Nel panorama del calcio europeo, si sta consumando un paradosso che non solo mina la competitività tra club, ma premia i modelli meno virtuosi: le società che partecipano alle coppe europee devono spendere (di regola) quanto incassano, mentre chi ne resta fuori può accumulare perdite, investire ben oltre i propri ricavi e addirittura farlo con il beneplacito del sistema. È il trionfo della disuguaglianza strutturale.
Con il nuovo regolamento UEFA sulla sostenibilità finanziaria, in vigore dal 2022, è stato introdotto il principio del squad cost ratio – ovvero il limite del 70% dei ricavi totali per coprire stipendi e ammortamenti. Chi compete in Champions, Europa o Conference League è obbligato a rispettare paletti stringenti, pena l’esclusione dalle competizioni.
Ma ecco l’assurdo: un club con una proprietà solida, capitalizzata, ambiziosa – magari un progetto moderno e virtuoso – se non partecipa alle coppe europee, può spendere ben oltre quanto incassa. Può farlo per crescere, per investire nel medio-lungo periodo, per costruire una squadra competitiva. E nessuno lo ferma.
Può chiudere bilanci in perdita per anni, sostenuto dalle iniezioni economiche della proprietà, e nel frattempo rafforzare la rosa, investire in infrastrutture, e scalare posizioni. Chi invece è già in Europa, magari con uno stadio di proprietà e bilanci in ordine, è inchiodato alla necessità di pareggiare entrate e uscite ogni anno. Cosa ne risulta? Che per rispettare i parametri UEFA, chi ha lavorato bene deve vendere. E chi è fuori dalle coppe, può comprare.
È l’economia del paradosso: chi ha già raggiunto certi traguardi, deve rallentare. Chi è dietro, può accelerare senza freni.
E allora ci si chiede: qual è la vera sostenibilità? È forse più sostenibile un club che vende il suo miglior giocatore per rispettare il squad cost ratio, oppure uno che chiude a -50 milioni ma promette “investimenti per il futuro”? Il sistema UEFA dice che è il primo. Ma il campo, la concorrenza e il mercato dicono il contrario.
In altri settori economici, una realtà con una proprietà solida alle spalle ha il diritto – anzi, il dovere – di investire per crescere, anche a costo di andare momentaneamente in perdita. È un principio sano, tipico delle aziende in fase espansiva. Ma nel calcio europeo, solo chi è fuori dal perimetro UEFA può permetterselo.
Così si sta creando una classe di club “congelati”, costretti a pareggiare i conti per non perdere l’Europa, mentre altri, senza le vetrine internazionali, possono pianificare liberamente la propria ascesa, mettendo in campo risorse, investimenti e strategia. E quando arrivano in Europa, spesso ci arrivano già strutturati e forti. Ma lo fanno sfruttando una libertà che, una volta entrati nel circuito UEFA, non avranno più.
È un gioco a ostacoli per chi è in alto, una corsia preferenziale per chi rincorre.
Il risultato? Una distorsione sistemica. Le regole non frenano solo gli sprechi, ma anche le ambizioni sane. In nome della sostenibilità, si stanno tarpando le ali a chi ha già fatto scelte virtuose. E si sta permettendo a chi ha sbagliato per anni di rilanciarsi o svilupparsi senza vincoli, solo perché non è qualificato alle coppe.
La domanda finale è scomoda, ma inevitabile:
il sistema sta davvero promuovendo la sostenibilità… o un’instabile mediocrità gestionale?

BIO: LUCA LUISI
Professionista del settore sportivo, specializzato in pianificazione strategica, sviluppo degli asset dei club e gestione finanziaria, ambiti in cui ha maturato esperienza anche grazie a un percorso parallelo nel settore creditizio. Laureato in Economia e Direzione d’Impresa con specializzazione in Management dello Sport, ha collaborato con realtà nazionali e internazionali, contribuendo alla crescita e alla sostenibilità dei progetti sportivi. In possesso della qualifica di allenatore UEFA C, ha completato il Master Executive in Management del Calcio organizzato da SDA Bocconi in partnership con la FIGC. Il suo approccio è orientato alla creazione di valore e allo sviluppo strategico dei club. È autore di due pubblicazioni dedicate al calcio e al management sportivo.
Una risposta
Sono perplesso per quanto tu scrivi.
Sei corretto nell’esposizione e quanto da te scritto sembra inequivocabile.
Proviamo a vederla da un altro punto di vista.
Dovessimo adottare il tuo punto di vista difficilmente un club non al topo può accedere al fatturato di un club di vertice e quindi primeggiare tecnicamente.
Ti faccio un esempio oggi il Manchester City ed il PSG, cosa sarebbero senza il fiume di denari che sono affluiti, in varie modalità non sempre cristalline?
Per premi sportivi (partecipazione ai tornei Uefa), per posizione nei primi posti, si spiega gran parte delle prime squadre europee per fatturato. Inoltre, lo stare stabilmente in quelle posizioni fanno affluire sponsorizzazioni da sogno.
Quindi è chiaro che se un club, non tra i primi, ha la possibilità di avere un presidente “ricco scemo”, che capitalizza continuamente la squadra per portarla al vertice, io non lo trovo scandaloso.
Poi, se vogliamo premiare la competitività dei campionati e tornei, allora mettiamo le regole che favoriscono il buon lavoro tecnico ed organizzativo, all’immissione di capitali.
Io come te trovo che si va verso una spirale che porta a gonfiare una “bolla economico-finanziaria”, che prima o poi può scoppiare o sgonfiarsi.
Quindi, “sic stantibus rebus” trovo giusto che chi sta dietro debba essere agevolato a chi sta al vertice altrimenti il gap non si riduce mai.
Comunque, partendo dal tuo punto di vista, trovo il tuo intervento molto interessante e meritevole di approfondimenti.