Al di là della sconfitta — dura, pesante, difficile da digerire — ciò che mi preoccupa davvero non è solo il risultato. È la confusione. Quella che si respirava in campo, nelle scelte, negli atteggiamenti, nei volti. Ma più di tutto, ciò che mi lascia perplesso sono le parole di Conte nel post partita:“ Quest’anno la situazione è complessa, troppi elementi nuovi e non tutti pensano con il noi.”
Ecco il vero nodo.
Non è (solo) una questione tattica o tecnica, ma di identità collettiva. Quando una squadra non pensa, non sente e non vive come un corpo unico, ogni passaggio, ogni movimento, ogni scelta perde significato. Una squadra non nasce dal modulo, nasce da un linguaggio comune, da un sentire condiviso. Da un ‘noi’ che dà senso a tutto. Senza questo, il campo si svuota di significato. Restano undici individualità, scollegate, spaesate, senza direzione. Il calcio di Conte si fonda su appartenenza, spirito, sacrificio collettivo: se vengono a mancare queste caratteristiche, vengono esaltate tutte le criticità.
A mente fredda — e non tanto — la sconfitta fa male. Ma fa ancora più male pensare che, al momento, il ‘noi’ non c’è ancora.

LA COMPLESSITÀ COME GIUSTIFICAZIONE: LO SPETTRO DI CONTE
Come se la complessità fosse un fantasma: appare e scompare all’improvviso. Ma non è così: la complessità si abita. Si attraversa, si riconosce, si interpreta. Nel calcio moderno, invece, spesso viene evocata come una giustificazione, un alibi elegante dietro cui nascondere la fatica di comprendere davvero cosa accade nel gioco. Antonio Conte, con la sua retorica della difficoltà e della complessità del calcio contemporaneo, rappresenta bene questa tendenza.
Ogni volta che una squadra non trova equilibrio, intensità o identità, la parola magica – complessità – compare puntuale, come uno spettro buono a spiegare tutto e niente. Ma la complessità non è un mostro da temere, è la natura stessa del gioco: un intreccio di relazioni, di tempi, di percezioni e decisioni distribuite tra giocatori, avversari, pallone e contesto.
Il problema non è la complessità, ma il modo in cui la si usa. Quando diventa un termine vago, un rifugio dialettico per evitare di dire che la squadra non sa più giocare insieme, allora diventa fumo. Quando invece viene abitata, accettata e interpretata, la complessità diventa risorsa, linguaggio, modo di pensare e costruire calcio. Guardiola la studia, De Zerbi la coltiva, Spalletti la attraversa.
Conte, invece, spesso la subisce, come se la realtà del gioco fosse una tempesta da arginare più che un mare da navigare. Nel calcio contemporaneo, non si può più ridurre tutto alla tattica, alla corsa o alla ‘cattiveria agonistica’. Serve una cultura della comprensione, della co-evoluzione, della sensibilità relazionale. Perché la complessità non è un ostacolo: è il campo stesso su cui si gioca. E chi la chiama in causa solo quando le cose non funzionano, finisce per apparire più vittima che interprete del gioco.
Lo spettro della complessità, dunque, non va esorcizzato ma incarnato. Il calcio, come la vita, non è semplice perché non è lineare. È un sistema aperto, dinamico, fatto di adattamenti e intuizioni, di errori che rivelano più di mille schemi. Chi accetta di abitarla, la complessità, non la usa come giustificazione: la trasforma in identità.
La dipendenza comunicativa e la necessità di autonomia nel gioco
Un ulteriore elemento di riflessione riguarda il tipo di comunicazione che Antonio Conte mantiene durante le partite. Chiama le giocate, orienta continuamente i giocatori, suggerisce soluzioni e direzioni. Un atteggiamento che, pur motivato da una volontà di controllo e precisione, finisce col generare una sorta di dipendenza cognitiva e decisionale nei calciatori. Il campo diventa così un luogo in cui l’intenzione e la responsabilità vengono eterodirette, più che incarnate dai protagonisti del gioco.Curiosamente, nella partita di ieri, tutto ciò non si è verificato.
Conte è apparso meno presente nella guida verbale e gestuale, e la squadra ha mostrato segni evidenti di smarrimento. È lecito allora chiedersi se la confusione in campo non derivi proprio da questa ‘dipendenza’ strutturata nel tempo: una squadra abituata a essere diretta minuto per minuto perde il senso dell’autonomia e della responsabilità condivisa.
Il dirigismo comunicativo, tipico di un approccio fortemente gerarchico e controllante, mal si addice a un calcio che chiede invece giocatori consapevoli, capaci di leggere e interpretare le situazioni in tempo reale. Il gioco è un sistema dinamico, aperto e imprevedibile, che richiede decisioni emergenti, non imposte. L’allenatore non dovrebbe essere un regista che muove i fili, ma un facilitatore che prepara contesti di apprendimento in cui il giocatore sviluppa la propria autonomia percettiva, cognitiva e relazionale.
Allenare all’autonomia significa costruire giocatori capaci di riconoscere le configurazioni del gioco, di leggere gli spazi e gli avversari, di anticipare e agire in base a intenzioni situate. In questo senso, la comunicazione dell’allenatore deve progressivamente spostarsi dal comando alla domanda, dall’istruzione alla condivisione, dalla direttività al dialogo. Solo così il gruppo può trasformarsi da esecutore a sistema intelligente capace di auto- organizzarsi in campo. La dipendenza comunicativa, per quanto possa sembrare funzionale nel breve periodo, priva i giocatori della loro capacità di adattarsi, di improvvisare e di assumersi la responsabilità delle proprie scelte.
La libertà tattica e la consapevolezza strategica si allenano, non si impongono. Un calcio veramente evoluto è quello che riesce a creare giocatori che pensano, sentono e decidono dentro la realtà autentica del gioco.










