificare un palazzo come si era soliti costruirlo 40 anni fa.

I nostri calciatori non saltano l’uomo; non li fanno esercitare nell’uno contro uno:

Chi continua a diffondere simili adagi, vada ad assistere agli allenamenti e scoprirà che di “uno conto uno” se ne fanno tanti. Forse troppi.

Organizzassimo una competizione di soli uno contro uno (da effettuarsi in allenamento) i giovani calciatori italiani la vincerebbero a mani basse.

Il problema è sempre il solito: in partita l’uomo lo si deve “saltare” in pochissimi secondi, possibilmente con controllo orientato e “azzeccando il tempo della giocata”.

Se l’uno contro uno, viceversa, viene esercitato correndo avanti ed indietro per il campo, di fronte al contendente senza la presenza delle altre componenti, serve a poco.

Dobbiamo preparare il calciatore alla posizione di ricezione, allo scatto, a considerare la presenza dei compagni (perché nessun uno contro uno è tale sin tanto che in campo ci sono altri 20 calciatori).

L’obiettivo è far si che colui che conduce la palla riesca a prefigurarsi lo step successivo al dribbling, che sarà di volta in volta diverso perché un’azione non è mai uguale ad un altra.

Conseguentemente l’esercitazione sul dribbling andrà inserita nella collettività del sistema e nella complessità del calcio inteso come “gioco” prima ancora che come disciplina sportiva.

Nel rispetto assoluto delle opinioni testé riportate, corre d’obbligo considerare come un determinato sistema comunicativo possa risultare, da un lato, influente ma, dall’altro, rischi di allontanare i giovani appassionati, che rifuggono volutamente da postulati di antica genesi e si rendono conto di come l’opposizione al cambiamento sia spesso determinata dall’impossibilità o dall’incapacità di confutare nel merito chi approccia la materia con concetti innovativi.

Detta in poche parole: ai giovani non sfugge che concetti come quelli che si è cercato in precedenza di confutare siano divulgati senza supporto analitico né empirico.

Le nuove generazioni gradiscono maggiormente una comunicazione che vada incontro alle peculiarità del football propositivo, basato sull’estetica, sull’analisi dei dati, su una proposta di calcio tesa ad occupare la metà campo avversaria. 
Ascoltare continuamente  che  “il portiere deve parare” e non importa sappia giocare con i piedi o che “la tecnica si migliora con il muretto” produrrà sempre meno interesse nelle nuove leve che, proprio perché contemporanee al “loro” calcio, tenderanno ad allontanarsi da una comunicazione non conforme al loro desiderio.

La realtà mette i giovani appassionati di fronte ad un plotone di opinioni basate su concetti datati, spesso ancorate al concetto secondo cui “si è sempre fatto così”.


Si tende, addirittura, a far passare l’idea che la contrapposizione uomo su uomo a sistema puro in voga nell’ultimo lustro equivalga alla vecchia marcatura a uomo.

Morale della favola: i giovani tendono a seguire meno il calcio in TV perché comprendono l’assurdità di alcuni racconti.

Il calcio fatica, a livello comunicativo, ad aprirsi a concetti innovativi come fanno altre discipline quali il tennis, il basket, il rugby, la pallavolo i cui commentatori ed opinionisti propongono una visione al passo con i tempi e con le evoluzioni del gioco.

Affermazioni come quelle dianzi trattate la faranno da padrone sin tanto che rivestiranno, con il beneplacito degli attempati soloni, la funzione assegnata ai postulati nel processo dimostrativo dei teoremi.

Una funzione unilateralmente attribuita, in assenza di contraddittorio, ad una serie di stereotipi.

Lo stereotipo, se lo analizziamo nel suo significato, è il modo più efficace per sottrarsi al confronto perché in quanto tale non ammette prova contraria. “E’ così perché è cosi”.

A differenza del “luogo comune” che viene artificiosamente costruito grazie ad una narrazione faziosa basata esclusivamente sugli elementi favorevoli alla tesi che si vuole dimostrare, o a cui si vuole aderire in ossequio alle post-verità di Platone, lo “stereotipo” deriva da stereos typos che significa impronta ferma.

L’impronta ferma è la situazione più facile da controllare purché nessuno la tocchi.

Una situazione che presuppone una totale mancanza di confronto.

Tendiamo a lasciare le cose ferme perché sono più facili da controllare, dimenticando che l’immobilismo è l’antitesi della conoscenza.

Per pro-cedere, ovvero andare in avanti, si deve conoscere la strada da percorrere.

Quando questa manca, si tende a rimanere immobili…

Un processo senza conoscenza è vittima dell’ignoranza e non porta alcun giudizio.

E in assenza di giudizio trova diritto di cittadinanza il pregiudizio.

In conclusione: dallo stereotipo al pregiudizio il passaggio è naturale perché senza conoscenza non si procede e senza un adeguato processo non si sviluppano conoscenze.

Filippo Galli e Alessio Rui

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

10 risposte

  1. Alessio, come al solito è un piacere leggerti. Di base sono d’accordo con te. Anzi sulla tecnica sono ancora più restrittivo e considero tale il solo trattamento di palla. Ovvero: capacità di calciare con entrambi i piedi, capacità di correre con la palla al piede, capacità di modificare il tiro in funzione della forza e dell’effetto desiderato; a quant’altro ha a che fare con il trattamento della palla.

    In merito i calciatori più diligenti, anche se campionissimi, continuano ad esercitarsi quotidianamente sulla tecnica. Ti cito due episodi: da un film sembrerebbe che Pelè ragazzino di notte si esercitava a colpire la traversa. Liedholm, leggevo su un giornale, a fine allenamento palleggiava ma mandando la palla sulla luna e al ritorno non facendola toccare terra ma continuando a palleggiare.

    Poi concordo con te, a volte anche incrociandosi con la tecnica, c’è la qualità: capacità di non perdere i tempi di gioco, di fare la cosa giusta al momento giusto, ma questo implica un mix di tecnica e qualità, capacità di giocare a testa alta.

    Poi, su tutto il resto sono molto d’accordo con te.

    Parlo soprattutto degli anni 50, quando non esistevano le scuole calcio che ti addestravano.

    Allora esisteva la strada, i prati e l’oratorio. Quindi, un ragazzo si formava da solo fin quando, se bravissimo, non veniva tesserato per una società professionistica attrezzata per i giovani.

    Quindi, mi ci metto anche io, tutti quei ragazzi si formavano da soli: erano tutti naif.

    Nessuno di loro veniva addestrato ad essere un disciplinato nell’ambito di un complesso più grande (si giocava a 11 o a 7 dipendeva dallo spazio a disposizione). Ti cito solo quello che diceva il mio allenatore prima della partita: il portiere in porta, i difensori dietro, i centrocampisti in mezzo gli attaccanti davanti. Noi si giocava solo partita di campionato o tra amici, non c’erano gli allenamenti infrasettimanali. Ma da questa struttura poco incline (fatto salve le squadre pofessionistiche), abbiamo avuto tutti i tantissimi campionissimi che hanno giocato tra il 1955 ed il 1970 circa.

    La scuola calcio deve trattare i ragazzini, innanzitutto come tali, favorendone la crescita tecnica e tattica (qui ci metto tutte le nuove tecniche addestrative che lavorano sul cervello del calciatore ben spiegate in tantissimi articoli in questo blog). Come per la scuola, c’è un progress che vede ad esempio: alle elementari insegnare l’aritmetica e le sue quattro principali operazioni, alle medie le espressioni e le proporzioni, alle superiori si alza il livello con le specializzazioni (trigonometria per i geometri, matematica finanziaria per i ragionieri, limiti, derivate e integrali per i diplomati del liceo scientifico), infine all’università lo scibile matematico di base.

    Un “progress” analogo dovrebbe avere anche lo sviluppo tecnico e dell’allenamento della mente.

    1. Caro Giuseppe,
      l’esempio della strada è perfetto e avrei dovuto inserirlo nel pezzo.
      Si tende ad affermare che i ragazzi una volta crescevano più dotati perchè, giocando in strada erano, più liberi.
      in realtà, la strada (o il campetto) li arricchiva perchè era un contesto molto meno libero, pieno di vincoli:
      – l’asfalto che, in quanto tale, procurava escoriazioni a chi cadeva e quindi ci si abituava ad un maggior equilibrio nel dribbling.
      – il terreno irregolare che provocava carambole e rimbalzi irrituali;
      – la sponda che imponeva al difensore di prepararsi sia al confronto diretto con l’avversario che all’eventual uno-due con la parete aiutandolo in tal modo nel migliorare la reattività:,
      – lo spazio non delimitato in maniera confrome che riduceva i margini di azione.
      Il termine “veneziano” associato a chi eccede nel dribbling deriva dalla consuetudine dei ragazzi che giocavano a Venezia si dribblare molto e passare poco onde evitare che la palla finisse nei canali.
      Tutte queste situazioni oggi latitano ma, quando c’erano, risultavano estremamente propedutiche perchè si condensavano in contesti estremamenti vincolati e vincolanti.
      Tutto il contrario della libertà auspicata.

  2. Grandissimo pezzo! Merita applausi e soprattutto dovrebbe essere scolpito nella pietra all’ingresso di ogni centro sportivo ed in ogni studio televisivo, teatro di dibattiti calcistici, pieni zeppi di luoghi comuni-peraltro privi di qualsivoglia fondatezza scientifica-triti e ritriti e soprattutto retrivi e mai atti ad un reale amore per il gioco. Quando noti(ahimè)commentatori calcistici, se ne escono con la favoletta del DNA di un paese o di un club poi, mi viene un urto di nervi difficile da sopportare. Le nazionali; i paesi; i club cambiano continuamente pelle e si adattano alle esigenze emergenti del calcio. Solo in questo paese si rimane attaccati a quelle che sono delle convinzioni del tutto soggettive, sul come fare calcio bene. L’esempio dell’edilizia è calzante e può essere esteso ad ogni professione o attività sportiva. Un agente immobiliare degli anni ’60; senza internet; senza possibilità di espandere il proprio giro, certamente avrà svolto l’attività in modo diverso da un suo collega dei giorni nostri. E così un ristoratore. O un tennista che giocava con le racchette di legno e palline completamente diverse. Purtroppo solo nel calcio italiano si sentono questi luoghi comuni. Io sono appassionato di campionati particolari, come quello svedese; quello olandese e quello belga e quando guardo le partite di quei campionati, vedo che i pregara; i segmenti all’intervallo ed i postpartita sono totalmente incentrati su fatti tecnico-tattici. Non c’è mai l’episodio arbitrale al centro e si parla di calcio. Non si danno spiegazioni dozzinali ai telespettatori, ma li si tratta con rispetto. Uno dei più odiosi luoghi comuni che imperversano da noi è quello relativo ai tecnici stranieri:”non conoscono il nostro campionato”; “sono inesperti”. Ieri il Wolfsburg ha messo sotto contratto Paul Simonis, allenatore che quest’anno ha guidato il Go Ahead Eagles alla conquista della Coppa d’Olanda. Ha 40 anni e solo poche panchine come allenatore di una prima squadra. Ebbene, sono sicuro che nessun tifoso della squadra tedesca, starà dicendo che non è esperto e non conosce la Bundesliga. Nel 2025; quando volendo studiare, si possono vedere tutte le squadre del mondo. Così come altra frase che si legge spesso:”soltanto X può prendere in mano la squadra”; spesso in riferimento ad allenatori che hanno un passato considerato “vincente”. Anche in questo caso; dubito che a Wolfsburg dicano:”solo Magath può farci vincere”. Come dicevamo anche col grande Filippo Galli; anche sulla questione dei mezzi di allenamento si dovrebbe cominciare a discutere. E comunque mi pare che di 1 v 1, totalmente estrapolati dal contesto complesso di una partita, come diceva lei, se ne fanno fin troppi. Ma purtroppo questo è il nostro paese, anche e soprattutto a livello di comunicazione. A presto e complimenti ancora per l’articolo.

    1. Condivido ogni parola del suo commento. Se lo avessi letto prima avrei evitato di proporre il pezzo a Filippo e avrei chiesto di pubblicare il suo intervento.

      1. Il suo pezzo era decisamente centrato e non aveva una parola fuori posto: in pratica perfetto. La mia risposta un’umile condivisione. A ciascuno il suo. Grazie infinite per la cortesia e la risposta 🙏🙏🙏

  3. Non sono un esperto ma seguo il calcio da sempre. Sarei sempre ben disposto ad ascoltare le spiegazioni di veri esperti. Purtroppo il commento della partita in diretta si e’ trasformato da telecronaca a simposio, tenuto da un “giornalista” e da un “opinionista”. Sostanzialmente una sequela di ovvieta’, luoghi comuni e saccenti opinioni preconcette, prevalentemente urlate cosi’ da aumentarne il sensazionalismo. Credo che molto della problematica esposta nell’articolo, come peraltro rilevato nell’articolo stesso, dipenda dall’involuzione suddetta. Quando possibile, escludo il commento e ascolto solo il suono ambientale. Lo consiglio a tutti, migliora di molto l’esperienza

  4. Complimenti per l’articolo di cui condivido ogni singolo rigo
    Ad ogni fallimento della nazionale viene riproposto il mantra, la strada, lo straniero, la scuola calcio, perchè volutamente e spesso in malafede, tutto resti così come è
    Si ricorda sempre, quando c’erano Baggio, Totti, Del Piero ecc….dimenticando che gli anni passano, le mode, gli stili di vita, la scuola e soprattutto gli altri sport evolvono e attirano ragazzi che prima magari erano attratti solo dal calcio
    Viene sottovalutato in maniera clamorosa e anche questo in cattiva fede la “professione e la professionalità” delle figure in ambito sportivo che come ogni lavoro richiedono delle competenze da mettere al servizio del ragazzo in via di sviluppo e del suo potenziale e non parliamo di figure che lo fanno per Hobby!!! questo aprirebbe un capitolo se non un mondo sui diplomifici nel calcio e sui requisiti di accesso e i relativi esorbitanti costi FIGC!!! Pseudo aggiornamenti e iscrizioni compresi, il riconoscimento economico per figure con competenze specifiche denigrate e mortificate come volontariato, eccetto se si ha la fortuna di arrivare a grandi livelli, perdendo così figure professionali importanti, che potrebbero essere determinanti per lo sviluppo dei ragazzi
    Complimenti ancora per l’onestà dell’articolo e per aver evidenziato questa lista di luoghi comuni che ci accompagna ad ogni fallimento della Nazionale………Evviva il fallimento se questi è l’anticamera del miglioramento e delle future vittorie, cosa che purtroppo da noi non accade
    Un saluto e ancora complimenti

  5. Scusate se intervengo di nuovo, stimolato dagli interventi successivi di Piergiorgio e di Luca, a proposito del DNA del calcio italiano.

    Gianni Brera spiegava la necessità di giocare all’italiana, con il fatto che noi, per via del minor tasso di benessere economico, abbondavamo di “abatini” (intendendo calciatori gracilini rispetto a quelli della middle Europa e dell’Europa del Nord). Questo creava la possibilità di avere pochi atleti di peso, per cui l’arma migliore era di giocare come “una donna”, nel senso che il corpo femminile incontrando quello maschile adatta le proprie curve al maschio.

    Di qui un gioco di rimessa e quindi quel famoso Dna, come necessità di risposta alla prevalenza fisica dell’avversario.

    Ma come evidenziato oltre che da Alessio, da Piegiorgio e Luca, il mondo cambia e anche la ricchezza e le abitudini alimentari degli italiani sono cambiate, per cui quell’handicap fisico non esiste più.

    Questo per concordare ulteriormente con quanto asserito negli interventi richiamati.

    1. Brera e’ stato l’antimilanista per antonomasia nonche’ il precursore massimo e assoluto dei luoghi comuni applicati al calcio. Il termine “abatino” usato in modo ostentatamente dispregiativo per definire il primo calciatore italiano insignito del Pallone d’Oro (mi fermo qui altrimenti mi si potrebbe tacciare di eccesso di milanismo). Per nostra fortuna le parole di Brera cozzavano con una realta’ che in quello stesso 1969 vide il Milan vincere la Coppa dei Campioni schierando in campo, in finale, una formazione con due punte di ruolo, un’ala e un regista avanzato

  6. Brera non parlava di moduli, ma di atteggiamenti di gioco. Ha detto anche un sacco di fesserie, come Facchetti centravanti, infatti non era un tecnico.
    Ma che la sua analisi avesse più che un fondo di verità è evidente, se si legge la storia dell’Inter di Herrera o del nostro mondiale in Messico, per stare nell’epoca indicata.
    Il “gioco femmina” di Brera non era quello di mettere due pullman davanti alla porta, ma di adeguare il proprio gioco rafforzandosi per contrastare i punti di forza avversari e punirli nel loro punti di debolezza.
    Lui asseriva in sintesi che noi non potevamo permetterci un Beckenbauer o Schnellinger, quale risultato della nostra dieta alimentare, per cui dovevamo ricorrere ad altre armi.
    Che poi Brera possa non essere stato un luminare del calcio, be su questo posso convenire.
    Poi, ognuno fa la lettura che vuole, ma l’abatino da lui è stato spiegato non per contestare il calciatore ma per definirne i limiti fisici. Io non sono milanista ma amavo il Rivera calciatore.
    Ancora tu porti a riferimento il Milan, che è un club e non la nazionale, per cui ricordo che uno dei fondamentali punti di forza del Milan era Schnellinger. Ovviamente era una squadra costruita a misura su Rivera.
    Forse, e in questo concordo, Breara era eccessivamente difensivista (se tutti giocano bene la partita finisce 0-0), per cui voleva che tutti partecipassero a questa fase e di qui, l’aspetto negativo di “abatino”.
    Ovviamente abbiamo due diversi punti di vista su Brera, non pretendo di avere ragione, ma ho solo esposto il mio parere.
    Un saluto.

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