CONTINUIAMO A GIOCARE

A che gioco giochiamo?

Questa domanda dal significato potenzialmente molteplice permise allo psicologo canadese Eric Berne, fondatore dell’analisi transazionale, di sfruttare le caratteristiche del gioco per comprendere il ruolo di una persona nel suo ambiente.

Secondo lui il gioco è, nello specifico, una serie di transazioni ulteriori che conducono ad un tornaconto ben definito.

È fondamentale specificare come ci si stia riferendo, in questo caso specifico, al concetto di “gioco psicologico.

Un’interazione tra persone che utilizzano fra loro messaggi poco chiari e che, dopo una serie di scambi ben definiti e prevedibili, finiscono per provare confusione ed emozioni negative.

I “giochi psicologici” sono utilizzati in modo automatico e senza che le persone si rendano conto della futilità della cosa, altrimenti cercherebbero di soddisfare il proprio bisogno di intimità in modi più costruttivi.

Noi utilizzeremo un’interpretazione molto più letterale della teoria creata da Berne, cercando di recuperare il potere entusiasmante del mondo ludico nell’infanzia.

Ci spingeremo a declinarla così:” dimmi come giochi e ti dirò chi sei”.

C’è stata una generazione che ha cominciato a traslare il gioco del calcio dalla strada alla casa, spinta anche da un desiderio di sperimentare una versione più individualistica di quel bellissimo gioco.

Evitare di dover interrompere il gioco ad ogni macchina che passa, avere bisogno di un po’ di compagni e lottare con gli agenti atmosferici ha sicuramente nutrito il primo bisogno di comodità in quei bambini nati tra le moquettes degli anni 70-80, privilegio quasi blasfemo per le generazioni precedenti.

I campetti dell’oratorio e le piazze lasciarono spazio a corridoi e salotti, il cemento incandescente della strada si è raffreddato nel gelo delle mattonelle di casa.

Per attuare questa metamorfosi è stato necessario accettare anche compromessi irriverenti, chiedendo a quel sacro strumento del gioco, il pallone, di cambiare la sua natura per rendersi più innocuo agli occhi sospettosi dei nostri genitori.

E fu così che comparve, nella vita di moltissimi bambini, il pallone di spugna, un compagno di viaggi più rassicurante del cuoio spacca tutto, un oggetto capace di cambiare la propria forma.

Nasceva con una morbidezza sferica che si trasformava rapidamente in uno strano frutto dalla buccia granulosa, prima di frantumarsi inesorabilmente e diventare un asteroide dai rimbalzi assolutamente imprevedibili.

In quella dimensione casalinga si assaggiava forzatamente una versione individualistica del calcio, tutto faceva capo a noi, passaggi, gol, dribbling, tutto ci vedeva come incontrastati protagonisti.

Fare un uno-due con la parete del corridoio, ricevere un assist involontario dalla schiena di nostra madre per scoccare un tiro, dopo aver dribblato le pantofole di papà, era l’azione perfetta, degna di un’esultanza da finale mondiale.

Come le abilità acquisite evitando tombini e buche nell’asfalto, anche i gesti appresi col pallone di spugna rimanevano un bagaglio istintuale dei bambini, un’eredità esclusivamente giocosa, una memoria motoria col sorriso.

Osservando l’azione che ha visto Messi scavalcare un avversario rimasto a terra, con quello che “in lombardo” viene chiamato scavetto (rigorosamente con la e apertissima!), la memoria torna a quei giorni di sfide domestiche solitarie.

Lionel, in un istante, ha ripescato dal baule della stanza dei giochi un gesto che, magari, gli serviva per superare lo spessore di un tappeto o per evitare qualche ostacolo di troppo in casa.

Nella partita di esordio della nuova stagione del campionato di MLS, giocata tra Inter Miami e Real Salt Lake IL 22 febbraio, Messi si è ritrovato il pallone, dopo l’uscita del portiere, mentre un avversario era rimasto a terra in seguito ad uno scontro.

Il campione argentino, dopo aver sterzato a sinistra per favorire il suo piede forte, si è accorto del recupero di un avversario e decide di tagliargli la strada trovando, però, anche la sua intralciata.

A questo punto, in una frazione di secondo, recupera tutti quei pomeriggi di gioco solitario, d’immaginazione, d’intuito, creando con il suo piede sinistro un piccolo ponte sopra quell’ostacolo che lo separava dal suo obbiettivo.

Il fatto che sia stato proprio Messi a compiere quella giocata ci lascia in un alone d’ineluttabilità, per quel suo talento che sembra nutrirsi esclusivamente dell’innato, un bagaglio così antico su cui si sono aggiunte tutte le sovra strutture necessarie per poter eccellere.

Lionel è diventato grande nonostante il suo corpo, ha costruito una leadership nonostante il suo carattere.

Per avvalorare questa ipotesi proviamo a spostarci da una prospettiva estetica ad una etica, morale.

Se fosse stato Cristiano Ronaldo a fare quello che ha fatto Messi cosa sarebbe successo?

Forse la prima reazione sarebbe stata quella di criticarlo fino all’inverosimile, accusandolo di scarsa sportività.

Magari avremmo provato a divincolarci, usando un po’ di sarcasmo per dire che anche lui avrebbe continuato a giocare ma che, non potendo contare su un talento così naturale come quello di Messi, avrebbe sparato una delle sue cannonate addosso al povero giocatore rimasto a terra.

E perché?

Perché la disparità con cui madre natura ha distribuito la prestanza fisica e l’estroversione tra i due sembra condannare sempre Cristiano a fare l’Ivan Drago della situazione?

Il fatto che molti di noi sembrino parteggiare più per Messi non penso dipenda solamente dalla naturale tendenza a schierarci per coloro che partono più svantaggiati (almeno per quello che riguarda la struttura fisica, visto che anche Cristiano arriva da un contesto sicuramente non agiato).

Probabilmente Messi rappresenta meglio di chiunque altro questo legame potentissimo che ci riporta sempre ad un mondo così piacevole da rimanere indelebile, la gioia del gioco nell’infanzia sembra avere un’eco infinita dentro di noi.

Forse è più facile incastrare il piccolo Lionel in quei ricordi di furia pallonara domestica, piuttosto che lo statuario Cristiano, a cui madre natura ha donato un corpo pronto per qualsiasi contesto.

La storia, in realtà, ci racconta di un passato più simile che dissimile dei due campioni, una formazione “di strada” che ha dato inizio ad entrambe le loro carriere, ma questo non sembra riuscire a parificarli agli occhi della gente.

Il calcio spesso sembra essere stato creato per alimentare polemiche ed incomprensioni, anche tra tifosi della stessa squadra.

Una cosa su cui, però, spesso gli appassionati di calcio si trovano d’accordo è situata in quell’ideale triangolo consequenziale formato da contrasti, falli e simulazioni.

A tutti piace l’idea che si debba sempre continuare a giocare, evitando così che i calciatori possano accomodarsi su perdite di tempo universalmente indigeste.

Spesso questa foga giocosa ci travolge anche quando guardiamo il gioco attraverso gli occhi dei nostri avversari, perché interrompere quel potentissimo flusso ludico sembra un crimine anche quando non avviene a vantaggio della nostra squadra.

Per questo ci piace che i giocatori continuino a giocare, ad alimentare un piacere che abbiamo sentito anche noi, quello di non voler smettere mai, una pulsione più forte di qualsiasi cosa.

Esiste un test infallibile per distinguere un appassionato di calcio da una persona impermeabile al fascino di questo sport, basta osservare la reazione che ha quando gli capita d’incrociare qualcuno per strada che gioca con un pallone.

Cercare un contatto con quel magnete sferico è praticamente inevitabile, se ci rotola vicino perdiamo qualsiasi pudore o amor proprio per sfoggiare i movimenti più goffi, torniamo bambini con un corpo ormai vintage.

Il nostro è stato prima un patto estetico e poi etico, un legame che anteporrà sempre il piacere al dovere.

Il piacere di poter fare un tunnel a qualcuno che ci viene incontro, la gioia di stoppare un pallone difficilissimo e renderlo una prosecuzione del nostro piede, l’entusiasmo nel superare per la prima volta i 10 palleggi consecutivi…un concentrato di soddisfazione indimenticabile.

Il fatto che ci venga prima di compiacerci per le fattezze del gesto tecnico di Lionel Messi, sorvolando sulla sua eventuale sportività, risiede proprio nella sensazione di aver osservato qualcosa d’istintivo e, perciò, di puro, di autentico, con la sola strategia di avvicinarsi il più possibile alla vittoria.

Chi mai oserebbe frapporsi tra un bambino e il la sua voglia di vincere?

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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