NON BUCATE QUELLA PALLA

Un’analisi neuropsicologica e antropologica del calcio come rito collettivo che trasforma la paura in benessere attraverso l’adrenalina e l’identità di gruppo.

Molte delle festività che oggi consideriamo parte della tradizione cristiana affondano le proprie radici nei culti pagani e, in particolare, nei riti e nelle celebrazioni con cui le antiche civiltà europee scandivano lo scorrere delle stagioni e il ciclo della natura. Tutto ebbe inizio nel 380 d.C., quando con l’editto di Tessalonica il cristianesimo fu dichiarato religione ufficiale dell’impero romano. Di lì a poco, i decreti teodosiani inasprirono le proibizioni verso i culti pagani e i loro aderenti, dandoinizio alla progressiva cristianizzazione di quei popoli dell’Europa rurale fedeli a tradizioni religiose politeiste. Tuttavia, molte delle ricorrenze fin lì celebrate dai pagani non furono soppresse, ma semplicemente convertite dalla Chiesa in ricorrenze cristiane.

Così lo Yule, rito del solstizio d’inverno — giorno in cui, tra abeti addobbati, scambi di doni e ricchi banchetti, i pagani celebravano la nascita di un nuovo Dio Sole pronto a iniziare la propria ascesa —, divenne il Natale che conosciamo oggi, la festività cristiana che celebra la nascita di Gesù di Nazareth.

Anche la Pasqua, la più importante tra le festività cristiane (commemora la resurrezione del Figlio di Dio), affonda le proprie radici nell’antica festa germanica di Ostara — da cui deriva il termine tedesco Ostern, “Pasqua” — che si celebrava tra il 20 e il 23 marzo, in corrispondenza dell’equinozio di primavera, e segnava il ritorno della vita e della fertilità della terra.

Perfino Ognissanti reca traccia di un passato arcaico. La ricorrenza, così come la sua vigilia, chiamata All Hallows’ Eve nei paesi anglofoni (l’odierna festa di Halloween), discende dal Samhain, il Capodanno celtico che, secondo il calendario in uso oltre duemila anni fa nei territori d’Irlanda, Britannia e Gallia, segnava non solo la fine del raccolto, ma anche il passaggio dall’estate all’inverno, una transizione dal forte valore simbolico, in cui il declinare della luce e l’avanzare delle tenebre venivano allegoricamente interpretati come l’assottigliarsi del confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Samhain era dunque una celebrazione che univa la paura della morte all’allegria dei banchetti con cui si festeggiava la fine dell’anno, una commemorazione durante la quale, per tre giorni, ci si mascherava con le pelli degli animali uccisi per spaventare gli spiriti e, al tempo stesso, esorcizzare il timore della morte. Proprio in questa ambivalente commistione di paura e allegria, possiamo riconoscere un tratto distintivo della psiche umana: l’attrazione nei confronti di quella che Mathias Clasen della Aarhus University ha definito “recreational fear” (paura ricreativa).

La scienza moderna conferma ampiamente il legame tra gli stimoli percepiti come minacciosi e la loro trasformazione in piacere. In sintesi: la paura può trasformarsi in piacere quando viene sperimentata in un contesto sicuro. In queste condizioni il cervello attiva i meccanismi dell’allarme, ma la consapevolezza di non correre un pericolo reale li converte in eccitazione e divertimento. Il corpo reagisce come se fosse minacciato — il cuore accelera, l’adrenalina sale — ma la mente sa che tutto è sotto controllo. È proprio questo equilibrio tra tensione e sicurezza — lo stesso che alimenta l’attrazione per film horror, montagne russe e perfino pratiche come il bondage — a generare benessere, una forma di piacere che nasce dal potersi confrontare con le proprie paure senza doverle realmente affrontare.

Se gli antichi sfogavano questo impulso nella notte di Samhain, l’uomo contemporaneo lo riversa soprattutto nei templi laici dello sport, e negli stadi di calcio in particolare. Sì, perché tra tutte le discipline è il gioco che Eduardo Galeano definì “l’unica religione che non ha atei” a generare le emozioni più intense, paura compresa.

Le ricerche neuroscientifiche sui tifosi lo dimostrano con chiarezza. Uno studio di risonanza magnetica funzionale presentato alla Radiological Society of North America, condotto dal dottor Francisco Zamorano Mendieta, ha rivelato che nel cervello di un tifoso durante una partita si attivano circuiti cerebrali simili a quelli di chi affronta una paura controllata.In caso di vittoria, si illumina il sistema di ricompensa, con un picco di dopamina non dissimile da quello provato alla fine di un film dell’orrore. Di contro, una sconfitta attiva una rete di “mentalizzazione” che conduce a uno stato introspettivo, un meccanismo di elaborazione che mitiga il dolore, proprio come accade dopo una forte emozione negativa vissuta in un contesto fittizio. Un dato ancor più significativo è l’inibizione dell’hub cerebrale che collega il sistema limbico, sede delle emozioni, alle cortecce frontali, sede del controllo razionale. Questo spiega scientificamente perché la delusione per un gol subito allo scadere o l’angoscia per una possibile retrocessione possano, in certi casi, sfociare in comportamenti dirompenti e irrazionali: è l’equivalente neurologico di quando la paura, in un film, supera la soglia del “contesto sicuro” e diventa disagio reale.

Questa attivazione neurofisiologica è alimentata da una profonda identificazione psicologica. Come spiegato dalla teoria dell’identità sociale di Tajfel e Turner, la squadra diventa un’estensione del sé. La sua vittoria è la nostra vittoria; la sua sconfitta, una ferita personale. La paura che possa perdere non è quindi astratta, ma concreta: è il timore di un’umiliazione identitaria. Eppure, è una paura che cerchiamo attivamente. Come gli antichi Celti si approssimavano al mondo dei morti durante il Samhain, il tifoso moderno si espone volontariamente all’ansia da prestazione della sua squadra, al batticuore generato da un rigore, all’angoscia di una sconfitta subita al 90’.

In definitiva, le neuroscienze ci dicono che la complessità del calcio va oltre il campo. Le influenze psicologiche analizzate nel saggio – suffragate dalle ricerche di Mathias Clasen, Francisco Zamorano Mendieta, Henri Tajfel e John Turner – rappresentano solo una parte del mosaico. Il fenomeno calcistico, infatti, innesca un più ampio spettro di reazioni emotive profonde. Due in particolare, sebbene distinte, trovano nel calcio un terreno di espressione privilegiato.

Il primo fenomeno è l’avversione alla perdita, principio cardine della teoria dei prospetti di Daniel Kahneman e Amos Tversky, che descrive la tendenza umana a percepire il dolore di una perdita come più intenso rispetto alla gioia di un guadagno equivalente. L’esempio più illuminante viene da Paolo Maldini, uno dei calciatori più vincenti di tutti i tempi, che nonostante i trofei vinti si è definito “il giocatore più perdente della storia”. Le finali perse con il suo amato Milan e con la maglia azzurra della nazionale hanno lasciato in lui un’impronta emotiva più profonda e duratura della gioia per le numerosissime vittorie, dimostrando come il dolore della sconfitta possa offuscare persino una carriera leggendaria.

Il secondo fenomeno è la Schadenfreude, termine tedesco che indica il piacere provato per le disgrazie altrui. Qui l’esempio della retrocessione della Juventus nel 2006 è emblematico: per molti tifosi avversari, la gioia di vedere la “Vecchia Signora” in Serie B ha superato perfino la gioia per i successi della propria squadra.

Anche questi due fenomeni, pur operando su piani diversi, rivelano come il calcio funzioni da potente catalizzatore di complesse dinamiche emotive.

Eppure qualcuno continua a considerarlo solo un gioco.

BIO: Davide Pollastri nasce a Monza il 26 marzo 1977.

Fin da giovanissimo manifesta un forte interesse per la lettura e talento per la scrittura.

Tra il 2000 e il 2004 alcuni suoi scritti vengono pubblicati da alcuni importanti quotidiani nazionali.

Nello stesso periodo inizia a fare musica e a farsi chiamare Seven, riuscendo a farsi apprezzare all’interno della scena Hip Hop Underground grazie allo stile scanzonato e all’originalità dei testi.

Nel 2014 scrive e stampa il suo primo romanzo dal titolo “L’Albero della Vanagloria”.

Nel 2016 con il racconto “L’Amore Assente” è tra i vincitori del concorso letterario Stampa Libri realizzato in collaborazione con Historica Edizioni.

Nel 2019 è tra i semifinalisti del “Cantatalento”-Festival di Arese. Sempre nel 2019 realizza alcuni video sulla storia della Juventus e apre su Facebook il Blog “Seven Racconta”; i racconti del Blog, dedicati a tutti quei calciatori capaci di farlo innamorare del “gioco più bello del mondo”, fanno breccia nel cuore di molti appassionati e riscuotono interesse. Alcuni degli ex calciatori protagonisti dei suoi racconti ringraziano pubblicamente Pollastri per le storie scritte su di loro.

Dal 2020 è ospite di importanti trasmissioni web-televisive tra cui ‘Signora Mia’, ‘Che Calcio Che Fa’ e ‘LeoTALK’, condotto dalla nota giornalista Valeria Ciardiello.

Nel 2021 è l’ideatore del programma web ‘Derby d’Italia-Una trasmissione pensata da chi ama il calcio per voi che amate il calcio’.

Sempre nel 2021 esce il suo secondo libro dal titolo “C’era una volta la Danimarca Campione d’Europa”.

Il 20 ottobre del 2021 appare in una puntata di ‘Guess My Age-indovina l’età’, il quiz show trasmesso da TV8 e condotto da Max Giusti.

Nel 2022 esce il suo terzo libro dal titolo “Maccheroni alla Trapattoni”. Dal 2023 collabora con ‘Monza Cuore Biancorosso’ e ‘Fatti Nostri’, un giornale indipendente online dedicato a tutti gli italiani che vivono nelle diverse parti del mondo.

Dal 2024, dopo aver frequentato la scuola di alta formazione per il calcio ‘Elite Football Center’, scrive anche per Sporteconomy.it, market leader nell’informazione applicata all’economia dello sport.

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