La differenza tra le generazioni di giovani calciatori ha da sempre suscitato un dibattito acceso e vibrante, soprattutto quando si considera l’approccio e il trattamento che ricevono da parte dei compagni e dei tecnici. Ognuno di noi porta da sempre l’acqua al mulino del suo tempo, per cui quando i giovani Delpiero e Totti infiammavano una serie A già farcita di campioni, c’era chi rimpiangeva gli Zico e i Maradona, se non i Rivera e i Mazzola.
La recente intervista di Robert Lewandowski segue questo filone: il nove blaugrana ha raccontato la sua esperienza con giovani talenti come Lamine Yamal, Cubarsi, Gavi e Pedri, evidenziando una caratteristica della Gen Z peculiare per abitudini e aspettative. In particolare il centravanti polacco ha stigmatizzato il fatto che i giovani calciatori non siano ricettivi quando dalla panchina o dalla lavagna tattica giunga l’“urlo” o l’indicazione più decisa e vicina al rimprovero.
Lo spunto di questa testimonianza conduce a una riflessione sulla centralità del ruolo di un allenatore nello sviluppo dei giovani atleti, di qualsiasi disciplina sportiva si parli: i modelli teorici e gli schemi predefiniti non possono sostituire la complessità e la ricchezza dell’esperienza diretta sul campo.
Alcuni mister di giovanili sembrerebbero più “cattivi maestri” che educatori, confondendo la propria frustrazione con la virtù pedagogica e utilizzando l’urlo e la critica umiliante come strumenti di “educazione”, creando una rappresentazione distorta della realtà del gioco.
Con un termine molto inflazionato, si potrebbe collegare un atteggiamento legato ad un’educazione così rigida e militaresca, ad un approccio finalizzato ad allenare la resilienza, salvo non prestare troppa attenzione alla fondamentale differenza tra critica e umiliazione, spesso sottile ma chiara nei suoi effetti nel medio – lungo termine: la prima corregge, la seconda distrugge. E’ diffuso il luogo comune per cui gli allenatori migliori spesso non siano i giovani rampanti con titoli accademici, ma i “vecchietti” di paese che hanno imparato sul campo e sanno parlare ai ragazzini come padri o nonni, toccando le corde giuste e ascoltando, mostrando che la vera comprensione del gioco emerge dall’esperienza vissuta, non dalle rappresentazioni teoriche.
Di queste tematiche così impattanti nello sviluppo di prospetti e di campioni di domani, mi è capitato di chiacchierare di recente con Mister Gabriele Gervasi, un passato da allenatore nella cantera del Genoa e uno più recente come responsabile tecnico del settore giovanile della Dinamo Tbilisi: le generalizzazioni, compresa quella di cui sopra, sono sempre fuorvianti, perché porterebbero ad escludere da profili per così dire “compatibili”, allenatori giovani molto preparati e con in dote abilità empatiche fuori dal comune. Provate per contro a fare caso a quanti “urli” provengano ogni domenica dalle panchine popolate da profili di personaggi esperti, senza scomodare i Conte o i Gasperini…
Con Mister Gervasi siamo concordi nel condividere che proteggere e svezzare un talento, nella sua accezione più pura, possa prescindere da un politically correct su modi e forme. Contestualizzando il più possibile, s’intende, ma diventa prioritario ed opportuno che un diciottenne, saltuariamente aggregato alla prima squadra, sappia abituarsi ben presto a certe formule verbalmente colorite, anche se non propriamente inclusive in alcune sfaccettature.
Il calcio giovanile rimanga scuola di vita e sappia scendere in profondità rispetto alla superficie, andando sempre a combinare metodologia, tattica e psicologia rispetto alle individuali “mappe umane”, esplorabili secondo l’unicità dei ragazzi e del rispettivo territorio.
Dalla predefinizione di una sorta di protocollo, la missione dei mister 2025-26 dovrebbe abbracciare la creatività, subordinando all’enfasi del risultato la lungimiranza del percorso di crescita. L’ipersensbilità va convogliata nell’alveo dell’attenzione selettiva rispetto ad obiettivi e relativa sostenibilità, per forgiare gli uomini di domani, prima ancora degli atleti promettenti di oggi.

Bio: Francesco Borrelli è un Mental Coach certificato Acsi – CONI. Oltre alla Laurea in legge presso l’Università degli Studi di Genova, si è formato in PNL attraverso corsi e Master conseguiti nell’ambito di aziende private di cui ha fatto parte. Negli anni ha coltivato la sua passione per lo sport scrivendo per testate giornalistiche liguri, oltre a svolgere il proprio lavoro di consulente d’azienda in ambito bancario. L’attività di Mental Coach lo porta da diverse stagioni ad accompagnare sportivi impegnati a preparare Olimpiadi e Mondiali, oltre a calciatori di tutte le età, agevolandone i rispettivi percorsi e seguendone tutta la trafila giovanile fino all’approdo in prima squadra. Il suo sogno è condividere come Coach il suo ufficio a fianco alla “palestra delle leggende” di Milanello con Ibra.
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Una risposta
” i modelli teorici e gli schemi predefiniti non possono sostituire la complessita’ e la ricchezza dell’esperienza diretta sul campo.”
E’ in questo pensiero cosi ben definito la chiave di lettura del ” degrado assoluto ” in cui e’ precipitato il nostro calcio da quello giovanile a quello degli adulti.
Il problema non e’ nell’atteggiamento dei giovani ma nella irricevibile attivita’ svolta dagli adulti nei loro confronti.
Siamo piombati da qualche decennio in un abisso di ” sbornia cognitiva ” di smodata e perniciosa smania degli adulti di insegnare addestrando e istruendo.
Nel calcio c’e’ ben poco da insegnare essendo le abilita’ di natura percettivo-motoria quindi non transitabili da processi cognitivo-coscienti.
Basterebbe questa elementare conoscenza per sottrarre i giovani calciatori di talento alla ” violenza pedagogica ” di improvvidi e improvvisati adulti e pericolosissimi giovani adulti.
In generale, nella societa’ del nostro tempo, i giovani rappresentano la ricchezza assoluta, la speranza, la fiammella per la creazione di un mondo migliore, gli adulti il degrado irreversibile, l’involuzione, il tappo forzato che impedisce alle nuove generazioni di affermare la genuinita’ delle cose della vita.