”Il calcio dribblato esibisce due cose di troppo: l’avversario e la palla. Il gioco a uomo ` e gioco del ’tatto’, da qui la ’tattica’ che ` e ammaestramento della scurrilit` a.”
(Carmelo Bene)
La marcatura a uomo ` e il gioco dei furbi, dei pigri che sanno usare il cervello.”
(Nils Liedholm)
La trasmissione delle idee è affare complesso, basandoci sullo schema con il quale essa avviene la possiamo classificare in svariati modi (invenzione, divulgazione, insegnamento, propaganda, moda…). A causarne la declinazione l’aspetto principale è rappresentato dai rapporti di forza tra promulgatore dell’idea con i suoi riceventi e con quanti di essi la trasmissione risulta efficace. Di difficile rintracciabilità è invece il movente che spinge e ci spinge ad adottare un’idea; un pensiero diventa di ciascuno per ragioni intrinseche al suo messaggio, ai suoi connotati estetici, alla sua popolarità o ai propri presupposti etico-morali.
E tramite questo mutevole interscambio di ragioni che si assiste all’insorgere di movimenti politici, correnti artistiche ed intellettuali, scoperte scientifiche, innovazioni…. D’altronde il passaggio chiaro, nella nostra società di massa rispetto alla precedente, è quello da economia della pratica a economia della conoscenza: Le idee guidano il mondo più di quanto non sia mai avvenuto nella storia. Nel mondo del calcio questo ricircolo concettuale è posto al vaglio costante di vittorie o sconfitte, o per meglio dire verificazioni e falsificazioni delle proprie tesi; il ferro rovente e malleabile dell’idea viene così plasmato dai dati di realtà, aggiustamenti continui in una ricerca ossessiva del margine vincente in uno degli infiniti modi di far rotolare un pallone dalla parte all’altra di un campo.
E in questa cornice teoretica che si instaura il ragionamento qui proposto, prendendo spunto dalla più classica storia di maestri e allievi. Raccontiamola partendo dalla fine:
È il 22 Maggio 2024 a Dublino, dove si è appena consumata una batosta di rare proporzioni; nella finale di Europa League l’Atalanta rifila un netto 3-0 al Bayer Leverkusen di Xabi Alonso, fino ad allora imbattuto in stagione, avvalendosi di una tripletta stellare di Ademola Lookman, regalando il primo successo internazionale della storia al pubblico di Bergamo. Quella mano nerboruta che affossa l’avversario, quel pressing feroce a tutto campo, quell’aggressività capace di spezzare ogni giro di palla: sono immagini che tutta Europa, finalmente, ha potuto ammirare. Eppure non sono altro che il culmine di un percorso trentennale di un allenatore, Gian Piero Gasperini, che di tali tratti distintivi ne ha da sempre fatto le effigi del proprio calcio.
In un’epifania collettiva i tecnici di tutto il mondo, imbracciati pennarelli e lavagne, erano pronti a rimodulare i propri schemi di fronte alla prova dell’efficacia di quel tipo di gioco, la corona d’alloro (spesso infida e bugiarda) della vittoria, posta in capo al tecnico di Grugliasco sanciva il definitivo superamento di un modello precedente, basato su una difesa di reparto, rotazioni schematiche e spazi occupati in maniera geometricamente determinata; un processo di ammodernamento diventato inevitabile.
Più che una vittoria Gasperini aveva lanciato ”Urbi et Orbi” una minaccia ai tiranni del calcio posizionale. Osservando più a fondo però, il trofeo vinto dagli orobici non è che un momento critico all’interno di un cambiamento più sfumato e graduale, nel quale ha assunto grandezza il discepolato dello stesso Gasperini, soprattutto per quanto riguarda le vicende italiche. Per mano di chi è stato ex giocatore del Gasp o di chi per semplice stima ne ha adottato i principi, la Serie A ha visto in tempi recenti un proliferare di difese a 3, ex terzini che diventavano quinti, mezze punte o trequartisti esterni resi i vertici alti del rombo di centrocampo… Ivan Juric, Raffaele Palladino, Igor Tudor o Salvatore Bocchetti sono solo alcuni dei nomi che hanno dichiarato per via diretta di aver subito l’influenza del gasperinismo, alcuni a tal punto da averlo reso un dogma, come nel caso del primo dei citati, aspetto che gli è valso di per sè la panchina dell’Atalanta, in una continuità esplicita con il lavoro del maestro dopo il suo passaggio alla Roma.
Dalle prime battute della stagione 25/26, nel campionato italiano si assiste ad un sovrannumero di squadre con l’assetto a 3 centrali (ben 14 su 20), tra cui moltissime big e un gap di utilizzo abbastanza vistoso con i campionati esteri dove a tali sistemi si ricorre spesso come piano emergenziale, salvo rari casi in cui viene adottato come scelta di principio, vista l’assenza quasi programmatica di un centrocampo a tre e di due ali pure che possano saltare l’uomo e condurre alla superiorità numerica. Sarri già nel suo triennio a Napoli rimarcava quanto fosse difficile per le sue squadre affrontare l’Atalanta, sottolineandone la peculiarità nella costruzione di rosa e di gioco; oggi invece certi principi sono all’ordine del giorno, quasi divenuti diktat di una novella ”Italian Way”, in altre parole una maniera innovativa di essere arretrati, appiattiti dalla prescrizione del ”si fa così”, per quanto questo c’entri pochissimo con l’operato di Gasperini, che di ciò rimane semplice spettatore di un movimento che ha scelto di marchiare con il suo nome una nuova mediocrità.
1 Il Gasperinismo e i suoi principi
Pregiatissima accademia di futuri allenatori fu il Pescara di Giovanni Galeone, squadra innovativa e dal carattere sfacciatamente offensivo, principi ai quali si votarono Marco Giampaolo e il primo Massimiliano Allegri: fu l’iniziazione alla dottrina fondata sull’attacco del Gasperini calciatore.
Oltre alle reminiscenze di Galeone, l’idea di calcio di Gasperini affonda le proprie radici ispirazionali nel calcio olandese degli anni ’90, in particolare occorre scomodare il paragone con l’incantevole Ajax di Van Gaal e al suo 1-3-4-3, uno dei rari esempi di sistema a 3 a prevedere due ali pure sugli esterni anzichè i tradizionali quinti a tutta fascia. Dall’idea del calcio totale, Gasperini trae il mantra dell’intensità: ogni recupero equivale ad un possesso in più da giocare, il pressing e la corsa come base del recupero palla, in un ritmo d’attacco scandito dalle triangolazioni laterali dove il singolo viene esaltato dal lavoro di sistema.

Un uso più tradizionale degli esterni ha consentito di innestare giocate codificate che prevedessero le sole corse in verticale degli stessi e il loro ingresso in area per ricevere i cross provenienti dalla fascia opposta; il cross da quinto a quinto, che è divenuto marchio di fabbrica della letale produzione offensiva, elevando carriere di giocatori come Gosens o Hateboer da semplici corridori a bomber di fascia.
E con i centrali di difesa però che la classe operaia ha raggiunto il paradiso: il pressing uomo contro uomo ha permesso a marcatori purissimi di diventare i primi inneschi del gioco offensivo, sfruttando la garra tipica del centrale d’antan per gli inseguimenti a tutto campo degli attaccanti avversari, impossibilitati così a potersi girare trovando soluzioni pulite e spesso perdendo palla in zone pericolose. Toloi, Djimsiti, Caldara, Mancini, Palomino, Okoli, Hien… sono solo alcuni degli esempi di marcatori consacratisi sotto l’egida del Gasp.
In fase offensiva, un calcio diretto è la sua predilezione; più si calcia in porta più aumentano le possibilità di segnare, per questo i rifornimenti al centro devono essere costanti, soprattutto mirati alla punta a cui viene richiesto un lavoro monumentale di smarcamento, sponda, rifinitura e conclusione, senza scordare il solito pressing quando la palla ce l’hanno gli avversari. Responsabilizzati da tali oneri, i centravanti di Gasperini hanno molto rispettato tali pretese, potendo poi beneficiare di una mole di opportunità superiore a quasi tutti i loro colleghi nelle squadre rivali; a iscriversi alla fiera del gol sono stati negli anni i vari Borriello, Milito, Muriel, Zapata, Scamacca, Retegui… raggiungendo molti dei quali le loro migliori stagioni in termini realizzativi. Non sempre è possibile raggiungere con pochi passaggi l’area piccola; è per questo che in fase di possesso Gasperini predilige una costruzione dell’azione basata sui sovraccarichi laterali, un centrocampo ”svuotato” di un regista puro prevede in fatti che il fulcro dell’azione siano i triangoli laterali che permettono una volta arrivati in zone pericolose un’occupazione rapida e aggressiva delle posizioni in area e degli spazi limitrofi.

Qui la chiave di volta è rappresentata dai due trequartisti, i due ricettori posti nei canali centrali e deputati alla risoluzione delle trame più difficili tramite controlli nello stretto, inserimenti, assist, dribbling e tiri da fuori. Quattro archetipi di giocatori fioriscono in questo contesto di ruolo, la seconda punta inventiva (Muriel, Ilicic, Lookman…) il regista avanzato (Koopmeiners, Malinovsky…) la seconda punta associativa (De Ketelaere, Gomez…) e l’incursore (Cristante, Pasalic…).
Per ovviare alla mancanza di un regista la scelta di Gasperini ricade spesso su un giocatore di manovra abbinato al giocatore di spunto nei due vertici alti, lasciando libertà di associazione ai due pivot in mezzo al campo, anch’essi spesso selezionati per essere uno un box-to-box (Ederson, Konè…) o un tempista (Freuler, De Roon…).
Com’è naturale un modello di gioco simile (come qualunque altro) non è privo di controindicazioni: la scelta di un calcio aggressivo giocato perennemente su duelli individuali mina il principio dell’occupazione predeterminata degli spazi in fase di non possesso; non esiste zona, si attacca sempre l’uomo, spesso accompagnandolo verso zone periferiche del campo, giocando quindi sull’assioma ”alto rischio, alta ricompensa”, una partita a dadi costante giocata in ogni angolo del terreno:
Recupero il pallone? trovo l’avversario fuori posizione e sono facilitato ad attaccare la porta. Perdo il duello? devo scappare all’indientro con più campo da coprire e con una difesa scomposta.
Per quanto nei periodi di stagione migliore, coadiuvato da un’impeccabile condizione fisica, questo sistema dia l’impressione di risultare ”ingiocabile”, la sua più grande debolezza è rappresentata proprio da questo aspetto precipuo. Un gioco dispendioso come questo richiede massimo rigore fisico da parte di ciascuno degli elementi in rosa per poter essere tradotto in vantaggio nello scontro fisico con l’avversario, altrimenti l’uomo-contro-uomo non diventa altro che un’accozzaglia di rincorse faticose e inefficienti, che creano più caos che altro. Non è casuale infatti che, almeno negli ultimi, il peggior tallone d’achille per l’Atalanta di Gasperini sia stata l’Inter di Inzaghi, la squadra con il miglior palleggio e le migliori alchimie di gioco in mostra sui campi italiani, una superiorità tradotta in uno schiacciante 8-0 nei confronti diretti tra campionato e coppe e un passivo di 21-5 per le reti. L’antidoto migliore contro la forza devastatrice dell’Atalanta è sembrato essere un calcio votato al possesso cadenzato, abbinato ad una struttura relazionale che combina i movimenti del pallone con i movimenti coordinati dei giocatori, togliendo così punti di riferimento e disassando costantemente la marcatura degli avversari.
(Qui sotto un esempio di attacco da manuale.)

Mettendo sulla bilancia gli enormi pregi del gasperinismo, non si può tuttavia tralasciare come questo sistema sia fiorito ed evoluto all’interno di un ecosistema di rara stabilità ed innovativita dirigenziale come quello atalantino. Un ambiente che ha permesso al tecnico piemontese di stabilizzare le proprie ricerche sulla stessa panchina per nove anni consecutivi, affrontando un ricambio costante di materiale umano, spesso foriero di miglioramenti, potendo inoltre contare su un modello di scouting illuminato e sul miglior vivaio del Paese. Il bilancio della carriera di Gasperini in nerazzurro resta dunque ampiamente positivo, ma è inevitabile riconoscere come alcuni aspetti peculiari del contesto abbiano giocato un ruolo cruciale nel dare forma a questa rivoluzione. È per questo che l’omologazione pedissequa a tali dettami non rappresenta altro che il loro deterioramento.
2 L’ortodossia gasperiniana
Secondo una legge non scritta delle arti marziali, il compito principale del maestro è trovare un allievo degno di succedergli alla guida del dojo: fallire in questo significa decretare la fine del lignaggio e la chiusura della scuola, per evitare che essa degeneri. In poche parole, il successo di un insegnamento si misura nella sua capacità di essere tramandato, di vivere attraverso un successore che sappia incarnarlo se non in forma migliore, almeno con pari efficacia. Eppure, dopo trent’anni di panchina, il prodotto migliore della scuola gasperiniana resta il suo fondatore stesso. La tesi secondo cui Gasperini avrebbe cambiato il calcio è vera solo nella misura in cui alcuni suoi principi sono stati assunti come casi di studio, approcci innovativi da osservare, comprendere e adattare per far evolvere i propri.
È evidente che i cultori della zona pura siano stati in gran parte sostituiti, ma, dal canto suo, la rigidità dello schema uomo-contro-uomo non è quasi mai stata adottata in toto. In Italia lo dimostrano i successi di approcci ibridi come quelli di Thiago Motta e Vincenzo Italiano. Pep Guardiola aveva definito il giocare contro l’Atalanta una ”visita dal dentista”, una metafora per definire un test probante per le proprie strategie in campo, sempre bisognose di riaggiornarsi e ridefinirsi.Per quanto Guardiola da solo non sia rappresenti una prova, non sembra che nelle varie Big europee vi sia stato un esponenziale incremento di utilizzo di difese a tre, doppi trequartisti e quant’altro.
”Lo spazio è tra gli uomini, non più tra le linee” è la categorizzazione del calcio moderno data da Luciano Spalletti, un riconoscimento implicito a Gasperini per avere negli anni assottigliato il margine d’errore degli allenatori che volevano dominare il possesso e aver in un certo senso costretto gli stessi a trovare nuovi lumi negli spazi sempre più ristretti, più centralità all’inventiva dei singoli, dribbling forzati e posizioni più fluide in campo, ma senza rinunciare ad una coralità di gioco, segno di un calcio che ai massimi livelli aveva già in serbo le contromisure. Nell’Italia più conservatrice invece, il boom del gasperinismo esasperato non è altro che l’ennesima riconversione del catenaccio tout court; una semplificazione radicale della complessità dei fenomeni di campo basata su una mentalità prima volta al distruggere che al costruire. Come da strampalata teoria pseudo-evoluzionista di Gianni Brera che vedeva il calcio italiano costretto per ragioni costitutive ad un gioco di rimessa, così a molti degli allenatori nostrani non sarà parso vero di poter mascherare il loro difensivismo con affermazioni quali ”gli andiamo a prendere alti”, ”dobbiamo essere aggressivi” e via discorrendo.
Il pressing alto da idea di Gasperini è il propellente necessario al gioco d’attacco, una situazione che permette alla squadra di dover fare meno strada con il palleggio e per avere così sempre maggiori chance di tirare in porta, un tourbillon offensivo senza soluzione di continuità, mentre per la nouvelle vague di allenatori italiani il pressing a uomo è stata la carta da giocare per mettere i bastoni tra le ruote al possesso avversario e una volta recuperato il pallone appaltare le giocate risolutive alle due mezze punte, dalle quali ci si aspetta costantemente di tirar fuori conigli dal cilindro, gestendo palloni sporchi e rapidi, riarmonizzando così la cacofonia di un gioco asfittico e paralizzante per il ritmo del match. Da ciò si trae una nozione distorta di gioco ”propositivo”, volta semplicemente al sovraccarico di qualità in zona centrale per ammaestrare un disordine generale: non basta avere due numeri 10 in campo per giocare in maniera propositiva, questo è quanto si può notare anche ad occhio nudo osservando una partita italiana recente anche nelle serie minori.
Sono così ascesi agli onori delle cronache Juric, che tanto bene ha allenato Verona e Torino come malissimo ha fatto con Roma e Southampton, e, per quanto al croato non possano essere attribuiti i demeriti gestionali di quest’ultime due, così non gli si può certo imputare un valore aggiunto di qualche tipo; Palladino che dopo un’ottimo anno e mezzo a Monza ha abdicato a qualsiasi tipo di giocata codificata, come visto nell’ultimo anno alla Fiorentina dove l’unico schema riconoscibile pareva essere il pallone diretto dal portiere al centravanti, in una stagione dove i risultati più convincenti sono stati ottenuti in un clima emergenziale e propiziati da un passaggio momentaneo alla difesa a 4; o per ultimo Tudor che da circa sei mesi si barcamena sulla panchina della Juventus alla ricerca di una coerenza di gioco che non veda o lo squilibrio o l’eccessiva remissività come temi tattici di ogni partita.
Lo stesso Pioli con il suo ritorno a Firenze ha optato per la 1-3-4-2-1 in continuità con la gestione precedente, avallando una campagna estiva che ha visto l’epurazione di ogni esterno d’attacco dalla rosa e con un avvio di stagione che più disastroso non poteva risultare, ma così Gilardino, Baroni e prima ancora Nesta, Bocchetti, D’Aversa… un elenco in continuo aggiornamento di tecnici alla ricerca di una quadra per un modulo il cui unico depositario sembra essere tutt’ora il solito Gasp. Emigrato a Roma per una degna consacrazione di carriera dopo quasi un decennio a Bergamo, Mister Gasperini cerca così la rivalsa verso un calcio che vede sempre più la sua impronta, un figlicidio verso tutta la sua prole indebita.
E però negli occhi di noi spettatori che si consuma il vero dramma data la standardizzazione a ribasso dello spettacolo offerto dai campionati nostrani, figlia dell’omologazione dei principi tattici e gestionali di quasi tutte le compagini. E nell’intreccio di stili che si crea imprevedibilità, fascinazione, attesa per il confronto, studio e crescita di competitivit` a. Per rendere possibile ciò vi è bisogno che dirigenti, allenatori e proprietà impugnino ciascuno la propria responsabilità individuale nella costruzione di un’identità riconoscibile, una filosofia a cui far riferimento, un codice che veda come approdo la distinguibilità dagli altri competitor.
La si finisca con questa corsa frenetica alla conformazione ad un dato ”stato dell’arte”, il quale non esiste ed è nocivo per la varietà del gioco; piuttosto si conceda più tempo di lavoro agli allenatori e ai loro staff, dando mandato di costruire valori riscontrabili nel lungo periodo, fornendo appigli concettuali anche al tifo, in una comunità d’intenti che veda tutti partecipi. Si ragioni in ottica di ”franchige”, come nel Basket NBA dove i cicli vincenti dei vari Popovich, Spoelstra, Kerr, Jackson, Daigneault ecc… per divenire tali hanno avuto decenni a disposizione. Ben venga quindi la zona pura di Sarri, l’intensità di Conte, il dominio palla di Fabregas, il pressing di Italiano e sì, ben vengano anche progetti come l’Atalanta di Juric, che dopo una anno nefasto può tornare su di un sentiero ben avviato da Gasperini stesso e dai tratti a lui noti.
La crescita deve partire da un vasto e stratificato bacino di competenze, che sommate forniscono maggiore adattabilità ai contesti, tema caro ai tifosi della Nazionale dove l’assenza quasi totale di ali con propensione al dribbling è il parente più stretto della mancanza di richiesta di virtuosismi nei sistemi con la difesa a 3 o a 5, che dir si voglia, così come l’incapacità di difendere tali dribblomani quando li si affronta nei palcoscenici europei e mondiali; una carenza che a cascata impatta tutti i rami del sistema, dai vivai al calcio dilettantistico. Sarà solo il fruttuoso interscambio di idee a produrre crescita qualitativa e d’impatto vero e misurabile nel tempo.
L’unico dibattito possibile sorge soltanto da vedute differenti…
GIANMARCO COMAI








