IL CALCIO COME DISCIPLINA RELAZIONALE

Agire insieme: uno studio congiunto svela le dinamiche neurali dell’azione condivisa..

Una nuova ricerca coordinata dall’Università Statale e dalla Scuola IMT Alti Studi Lucca rivela per la prima volta i processi neurali distintivi dell’azione condivisa. Un recente studio guidato dal filosofo della mente Corrado Sinigaglia, in collaborazione con ricercatori dell’Università Statale e della Scuola IMT Alti Studi Lucca, ha portato alla luce i meccanismi neurali che sottendono l’azione condivisa. Per la prima volta, la ricerca ha identificato dinamiche specifiche del cervello che emergono quando due o più individui agiscono insieme, distinguendole da quelle che caratterizzano l’azione individuale. Questo risultato ha una portata significativa: conferma sperimentalmente ciò che il filosofo Aldo Masullo aveva teorizzato sul piano fenomenologico, ovvero il ruolo centrale della intersoggettività e della paticità. Masullo aveva sottolineato come l’esperienza umana non sia mai un fatto isolato, ma sempre immerso in un orizzonte condiviso, in cui emozioni, intenzioni e percezioni si intrecciano tra più soggetti.

Lo studio ha dimostrato che, durante l’azione condivisa, il cervello non si limita a sommare le intenzioni dei singoli partecipanti: piuttosto, costruisce uno spazio neurale comune che permette di coordinare i movimenti e le decisioni in tempo reale. Tale scoperta illumina anche le basi scientifiche della cooperazione, della comunicazione e del vivere sociale, indicando che la nostra natura più profonda è orientata verso l’altro.La ricerca, oltre a rappresentare un ponte tra neuroscienze e filosofia, apre nuove prospettive nello studio dell’apprendimento, della pedagogia e quindi anchedell’allenamento sportivo, dove l’azione condivisa e la sintonia tra i giocatori rappresentano un elemento fondamentale per la riuscita collettiva.

In definitiva, ciò che emerge è che l’essere umano non è un individuo isolato che agisce nel vuoto, ma un soggetto che trova senso e significato nelle azioni condivise. La scienza ha ora dimostrato che la dimensione intersoggettiva non è solo un concetto filosofico, ma una realtà inscritta nei circuiti neurali del nostro cervello.

Il calcio come disciplina relazionale: riflessioni a partire dallo studio di Corrado Sinigaglia

Lo studio di Sinigaglia avvalora ulteriormente l’impianto culturale e metodologico dell’approccio fenomenologico-enattivo, mostrando come esso sia particolarmente pertinente rispetto alla complessità del calcio. Il calcio, in quanto gioco di invasione, si fonda su condotte intenzionali che emergono da dinamiche cooperative e oppositive, frutto delle interazioni non lineari tra i rapporti di forza.

Questo approccio mette in luce la natura profondamente relazionale dell’essere umano, dimostrata scientificamente dal contributo di Sinigaglia: l’uomo non è un individuo isolato, ma un soggetto relazionale, immerso in una rete di interazioni che danno forma ai suoi agiti. Tale evidenza rafforza la centralità del calcio come disciplina sportiva capace di accogliere, valorizzare e sedimentare questa inclinazione naturale.

Nel calcio, infatti, ogni gesto tecnico, ogni scelta tattica, ogni movimento corporeo acquisisce senso solo in relazione agli altri: compagni, avversari, spazi, tempi di gioco. È all’interno di questa trama relazionale che emergono significati e possibilità d’azione. Il gioco non appartiene mai al singolo, ma emerge dall’ accoppiamento strutturale tra soggetti e contesto. Se questo è vero, ha ancora senso pensare ad allenamenti individuali, isolati dal tessuto relazionale che costituisce l’essenza stessa del gioco?

La prospettiva fenomenologico-enattiva suggerisce di no. Ogni pratica, ogni forma di apprendimento, deve radicarsi nell’autenticità del gioco, dove la complessità delle relazioni non può essere sostituita da esercizi individualidecontestualizzati.

Il calcio, come disciplina, non solo riflette ma coltiva l’inclinazione relazionale dell’uomo.Allenarsi significa dunque immergersi nella realtà autentica del gioco, vivere le transizioni, I conflitti, le cooperazioni, per sviluppare competenze che non siano riducibili a mere capacità individuali, ma siano espressione della complessità relazionale del gioco e della vita.

Implicazioni metodologiche: l’illusione dell’individuale e la verità relazionale del gioco

Il gioco non appartiene mai al singolo. È un fenomeno emergente, una realtà che nasce e si rinnova continuamente nell’accoppiamento strutturale tra soggetti e contesto. Questa affermazione, se letta nella prospettiva fenomenologico-enattiva, cambia radicalmente il modo in cui concepiamo l’allenamento, l’apprendimento e la stessa idea di crescita calcistica.

La domanda diventa allora inevitabile: ha ancora senso pensare ad allenamenti individuali, isolati dal tessuto relazionale che costituisce l’essenza stessa del gioco?

Il mito dell’individuale

Nella tradizione tecnico-didattica del calcio, l’allenamento individuale è spesso stato considerato il luogo privilegiato per lo sviluppo delle capacità motorie e tecniche. L’obiettivo apparente: perfezionare il gesto, migliorare la coordinazione, affinare il controllo.

Ma in questa logica, il gesto si separa dal senso, l’azione si svuota di intenzionalità, e il giocatore diventa un esecutore di schemi predefiniti. Il problema non è l’individuo in sé, ma la sua estrazione dal sistema relazionale. Quando il giocatore viene isolato dal contesto, lo si priva del terreno stesso da cui emergono la significatività dell’azione, la percezione situata, la decisione spontanea e la coordinazione intersoggettiva. Allenare in isolamento significa allenare un frammento, non un essere situato nel mondo del gioco.

La prospettiva fenomenologico-enattiva

L’approccio fenomenologico-enattivo capovolge la prospettiva: non è il singolo a generare il gioco, ma il gioco che emerge dalla rete di relazioni tra soggetti, spazi, tempi e intenzioni. Ogni azione è il risultato di un accoppiamento dinamico e co-evolutivo tra giocatore e ambiente.

In questa visione, allenare significa coltivare relazioni significative all’interno di contesti autentici, dove il sapere motorio e tecnico si forma nel contatto diretto con le situazioni, le incertezze e le coerenze del gioco reale.Non si tratta di negare l’importanza della cura individuale, ma di ricondurla dentro un processo sistemico, dove ogni intervento sul singolo non è mai disgiunto dalla complessità del tutto.

Personalizzare senza isolare

Personalizzare non significa isolare. Significa riconoscere l’unicità del soggetto dentro la rete delle relazioni che lo costituiscono. Ogni ragazzo porta con sé una propria storia motoria, emotiva, percettiva; ma questa storia prende forma e senso solo nella relazione con gli altri e con il contesto di gioco. La cura individuale, in questa prospettiva, non è un tempo “a parte” ma una modulazione intenzionale dentro la realtà del gioco: adattare, enfatizzare, creare esperienze significative che rispondano ai bisogni del singolo senza spezzare il filo che lo lega al sistema.

L’allenatore fenomenologico-enattivo, dunque, non “estrae” il giocatore per lavorare su di lui, ma opera dentro il sistema, guidando processi emergenti, favorendo l’autorganizzazione e la consapevolezza situata.

Allenare con e nella realtà autentica del gioco

Significa riconoscere che:

– Il sapere tecnico nasce dall’agire situato, non dalla ripetizione astratta;

– La motricità si struttura nella relazione, non nella solitudine;

– L’apprendimento è un processo enattivo, non trasmissivo.

Ogniattività , ogni proposta, ogni momento dell’allenamento deve essere pensato come parte di un ecosistema in cui le interazioni, le retroazioni e le co-evoluzioni generano conoscenza e competenza. L’obiettivo non è “correggere” l’individuo, ma favorire il suo emergere come soggetto intenzionale all’interno di una dinamica collettiva.

La verità del gioco è relazionale.

Isolare il giocatore significa perdere l’essenza stessa del suo essere giocatore. Allenare nella prospettiva fenomenologico-enattiva è dunque un atto di restituzione: riportare l’individuo nel suo mondo, riconnetterlo alla complessità da cui trae senso, e permettergli di crescere non per aggiunta di competenze, ma per trasformazione di relazioni.

Il gioco non si insegna: si vive, si co-costruisce, si abita.

E solo dentro questa autenticità l’apprendimento diventa davvero significativo.Abitare la complessità del gioco a partire dalla prima formazione Più utilizziamo un’azione, un pensiero, un comportamento, più quella rete diventa incarnata. È un po’ come tracciare un sentiero nella neve: la prima volta è faticoso, ma a forza di passaggi diventa una strada.

E siccome la plasticità cerebrale è massima nei primi anni di vita, quando il cervello è in fase di costruzione e le connessioni si formano a una velocità impressionante, diviene necessario un approccio pertinente soprattutto nella prima formazione del processo dell’allenamento calcistico. I bambini devono essere messi nella condizione di abitare la complessità del gioco nella sua autentica realtà e non in quella artefatta. Solo in questo modo diventeranno giocatori immersi nel gioco.

Nell’allenamento calcistico tradizionale si tende a proporre la ripetizione meccanica di gesti tecnici isolati, con l’idea che la plasticità cerebrale li renderà automatici. Tuttavia, nell’ottica fenomenologico-enattiva, ciò rischia di produrre apprendimenti sterili: il bambino impara il gesto, ma non il senso del gesto dentro al gioco.

L’enattivismo ci dice che la conoscenza non è mai depositata nel cervello in modo separato, ma emerge dall’accoppiamento dinamico tra corpo, ambiente e intenzionalità. Per questo, se un bambino interagisce con un passaggio o un dribbling dentro la realtà autentica del gioco, quelle reti neurali non saranno solo forti e veloci: saranno anche significative, perché radicate nell’esperienza situata e nel contesto complesso della partita.

La plasticità cerebrale nei primi anni di vita rende I bambini straordinariamente ricettivi. Ma proprio per questo sarebbe un errore esporli a una versione semplificata e artificiale del gioco, fatta di esercizi slegati dalla realtà calcistica. Significherebbe scolpire nel cervello reti “povere di mondo”, che non preparano ad abitare la complessità autentica del calcio.

In prospettiva fenomenologico-enattiva, invece, il bambino deve essere immesso subito nella complessità del gioco reale, con I suoi vincoli, le sue aperture, le sue incertezze. È lì che plasticità e intenzionalità si intrecciano: la rete neurale si forma non come automatismo, ma come struttura di senso incarnato, capace di generare comportamenti intelligenti, creativi e adattivi.

La conclusione è che la ripetizione ha valore solo se è ripetizione immersa, ossia esperienza reiterata nella realtà viva del gioco. Non basta rinforzare connessioni: occorre che quelle connessioni siano mondanizzate, che respirino la logica del calcio, la presenza degli avversari, il ritmo della palla, l’intenzionalità del compagno. In questo modo, la plasticità cerebrale dei bambini non sarà al servizio di una tecnica astratta, ma di una intelligenza situata: un modo di essere giocatori che nasce e si rinnova dentro al gioco stesso.

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