Un poco di materiale che utilizzavo negli 90 del secolo scorso quando mi occupavo del rinnovamento dell’insegnamento-apprendimento dell’educazione sportiva degli sport collettivi di invasione.
Solo nel calcio italiano si continua a lavorare come allora.
Nonostante l’evidenza che né l’uno nè l’altro siano autosufficienti, si continua a confliggere tra analitico e situazionale.
Essi sono solo degli interventi didattici a disposizione dell’allenatore, non sempre necessari (se ne può fare tranquillamente a meno senza alcun pregiudizio) nel quadro del processo formativo del calciatore. Certo che per lavorare in maniera sistemica utilizzando la complessità della realtà autentica del gioco (compresenza spaziale e temporale di tutti i soggetti coinvolti, di tutti gli elementi cogenti il gioco, e integrazione di tutte le dimensioni, ivi comprese quelle emotive e socio-affettive) occorrono notevoli competenze. Frazionare, frammentare, dividere è molto più semplice (stavo scrivendo più comodo). Ma, non è affatto pertinente.
Il dritto di Roger Federer, il controllo di palla di Zinedine Zidane o il lancio del giavellotto di Jan Zelesny sono tutte tecniche che i giovani atleti sognano di saper replicare. Ma non ci riusciranno! Le tecniche, oggetti singolari, in continuo adattamento, sono uniche e personali, consentendo di mettere a punto, in una situazione particolare, le potenzialità di un individuo.
L’apprendimento non consiste nel copiare i propri idoli, ma nel saper organizzare in modo originale e unico la propria azione per produrre una performance in tutti i contesti di realizzazione. Ciò è tutt’altro che semplice, considerando come le tecniche di questi sport siano altamente sofisticate. Nonostante queste evidenze, purtroppo, specie in ambito calcistico italiano, si continua a lavorare attraverso la ripetizione e la meccanizzazione del gesto avulso dalla realtà contestuale.
Da un lato, alcuni insegnanti di educazione fisica utilizzano un cosiddetto modello didattico tradizionale, che mira a sviluppare le capacità motorie di base (abilità tecniche) attraverso la ripetizione dei movimenti. Tuttavia, come vedremo, questi modelli hanno dimostrato la loro efficacia nell’apprendimento di abilità motorie isolate, ma non consentono ai giocatori di comprendere meglio il gioco e di scegliere il momento appropriato per eseguire l’azione in questione.
La prima messa in discussione dell’onnipotenza del modello tecnico e individualista che è stato a lungo alla base dell’insegnamento dei giochi e della JSC (Jeux Sportive Collective) risale principalmente all’inizio degli anni ’60 (Dyotte & Ruel, 1976).
All’epoca, la supremazia della squadra di hockey su ghiaccio dell’Unione Sovietica era evidente nelle principali competizioni internazionali. Grazie a un gioco d’attacco collettivo, basato sulla velocità e sui passaggi, con una notevole circolazione di giocatori che si scambiavano le posizioni con grande coesione, i giocatori dell’ex URSS superarono gli avversari in tutte le fasi di gioco, persino i giocatori professionisti nordamericani. La dottrina allora stabilita affermava che non è possibile vincere una partita giocando solo in difesa, a meno che non si sia fortunati. Inoltre, la squadra dell’Unione Sovietica sviluppò un gioco in cui i giocatori cambiavano continuamente posizione per confondere meglio le difese avversarie, a differenza dell’hockey giocato all’epoca in Canada, dove tutti rimanevano più fermi nella propria posizione e si muovevano solo avanti e indietro, con poca libertà (Dyotte & Ruel, 1976).
L’allenatore sovietico Anatoly Tarasov era favorevole al possesso palla collettivo. Invece di mandare il disco nella zona avversaria e inseguirlo, o di far sì che un giocatore cercasse di superare in astuzia l’avversario da solo, i giocatori sovietici cercavano di mantenere sempre il controllo del disco e di progredire attraverso passaggi sempre destinati a un giocatore libero e in movimento. Quando era in possesso del disco, questa squadra è stata la prima a non dare priorità a tutti i costi a una singola direzione di gioco in avanti, a favore di un migliore controllo del gioco (Dyotte & Ruel, 1976).
Inoltre, gli allenatori sovietici dell’epoca introdussero anche l’osservazione sistematica di determinate fasi di gioco. Ad esempio, sulla base di osservazioni numeriche relative alla percentuale di entrate in zona riuscite, alla percentuale di dischi persi, ai contrattacchi effettuati dai difensori, ecc., allenatori e giocatori sono stati in grado di comprendere meglio il gioco degli avversari per sfruttare i loro punti deboli. Queste osservazioni sistematiche erano molto più dettagliate delle statistiche principali della partita, raccolte all’epoca da altri allenatori o specialisti di hockey su ghiaccio.
La soluzione motoria è legata alla scelta delle risposte e alla tempistica della loro esecuzione. Dopo aver ricevuto e filtrato le informazioni raccolte sulle configurazioni di gioco, il giocatore deve ora decidere quale azione intraprendere. L’esperienza, il repertorio delle risposte disponibili, la memoria, la conoscenza tattica, le sensazioni, il giudizio e l’attività mentale hanno un impatto diretto nel determinare “cosa fare” e “quando farlo”. Inoltre, anche alcuni fattori psicologici, come l’esperienza, la motivazione, la posizione e lo status nel team o la sicurezza, influenzano questa decisione. Il movimento o l’azione motoria che ne deriva è quindi il frutto di una decisione ponderata, complessa e volontaria.
In Francia, gli anni 1965-1969 segnarono una svolta nel modo di concepire l’insegnamento del gioco nelle scuole. Seguendo il lavoro di Deleplace, la pedagogia dei modelli decisionali tattici (Bouthier, 1986, 1988; David, 1984; Diaz, 1983; Reitchess, 1983; Stein, 1981…) “postula che l’intervento dei processi cognitivi sia decisivo nell’orientamento e nel controllo motorio delle azioni. Essa presuppone che la presentazione di indicatori percettivi significativi e di principi razionali di scelta tattica organizzi in modo significativo gli effetti della transizione all’azione, anche in termini di qualità dell’esecuzione” (Bouthier, 1986, p. 85).Da parte loro, Méot e Plumereau (1979, p. 59) sottolineano che “l’insegnamento di un gioco sportivo di squadra non può essere ridotto all’apprendimento (per imitazione e ripetizione) di una serie di gesti tecnici, come una “serie di risposte” corrispondente a una serie di “situazioni problematiche”. La prospettiva di acquisire un atteggiamento decisionale consente al giocatore di scegliere di agire in una situazione determinata, tra l’altro, dai seguenti parametri:
- la situazione topografica del pallone nello spazio vicino;
- gli elementi corporei che agiscono sulla palla;
- le distanze dagli altri giocatori (partner, avversari).
Qui l’attività percettiva e decisionale diventa primaria. Inoltre, più specificamente per quanto riguarda il football, Worthington (1974) presenta un modello basato su quello inizialmente sviluppato da Wade (1967). La forza pratica di questo modello risiede nella semplice idea di ridurre il numero di giocatori in gioco e di utilizzare solo sei ruoli o posizioni di gioco, ovvero tre in attacco (prima, seconda e terza punta) e tre in difesa (prima, seconda e terza difesa), per fornire una comprensione pratica dei principi del gioco. In questo modello, i ruoli di prima punta, seconda punta e terza punta sono legati ai rispettivi principi di penetrazione, profondità offensiva e mobilità. D’altro canto, i ruoli del primo, secondo e terzo difensore sono legati ai rispettivi principi di prevenzione della penetrazione, costruzione della profondità difensiva e mantenimento dell’equilibrio difensivo.
A partire dal 1985, gli americani tornarono ad interessarsi a questo tipo di problema con una serie di pubblicazioni che tentavano di dimostrare la validità dell’insegnamento attraverso i giochi, in cui il processo decisionale era l’elemento centrale.
French e Thomas (1987) hanno scoperto che i giovani giocatori di basket imparavano a prendere decisioni corrette più rapidamente nel contesto del gioco che attraverso l’apprendimento di competenze tecniche. Nella loro ricerca, sono stati osservati lievi progressi nelle capacità motorie durante la stagione, ma al momento dei test non è stato rilevato nulla di significativo per le prestazioni di gioco. French e Thomas (1987) sostengono che ciò sia dovuto alla quantità di pratica dedicata alle strategie (nel senso americano del termine, cioè senza differenziazione tra strategia e tattica) piuttosto che allo sviluppo delle abilità motorie del basket.
MacPherson e French (1991) indicano che iniziare l’apprendimento con la tecnica o con il gioco dovrebbe avere un impatto sulla conoscenza e sul gioco. Indicano inoltre che la conoscenza (dichiarativa) e la capacità decisionale degli studenti durante il gioco aumentano notevolmente quando all’inizio viene utilizzato quasi esclusivamente l’approccio basato sul gioco.
Sviluppando questa idea di approccio tattico, Gréhaigne (1988, 1989) nota nella sua tesi che, nell’apprendimento classico degli sport di squadra, si cerca soprattutto di insegnare agli studenti i gesti tecnici e di imporre l’ordine sul campo, sotto forma di distribuzione formale.
Tuttavia, l’opposizione dell’avversario in una partita genera l’imprevisto e la necessità costante di adattarsi ai vincoli che nascono dal confronto. Una partita è molto raramente la semplice applicazione di combinazioni tattiche apprese in allenamento. Pertanto, nel gioco, possiamo spesso considerare solo le probabilità di evoluzione delle configurazioni di attacco e di difesa.
Poi sono arrivate le evidenze neuroscientifiche e il dibattito internazionale si è spento.
Resta acceso solo da noi e solo nel calcio.
