PALLA A ILIR!

“UN GIOCO DI ILLUSIONI”

Chi assiste ad una partita di calcio giovanile vive spesso sensazioni ambivalenti, una di queste è il dover galleggiare tra l’aspettativa d’immergersi in un’atmosfera che dovrebbe essere giocosa e una latente, quanto inspiegabile, tendenza eruttiva.

Un fischio dell’arbitro poco gradito, un fallo troppo violento, qualche scelta dall’allenatore in odore di lesa maestà dei propri figli e tutto può diventare l’opposto di quello che dovrebbe essere.

Se poi la “posta in palio” è più importante del solito una tenue idea di sportività diviene immediatamente sacrificabile.

D’un colpo s’innesca una tensione trasversale da cui tutti sembrano venir avviluppati, anche i genitori che solitamente si limitano ad espletare la funzione di autista, scomparendo poi nello schermo del cellulare, in questi momenti prendono magicamente vita e cominciano ad inveire contro un’idea, del tutto soggettiva, del concetto d’ingiustizia.

Durante questi cortocircuiti collettivi le richieste sono queste e in questo rigorosissimo ordine: contestare (preferibilmente ad altissima voce), incitare (soprattutto il proprio figlio o  qualche compagno che si eleva passandogli il pallone), commentare (meglio se lo si fa non capendo assolutamente nulla di ciò che avviene in campo) e ricomporsi velocemente.

È in un momento come questo che Ilir si trova a prendere una decisione chiaramente più grande dell’argomento che la sta generando.

Da quando ha cominciato a giocare a calcio ha sempre sentito parlare delle sue leggi non scritte, che spesso contano di più di quelle ufficiali, e una di queste è che se sei nell’area di rigore avversaria e ti toccano devi cadere per ottenere un rigore.

Infrangerla vorrebbe dire venir meno ad un patto sigillato nel segreto ammiccante dello spogliatoio, garantendosi così eterna diffidenza da parte di quel rigidissimo clan.

Adesso che ha tredici anni questa regola è come se si fosse piazzata in una posizione precisa di un corpo che di preciso non ha più nulla e che spesso stenta a riconoscere.

La sente come un cappio etico, poco sotto quel crocevia emotivo che adesso ha cominciato a chiamare pomo d’Adamo e che, ogni volta che gli capita di ripensare a quel vincolo, fa sempre più fatica a mandare giù.

Di fronte a sé ha il portiere in uscita, un palo, una porzione della porta, ma soprattutto ha il pallone sul suo fidatissimo piede destro, la sola parte del corpo non l’ha tradito dopo le ingiustizie della pubertà.

Questa certezza viene però corrotta da un’immagine che contemporaneamente entra nella coda del suo occhio, l’avversario che si sta lanciando in una scivolata per rubargli il pallone.

In quella frazione di secondo Ilir deve decidere se si lascerà colpire, trasformando così l’azione in un’esca perfetta per l’arbitro, o se cercherà di anticipare il tiro per fare gol, rinsaldando il legame con le sue sicurezze e ammutolendo qualsiasi compromesso.

La sua mente però, di colpo, ricopre tutti questi dubbi con l’immagine del viso di mamma Ilda e dei i suoi occhi gentili che non ridono mai fino in fondo, poi con la sagoma di papà Ledion che sembra scolpito nel legno, con la pelle arsa dal sole e le mani forti capaci solo di carezze.

Da qualche anno Ilir ha cominciato a sentire delle frasi su gommoni con cui la sua famiglia sarebbe arrivata in Italia dall’Albania, frasi che avrebbero l’intento di ferire ma che riescono solo a lasciarlo attonito perché non gli sembrano parlare di lui.

Lui è nato in Italia, i suoi genitori sono arrivati dall’Albania con un aereo, perciò, quelle parole sembrano piuttosto richiamare passati faticosi,  volontà regressive e una diffidenza che sembra eterna.

Non riesce a reagire pur sentendo che dovrebbe arrabbiarsi, dovrebbe rispondere ma gli verrebbe da chiedere, non può ignorare perché vorrebbe solo capire.

Abituato a mamma e papà che non possono venire a vederlo giocare perché devono lavorare si è specializzato ad immaginarli rapidamente vicino a sé o, forse, dentro di sé, fantasticando su cosa vorrebbero che facesse in quell’istante, cercando freneticamente qualche loro insegnamento utile per l’occasione, sicuro di poterne trovare uno.

Quando ha cominciato a giocare aveva sei anni, la sua cameretta era così piena di poster di Del Piero che ormai gli pareva di conoscerlo, interpretava i suoi comportamenti in campo e copiava ogni suo singolo movimento o taglio di capelli, grazie a lui si sentiva sollevato perché aveva visto come si potesse diventare un grande giocatore senza dover per forza urlare contro i compagni.

Le prime esperienze erano state fedeli al nome della categoria perché, esattamente come i pulcini, sperimentava ogni volta quella sensazione di essere in troppi sul campo, tutti a correre in uno spazio che sembrava enorme ma allo stesso tempo troppo affollato e, soprattutto, respirando costantemente la frustrazione per il fatto che ci fosse un solo pallone per tutti.

Il tempo passava e le sue abilità cominciavano a delineare un quadro più chiaro, quella palla tanto desiderata e contesa decideva spesso di stare vicino ai suoi piedi portando i compagni a fare altrettanto con lui.

Adesso, quando lo chiamavano, il suo nome suonava come quello degli altri, sembrava aver perso le spigolosità consonantiche, i suoni bizantini di un vento dai Balcani, tutto grazie al rassicurante anonimato dell’omologazione sociale garantita dal calcio.

Quel nome però, che ogni tanto Ilir avrebbe voluto suonasse “un pò meno albanese”, rappresentava in realtà un desiderio di appartenenza verticale, un tentativo di riconnettere un presente veloce ad un passato lento e profondo, di avvicinare l’imprevedibile fluidità del millennio con la solidità dei secoli sedimentati nel tempo.

Da quando poi i suoi gol avevano permesso alla squadra di un paesino di arrivare alle finali provinciali, un surreale quanto crescente fermento si era innescato e auto alimentato per la presunta presenza di alcuni osservatori di grandi squadre venuti a vedere lui, il ragazzino albanese che parlava pochissimo e che non perdeva mai un contrasto, nonostante le sue gambe da uccellino.

Il piede destro di Ilir non calciò il pallone e con un impercettibile movimento cercò la gamba protesa dell’avversario che arrivava da dietro…l’arbitrò fischiò subito il rigore!

Il protocollo avrebbe dovuto prevedere qualche minuto di rotolamento, possibilmente tenendosi la parte del corpo che aveva subito (avrebbe-dovuto-subire…) il colpo.

Ilir non riuscì a rispettarlo, si alzò quasi di scatto perché era troppo urgente guardare in faccia compagni, mister e avversari, vedere le loro espressioni nella speranza di aggrapparsi a qualche bagliore etico o per poter ignorare più facilmente una coscienza che ormai si era girata di spalle.

Mister Carlo era sempre stato indecifrabile per lui, aveva la sensazione che lo facesse giocare perché non trovava un motivo per non farlo, forse perché rispetto agli altri lui era più chiuso e non gli rimandava nessuna conferma, cosa di cui probabilmente quello stanco signore di mezza età aveva disperatamente bisogno.

Quel momento così concitato non fece eccezione, Ilir cercò qualche risposta nelle espressioni del suo allenatore ma non trovò nulla perché Carlo rimase inespressivo come sempre e, dopo essersi passato nervosamente la mano su una barba che sembrava un arcipelago di peli, si limitò a gridare “lo tira Francesco!”.

Per Ilir fu un sollievo pesante, aveva fatto un patto col diavolo ma era rimasto all’inferno, osservò i successivi tre minuti che portarono il suo compagno di squadra a trasformare il rigore da un posto dove le emozioni galleggiano tra la testa e il cielo, poco sopra i pensieri ma molto sotto i sogni.

Quello stato di ovattamento, rinforzato dalla decisione di non fare la doccia, lo accompagnò fino a casa e ad Ilir venne in mente solo una soluzione per uscire da quella bolla.

Invece di rientrare subito a casa decise di andare al tabacchino dove lavorava Mister Angelo, l’allenatore della squadra avversaria, che aveva già visto altre volte e che gli era sempre sembrato diverso da Mister Carlo, più disponibile, comprensivo, come se i pensieri dei ragazzi gli interessassero davvero.

Il suo obbiettivo era chiaro come lo fu la risposta dell’allenatore che non gli lasciò nemmeno terminare la sua pur breve confessione, paralizzandolo con un:” hai fatto quello che era giusto fare per la tua squadra, segui sempre i consigli del tuo mister!”.

Poi gli diede una pacca sulla spalla che sapeva più di espulsione che di sostegno e lo congedò dandogli una stretta di mano che Ilir non poté sostenere con la forza che papà Ledion gli aveva insegnato perché ormai abbandonato da ogni sua certezza.

Quando tornò a casa ormai fluttuava in un luogo dove nemmeno l’abbraccio di mamma Ilda riuscì a raggiungerlo, si sedette vicino a lei mentre preparava la cena con lo sguardo fisso su qualcosa che non era sicuramente il vuoto.

All’arrivo di papà Ledion con la sua sorellina Teuta l’assenza di Ilir divenne ancor più evidente perché lui, che solitamente era l’alimentatore delle conversazioni a tavola, quella sera sembrava distante, anche da sé stesso.

La famiglia Roshi aveva l’abitudine di mangiare con la televisione accesa e, non curante di uno dei più intoccabili popolari dogmi educativi, traeva qualsiasi spunto per la conversazione da quello schermo, evitando però rigorosamente di parlare di calcio per paura d’innescare Ilir, cosa che quella sera non sembrava un rischio concreto.

Papà Ledion era stato la scintilla per la passione calcistica del figlio perché lo aveva portato a vedere la Juventus a Torino durante una visita dagli zii e Ilir da quel viaggio non era mai completamente tornato, lasciando per sempre una parte del suo sguardo in un mondo di sogni e illusioni.

Al termine della cena papà, che aveva ascoltato profondamente il silenzio di suo figlio, gli disse che l’indomani, visto che non sarebbe stato giorno di scuola, l’avrebbe portato in cantiere con lui per stare un po’ insieme.

Quella proposta in un giorno normale lo avrebbe fatto sussultare, ma il suo entusiasmo aveva distolto lo sguardo, era impegnato a trapassare un filtro inspessito da rimorsi e dubbi, così si concesse solamente un sorriso abbozzato.

Il mattino dopo mamma Ilda dovette svegliarlo baciandolo e accarezzandolo come non mai, come si sveglia una persona che si è ubriacata la notte prima e che rimane, ancora per un po’, risucchiato tra echi, emozioni distorte e sensi di colpa.

Quando andava al lavoro con papà l’orgoglio di essere il figlio del capo cantiere risuonava più di tutto, più dei rumori che si facevano violenti, degli odori solidi e di quei linguaggi con mille colori, ma tutto questo rimaneva offuscato dal piacere di guardare il proprio genitore mentre esercitava discretamente il suo carisma gentile.

Ledion era effettivamente rispettato da tutti ma sembrava influenzare gli altri in maniera quasi subliminale, cosa che non sfuggiva però a suo figlio, ammirato da una leadership che solo loro due riuscivano a vedere per come era realmente, cosa che alimentava un senso di esclusività e di intesa assoluta nella loro relazione.

Quella mattina ebbe la sensazione che i colleghi di papà, che lo conoscevano da quando era piccolo, in qualche modo sapessero del suo strano momento, perché erano tutti ancora più gentili del solito e si prendevano anche qualche secondo dal lavoro per scherzare con lui.

Un sospetto praticamente impossibile però, perché non ci sarebbe stato il tempo materiale perché arrivasse loro quell’informazione ma, soprattutto, perché avrebbe dovuto prevedere un fatto rarissimo…che suo padre, per farlo, avesse usato il cellulare!

Ledion aveva trentanove anni, era un padre giovane, ma sembrava che tra lui e Ilir fossero passate due generazioni, guardava la sua famiglia mantenendo lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte come chi deve costantemente prevedere eventuali pericoli ma con le gambe solidamente piantato sulla strada come chi non può permettersi mai nemmeno una minima oscillazione.

La giornata inizialmente passò molto rapidamente, Ilir stette soprattutto con i colleghi storici di papà, Florian, Amir e Giuseppe, che gli fecero portare sacchi di cemento, pulire e da capo, ma per lui non era una sorpresa e, essendo stato sempre molto attento a scappare dall’atteggiamento del figlio del capo, affrontava la fatica con una spinta a volte eccessiva.

Col passare del tempo le sensazioni si fecero più confuse e, nonostante avesse smesso di pensare a ciò che era successo il giorno prima, ricominciò ad avere un senso di disorientamento, molto diverso però, frutto di una stanchezza che lentamente si stava impossessando di lui, ottuso dagli aliti di tutti che erano diventati sempre più etilici, nel tentativo di contrastare la fatica, e con i contorni del mondo sfocati dall’arrivo del crepuscolo.

Tutti gli odori ormai erano confluiti in un intruglio di radici urbane, di catramosa concretezza, la sua gola era stata seccata dalla fuliggine che sembrava ossigeno per tutte quelle persone ormai abbandonate dalla voglia di parlare e ingobbite sempre più da una fatica fattasi solida.

Si congedarono tutti all’imbrunire, ma fu un saluto che per un attimo ridiede luce ai loro volti, realizzarono che nei giorni successivi non avrebbero più potuto ossigenarsi con la vitalità giovanile di Ilir e si scrollarono di scatto da quel grigiore, insieme alla polvere che cadeva dai loro vestiti mentre si abbracciavano.

Appena entrati in macchina la reazione di Ledion e di Ilir fu opposta, il padre non accennò a nessun segno di rilassatezza o distensione, mise in moto e ingranò la marcia come se stesse ancora maneggiando la cazzuola, mentre suo figlio si era praticamente liquefatto sul sedile, distendendo anche parti del corpo che non erano muscoli.

Arrivati sotto casa i lampioni del posteggio condominiale stavano progressivamente perdendo la quotidiana battaglia contro la notte, i rumori erano piccoli e distinguibili, qualche mamma gridava comunicazioni poco importanti rese vitali dall’ansia.

Ilir stava scendendo dall’auto come se l’ipotesi di sdraiarsi a letto (ovviamente senza prendere minimamente in considerazione l’idea di farsi la doccia!) si fosse conquistata un miracoloso potere taumaturgico, ma Ledion lo fermò e gli fece una domanda gigantesca in un piccolissimo momento:

” domani vuoi tornare in cantiere?”

Suo figlio non esitò, non ebbe i dubbi che aveva quando i compagni gli parlavano di gommoni da onta, non si chiese se si potesse sbagliare facendo la cosa giusta e vomitò un “no papà!”.

Subito dopo Ilir sentì quella reazione trasformarsi in pensieri, in preoccupazioni, in labirinti morali e, guardando il viso di suo padre, notò che si stava contraendo in un sorriso così intenso da portare le tante rughe a stritolare quei piccoli occhi neri che si stavano riempiendo di lacrime.

Tutto sembrò tornare al proprio posto, le luci dei lampioni erano protette e non sopraffatte dal buio, la giustizia attraversava l’errore per tornare a sé stessa, il passato sembrava voler rimanere solo per vegliare sul futuro.

Ledion non si curò di asciugarsi le lacrime e prese, con quelle mani affaticate più dalle responsabilità che dallo sforzo, il viso di suo figlio per trasmettergli tutta l’intensità che sentiva, dicendogli “bene, sono molto felice! adesso vai a farti la doccia!”

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago. Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta

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