IL GOAL DELL’EX.

Dalla rabbia per l’amore tradito alle scuse.

Cercare nei tormenti di Catullo, eternamente intrappolato tra odio e amore, le motivazioni per un rapporto così apparentemente incompatibile potrebbe essere complesso e non completamente risolutivo, talmente forte era la convinzione del poeta che questi due sentimenti dovessero far fronte ad una natura ineluttabilmente complementare.

Forse, facendo riferimento al racconto di Shopenhauer sui porcospini, potremmo recuperare un significato più utile per il nostro intento pallonaro.

Il filosofo descrisse un gruppo di porcospini in una caverna d’inverno obbligati ad avvicinarsi per ottenere più calore e, dopo aver sperimentato una vicinanza resa dolorosa dai loro aculei e una lontananza non utile allo scopo, trovarono in una distanza equilibrata la soluzione per il loro problema, ottenendo calore dal corpo dell’altro ed evitando di ferirsi.

Anche secondo Freud, quando la relazione amorosa avvicina troppo i due partner, poi richiede un recupero della giusta distanza, pure al prezzo di produrre sensazioni negative e di fastidio per l’altro, una necessità narcisistica inevitabile per l’essere umano.

Come fa un giocatore a non provare del risentimento dopo che, per anni, ha giocato con la stessa maglietta addosso, rappresentandone i colori per tutta Italia (o nel mondo) e, di colpo, dover abbandonare tutto, compresi i tifosi con cui ha inevitabilmente creato un legame potentissimo?!

E perché allora i giocatori di adesso, quando segnano alla loro vecchia squadra, non esultano rabbiosamente e, anzi, si scusano in maniera plateale evitando rigorosamente qualsiasi gesto gioioso?

Probabilmente la risposta sarebbe in grado di massacrare qualsiasi velleità di romanticismo, non trovandosi su un piano emotivo o sociologico ma, piuttosto, nel rapporto economico tra giocatori e società, una relazione radicalmente ridefinita negli ultimi trent’anni che ha portato i calciatori ad essere sempre più padroni del loro destino.

Essere ceduto malgrado il proprio volere, vedersi promettere ad una squadra piuttosto che ad un’altra, sono dinamiche ad oggi impossibili per un calciatore moderno, divenuto ormai il sultano delle sue mille carriere in una.

L’immagine che meglio rappresenta quel mondo calcistico passato è quella che ritrae i dolori del giovane Baggio che, da amatissimo-traditore-suo malgrado, si ripresenta al Franchi contro la sua Fiorentina indossando la maglia della nemesi dei viola, la Juventus.

In quel pomeriggio del primo aprile (quanto sadico è il dio del calcio!) 1991 non ci saranno goal dell’ex e, quindi, esultanze da gestire, ma verrà messa in atto una incredibile prova di illusionismo.

Roberto rimarrà in campo fino al sessantaquattresimo cercando in ogni modo di rendere invisibile il suo talento, missione difficilissima che, infatti, non gli riuscì completamente, portandolo a procurandosi un rigore che non avrà mai il pensiero di calciare.

All’uscita dal campo fugò ogni dubbio accettando una sciarpa viola e salutando la curva Fiesole come se la maglia che indossava fosse sparita insieme a lui.

I calciatori di adesso non possono più vivere il dolore di essere obbligati a lasciare la squadra per cui giocano contro la loro volontà, sono protetti da un potere contrattuale che consente loro di poter vivere più carriere in una, quella quando sono al Milan, all’Arsenal, al Borussia Dortmund etc, etc…

Loro sono quelli che lasciano, quelli che si trovano nella condizione di volersi scusare dopo aver fatto goal contro una società che hanno deciso di abbandonare.

Molti tifosi leggono questi comportamenti in maniera strumentale, poco autentica, tacciando questi calciatori di piaggeria, di scarsa coerenza rispetto a scelte di cui non vogliono assumersi a pieno le conseguenze.

A conferma che il dio del calcio possa tranquillamente rivaleggiare, in quanto a sadismo, con quelli greci accomodati sull’Olimpo sta un goal dell’ex particolarmente significativo ed intenso.

Quando il cuore grande e melanconico di Agostino Di Bartolomei affrontò l’ennesimo dolore sportivo, quello di dover abbandonare la squadra della sua vita, la Roma, per andare al Milan, probabilmente la sofferenza per la finale di coppa dei campioni persa in casa contro il Liverpool era ancora così pulsante da annebbiargli la tristezza.

Inevitabilmente venne il momento in cui Agostino dovette incontrare i suoi vecchi compagni di vita sul campo, mettendo in scena sul prato di S.Siro una rappresentazione calcistica del dubbio catulliano.

Esiste un video di un’intervista fatta negli spogliatoi prima della partita da quel monumento di romana guasconeria che era Gimpiero Galeazzi, in cui Agostino tradisce per un secondo la sua espressione ombrosa e il suo eloquio dalla bocca immobile, lasciandosi scappare un rarissimo sorriso alla domanda se il Milan avesse vinto con un suo goal…

Cosa che ovviamente successe! (probabilmente il dio del calcio avrebbe bisogno di un intero padiglione dell’Olimpo!)

Di Bartolomei vinse un contrasto, che una volta avrebbero definito vigoroso, poco fuori il vertice sinistro dell’area di rigore e segnò con un esterno destro, lontano parente dei siluri con cui aveva messo a prova per anni le reti delle porte dell’Olimpico, ma significativo come pochi.

La reazione immediata fu di andare sotto la curva sud per esultare di fronte ai suoi nuovi tifosi con le braccia verso il cielo e il petto tronfio per la più rabbiosa delle vendette.

Immediatamente, però, si rigirò verso il campo, quasi come se la sua storia, il suo passato, lo avessero riportato dentro a sé stesso, in una persona che aveva sempre fatto della serietà e della correttezza una bussola etica, anche a costo di soffocare qualche emozione.

Ma perché in questo caso non esiste un vero e proprio dilemma?

Perché la stragrande maggioranza degli appassionati di calcio preferisce la versione dell’ex avvelenato a quella del pentito?

Perché ci piace amare quanto ci piace odiare!

E questo succede ai calciatori stessi che, spesso, da ex sembrano nutrirsi del risentimento dei loro vecchi tifosi per farli soffrire nuovamente, magari ostentando poi un’esultanza provocatoria come fece Ronaldo dopo aver segnato in una marea di fischi interisti a cui rispose con il suo sorriso irriverente e le mani dietro alle orecchie.

In passato però l’ex sembrava manifestare la propria sete di vendetta soprattutto attraverso una prestazione particolarmente agguerrita esultando, in caso di goal, come sempre o leggermente di più.

Ricordiamo Aldo Serena, l’ex di tutti, che distribuiva equamente goal ed esultanze alle sue vecchie squadre con salomonica generosità.

Adesso spesso le esultanze degli ex, se non decidono di cospargersi il capo di cenere, sono anche provocatorie, a conferma del fatto che il piacere di amare e di odiare possa raggiungere picchi molto vicini.

Concludendo ci piace sottolineare un pericolo sempre più concreto nel calcio contemporaneo, quello che potrebbe portare, visto i numerosissimi cambi di squadra dei giocatori di adesso, i calciatori a vivere il paradosso di vedere trasformata la loro volontà di non esultare in una vera e propria esultanza.

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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