Foto di copertina da BBC News
Sul profilo Instagram di David Beckham è comparso uno scatto struggente: l’ex centrocampista stringe la mano di una persona anziana nella sua. Si tratta di Kath Phipps, storica receptionist del Manchester United, scomparsa, a ottantacinque anni, pochi giorni fa. Beckham, che oggi vive stabilmente negli Stati Uniti (è, fra le altre cose, il presidente dell’Inter Miami), si era infatti recato, senza alcun clamore, al capezzale della donna che tanto ha fatto per lui, in un ambito che non riguarda né la crescita tecnica né i principi della tattica di gioco. Si potrebbe dire che lo abbia aiutato a crescere, quasi come una seconda madre indulgente, di quelle che – Sir Alex Ferguson lo ha scoperto soltanto di recente: si trattava di un ritardo agli allenamenti! – ti coprono e inventano bonarie scuse per non farti rimproverare dal professore più severo.
Sotto la foto, un pensiero altrettanto commovente: “Per sempre nei nostri cuori… La prima e ultima faccia che vedevo era quella di Kath seduta alla reception dell’Old Trafford in attesa di darmi i biglietti per la partita, era il cuore pulsante del Manchester United, tutti sapevano chi era Kath e tutti la adoravano… Mi sono trasferito a Manchester a 15 anni e Kath ha fatto una promessa a mia madre e mio padre “Mi prenderò io cura del vostro ragazzo, non preoccupatevi” e da quel primo giorno, fino all’ultimo giorno che ho trascorso con lei, è esattamente ciò che ha fatto.”
Non è stato il solo a voler essere presente, quando le condizioni di salute della donna sono precipitate, nelle ultime settimane: si dice che Ferguson la chiamasse regolarmente, che Ryan Giggs e Jonny Evans non mancassero di farle visita e che altri giocatori o ex giocatori si collegassero con lei da ogni parte del mondo (Juan Mata, dall’Australia). “Grazie per esserti presa cura di tutti”, ha scritto David De Gea, oggi in forza alla Fiorentina, su suoi profili social. Così, la bandiera dei Red Devils, Wayne Rooney: “Il cuore e l’anima del Manchester United. Tutto ciò che il club rappresenta. Una leggenda che ci mancherà molto. Grazie per tutti i ricordi, Kathy”.
Nata nel 1939 ed entrata in servizio nel 1968, Kath Phipps è rimasta al proprio posto per vari decenni (grossomodo, cinquantacinque anni): nessuno – nessuno! – può eguagliare il suo record di presenze al club, nemmeno lo scozzese di ferro che, d’altra parte, la adorava al punto da invitarla sovente a ballare un valzer nella reception e, di tanto in tanto, la omaggiava, stornellando una serenata (ma non è chiaro però se la pretesa di saper cantare fosse, appunto, solo una pretesa!). The Athletic, che le ha dedicato un bel pezzo, pubblicato il 7 dicembre, ci fa sapere che tutti, o quasi, hanno un aneddoto da raccontare su Mrs. Phipps oppure ci tengono a rievocare un ricordo lontano, lontano nel tempo, spesso e volentieri, ma anche nella cultura calcistica, così profondamente cambiata, così meno romantica (oppure è il trascorrere stesso del tempo che ci fa indulgere in una sciocca nostalgia, chissà), così meno adatta alle persone di cuore come Kath. Scott McTominay rammenta che, ogni volta che si incontravano, trovava il modo di farlo ridere. Sembra infatti che il senso dell’ironia, che non l’ha mai abbandonata, fosse un tratto distintivo del suo carattere. “Illuminavi ogni luogo nel quale passavi”, scrive il giocatore del Napoli.
E ancora qualcuno ripensa alla passione per le squisitezze di Mr. Kipling, poco note alle nostre latitudini, ma celebri prodotti dolciari, oltremanica, alla stufetta portatile sotto la scrivania, per i giorni di gelo, alle degustazioni di Bacardi&Cola con l’immancabile Fergie: una leggenda riconosciuta e una silenziosa, ma non meno fondamentale.
Non poteva mancare – chi ha visto la partita tra Manchester United e Nottingham Forest lo ha senz’altro notato – il tributo sul campo, quel campo che lei non ha mai calcato, ma sul quale ha saputo incidere in modi che oggi riusciamo a intuire: sotto la pioggia battente, che ha costretto, poche ore prima, a rimandare il derby di Liverpool, i giocatori in maglia rossa hanno steso sull’erba l’ultimo saluto alla loro Kath Phipps. L’Old Trafford era strapieno, come sempre, e il pubblico ha partecipato al lutto collettivo, con l’adesione e la commozione che erano dovute al momento e alla persona. Nulla è apparso come un’incombenza da sbrigare in fretta, che è talvolta quello che ci sembrano, purtroppo, i minuti di silenzio imposti: ciò a cui abbiamo assistito era doveroso, era ciò che andava fatto e che ci si sentiva di fare. Perché era giusto, perché era affetto vero. Tutto lì. Che bello. La pioggia ha rallentato appena il rituale, rendendo più complicato il posizionamento del lenzuolo a centrocampo. Qualcuno, qualcuno in vena di sentimentalismi, magari, potrebbe ipotizzare che da lassù, in un calcio che ha fretta di consumare tornei e talenti, si sia voluto rallentare – almeno per un istante – il tempo perché Kath Phipps, che il tempo che possedeva lo aveva dedicato quasi tutto ai ragazzi dello United, se lo meritava proprio.
Fatto sta che solo le lacrime, né trattenute né volute trattenere, di Carlo Ancelotti, durante il minuto di silenzio seguito alla morte di Maradona, mi avevano fatto un effetto di tale intensità, di tale scoperta sincerità.
Ecco cosa è il tifo, nel senso migliore e più puro del termine, mi è venuto da pensare, mentre Massimo Marianella, incaricato della telecronaca, sottolineava quanto fosse “inglese” quella piccola cerimonia pubblica, e insieme – sembra un ossimoro, ma non lo è – intima di commiato. Niente a che vedere con il settarismo del noi contro di voi, che è davvero la parte più brutta del tifo, la più disonesta intellettualmente, o con le esasperazioni per un nonnulla, ché a volte pare che una sconfitta diventi una lettera scarlatta, impressa sul petto. Il tifo è appartenenza, è scelta e necessità, è amore. Da una parte è curioso perché si stava salutando qualcuno che col calcio giocato non aveva avuto a che fare: una persona dietro le quinte, come si suol dire, una persona che la maggior parte di noi non aveva mai sentito nominare prima. Eppure…
Eppure è come se da un lato ci fosse, con tutta la sua miserabile concretezza, il fenomeno kantiano che ci agita: le proprietà che non fanno quello che secondo noi dovrebbero, i calciatori che ci sembra necessario contestare una partita sì e una no, gli allenatori che sbagliano sempre – sempre, sempre, mi raccomando! – la formazione, come se dentro loro si configurasse un non riconosciuto masochismo volto all’auto-sabotaggio (ma perché mai dovrebbe essere così, suvvia?).
Dall’altro invece c’è il noumeno, la pura essenza delle cose, che ci sfugge, ci scappa dalla mente, perché è inconoscibile; si segue e ci precede, non è in noi, ma è.
In senso traslato e non più kantiano (!), sta da qualche parte, vicino a Mrs. Phipps, nella reception dell’Old Trafford, ma non sappiamo dove. Possiamo solo immaginarlo e ci fa sorridere, ci fa commuovere, ci fa sognare, ancora una volta e poi ancora.
BIO ILARIA MAINARDI: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!