STONER, ČECHOV E JOVIC: IL CALCIO COME NARRATIVA DELL’ATTIMO

Di fronte a risultati altalenanti, ma ancor di più a prestazioni discontinue – buone, molto buone, come quella di ieri sera o del Bernabeu, alcuni mesi fa, svogliate, abuliche – il rischio che si corre è quello, come si suol dire, di voler buttare via il bambino con l’acqua sporca a ogni minimo inciampo. E gli inciampi sono stati frequenti: abyssus abyssum invocat (l’abisso chiama l’abisso), e chi si è visto si è visto. Sarebbe un errore, al netto di una comprensibile forma di “sfinimento del tifoso”: dieci sconfitte in campionato, un nono posto in classifica che non può, da nessuna prospettiva lo si guardi, essere reputato accettabile, per una squadra con il blasone che ha il Milan. Poco ce ne cale, se, per analogia gloriosa alla lontana, il Manchester United, in Premier League, sta messo peggio di noi.

Tuttavia, senza dimenticare ciò che è andato storto, perché anche da quello, forse soprattutto da quello, c’è margine per imparare, non possiamo non applaudire alla performance contro l’Inter. Si tratta di un risultato secco, incontrovertibile, che in pochi avrebbero pronosticato alla vigilia, in un momento in cui alcune testate sportive già prefiguravano il triplete. Applaudiamo alla partita in sé, a come è stata preparata e gestita in campo, ma anche a una possibilità, quella qualificazione all’Europa League che, salvo rivolgimenti, ci sfuggirebbe per altre vie (diamola buona così, per brevità, senza considerare ulteriori calcoli su classifica, piazzamenti e incroci). La Coppa Italia, che qualcuno considera un trofeo minore – solo se non lo vince, naturalmente! – ma che, in un’annata come questa, potrebbe invece diventare la cartina al tornasole di un’identità che pian piano prova a ritrovare dei frammenti di sé. Vincerla – contro l’ostico Bologna di Vincenzo Italiano, a occhio – non cancellerebbe le mancanze e le delusioni, ma le incornicerebbe con una speranza: quella che anche dalle briciole si possa ricostruire un pane gustoso. Una piccola cosa, sì, e proprio per questo, nel punto in cui ci troviamo, fondamentale.

Di nuovo, per questo approfondimento flash, partiamo da cose che non appartengono al calcio. Perché se il calcio è cultura – e lo crediamo da sempre – su qualche ramo, nella genealogia, non può che contaminarsi con ciò che gli è, allo stesso tempo, lontano e contiguo, padre e figlio: la letteratura, il teatro, la filosofia ecc. Una brevissima riflessione che è incentrata su un concetto che, appunto, rileva tantissimo anche per il nostro Milan attuale: l’attenzione alle piccole cose importanti. Non è una contraddizione, per quanto possa sembrarlo. Quando John Williams in “Stoner” ci presenta un protagonista la cui vita appare esteriormente insignificante ma interiormente assai ricca, fatta di minuscole epifanie, l’autore si colloca all’interno di una tradizione – anche narrativa – che ha fatto della poesia delle piccole cose il suo campo d’indagine privilegiato.

Questa tradizione trova un momento cruciale di definizione nel XIX secolo con l’emergere del realismo. Flaubert, con la sua ricerca della “parola giusta” e l’attenzione meticolosa ai dettagli in apparenza banali della vita provinciale, crea in “Madame Bovary” un’opera in cui il dramma umano si rivela attraverso oggetti quotidiani, sguardi fugaci, gesti ordinari (e straordinari, insieme). La sua celebre descrizione del cappello di Charles Bovary rappresenta una specie di rivoluzione: è nell’inezia, non nel dato eclatante, che si nasconde la verità dell’esperienza umana. E come non parlare di Anton Čechov e dei suoi drammi senza il dramma, o meglio dove l’evento drammatico è talmente rarefatto – una drammaturgia dell’attesa e del disincanto – da assomigliare tout court all’assenza. O ancora si pensi ai cosiddetti “momenti di essere” di Virginia Woolf, ovvero a una costruzione esperienziale che si nutre non del tutto, tutto insieme, ma di sparute particelle di consapevolezza. Si potrebbe andare avanti ancora e ancora, citando il teatro dell’occultamento di Tennessee Williams, la trascendenza routinaria di Marilynne Robinson o, in una prospettiva transculturale, il concetto giapponese del “mono no aware”: il pathos per una bellezza che è, per sua stessa natura, fugace, impermanente.

Insomma, tutto questo per dire che sono la cultura e la vita stesse a insegnarci che, anche quando tutto sembra fermo, in realtà qualcosa scorre e quel qualcosa ci deve colpire. Ci si salva – e si riparte – soprattutto se si è in grado di riconoscere la potenza fondatrice delle minuzie: un movimento senza palla, una diagonale eseguita come si deve, un passaggio sul piede del compagno, né troppo forte, né troppo piano, con la giusta intensità, un cross a girare calibrato col goniometro. Ieri ha funzionato: ieri la squadra ha camminato al giusto passo.

Quando il Milan ha giocato contro l’Udinese, abbiamo fatto alcune considerazioni (troppo esultanti per così poco? Può darsi, ma non vedo l’inghippo) riguardo il “nuovo” modulo adottato da Conceição: un 1-3-4-3 che mi è parso e continua a parermi un buon compromesso tra efficacia calcistica e peculiarità della rosa a disposizione. Non tenere conto di quest’ultimo fattore sarebbe peccare di hybris: uno degli elementi da ponderare sono infatti, sempre, i giocatori che si mostreranno auspicabilmente anche più predisposti al sacrificio, se intenderanno di avere rilevanza per il progetto complessivo del mister. Mi viene in mente l’evoluzione, in chiave guardioliana, di Matheus Nunes – nato centrocampista, adattato per necessità come esterno di difesa, opzione da inverted fullback – nel Manchester City un po’ abbacchiato della stagione corrente.

Theo, in primis, sgravato in parte dai compiti di marcatura, grazie al supporto di un “mastino” come Pavlović, aveva potuto beneficiare di un assetto tattico che gli consentiva di allungare sulla fascia. Di conseguenza, ne traeva vantaggio anche Rafa Leão, capace di trovare soluzioni in velocità e attraverso triangolazioni pericolose per gli avversari. Del resto, Gabbia, come centrale puro, sembra trovarsi a suo agio e persino Luka Jovic, che è tecnicamente una seconda punta e non un centravanti, pur indossando la gloriosa 9, ha tentato, con intelligenza e classe, di contribuire a una fase offensiva talvolta sconnessa.

Ah, Luka, che spreco. Cosa dire del calciatore serbo, voluto illo tempore dal Real Madrid per una sessantina di milioni (non sfondò, ma davanti a lui si ergeva l’ombra prorompente di un certo Karim Benzema) e ritenuto da noi la riserva della riserva? Mai davvero considerato come un papabile titolare, neppure inserito nelle liste della Champions League, sempre sul mercato, anche nella finestra dello scorso gennaio, con la prospettiva di cederlo al Monza. È un giocatore altalenante? Può darsi, ma che bella altalena ci ha fatto vedere (non solo ieri): copre, imposta, conclude; mai un errore di posizionamento, si libera e lancia a trenta metri con una calma serafica. Bravissimo lui, che mai ha alimentato polemiche o creato frizioni, meno, molto meno, chi non ne ha saputo mettere in luce il talento.

La mia personale parola chiave è calma, incarnata appunto da Luka Jovic che ha contagiato i compagni, tra i quali l’eccellente Theo e il solito Tijjani Reijnders, autore del terzo gol.

In generale, in questi mesi con un prevalente assetto 1-4-2-3-1, o minime variazioni concettuali, abbiamo riscontrato una mediana a più riprese ballerina: poco equilibrio nella dinamica tra un centrocampista box-to-box e uno “schermatore”, specie quando l’allenatore portoghese ha schierato Yunus Musah. Inoltre, il supporto altalenante di trequartista e ali, in fase di non possesso, ha contribuito sovente a far filtrare troppo facilmente la palla tra le linee, costringendo i mediani a uscire dalla posizione designata per chiudere, con conseguente mancanza di copertura nella zona centrale del campo. La scarsa coesione tra i reparti ha spesso lasciato la squadra, come si dice in gergo tecnico, lunga: situazione ideale, per gli opponenti, per assestare il colpo attraverso le verticalizzazioni veloci. E sono noti – e annosi – pure i problemi di lettura: se i mediani, anche non per loro diretta responsabilità, sono sbilanciati e non riescono ad accorciare in tempo, il duello sulle seconde palle sarà sempre perso.

In questo senso, lo ribadisco, uno schema tattico che aiuti la compattezza e l’equilibrio può rivelarsi un tassello importante per la ri-partenza. Non va accantonato in fretta e furia, se non porta subito gli esiti sperati (in ogni caso, la fretta è pessima consigliera): non servono, certo, i dogmi intoccabili, men che meno il disfattismo a qualsiasi costo.

Va piuttosto adattato, come abbiamo visto contro l’Inter, con una difesa a quattro asimmetrica – a Theo si consentiva una certa libertà di movimento – e la richiesta di restare alti e di non disperdersi.

Eppure… eppure c’è un però, ovvero ciò che si è visto contro la marcatura a uomo dell’Atalanta di Gasperini, con Cuadrado che, per dirne una, ha obbligato Hernández a giocare più arretrato di quanto aveva fatto nella gara precedente: un Milan che di rado ha cercato l’occasione e si è rivelato senza dubbio più solido, ma anche troppo attendista; un ensemble che provava a costruire, ma non aveva ancora introiettato dei modelli. È come se ai giocatori fosse stata, in quell’occasione, consegnata una mappa del tesoro (una mappa reale, con un tesoro che esiste e luccica), ma non la legenda per interpretarla nel modo corretto. Si possono per caso spiegare così i molti, troppi errori di un giocatore affidabile qual è Pulisic, proprio nella partita versus i bergamaschi?

Ciò che in questi mesi ha difettato non sono stati i valori tecnici, in senso assoluto – si dica ciò che si vuole: il Milan non ha una rosa da nono posto nel campionato italiano – ma dei principi: una grammatica condivisa, capace di sostenere e potenziare quei valori; e di fungere da paracadute quando le cose – e può sempre accadere, anche ai club più rodati – non andavano come si sarebbe auspicato.

Dei principi e una splendida attuazione degli stessi, che ci facessero (re)innamorare, come è avvenuto poche ore fa, nella pioggia di San Siro. Perché ieri non ha perso l’Inter, ancora favorita nella lotta scudetto, che la vede testa a testa con il Napoli, e con alcune concrete possibilità, specie durante il primo tempo: ha vinto il Milan.

E allora, sempre e per sempre: forza Milan!

BIO: ILARIA MAINARDI

Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

2 risposte

  1. Sì Ilaria! Concordo! Ha vinto il Milan con il suo lignaggio, il suo carisma, la sua storia! L’articolo scritto con quei cenni letterari rimembranti autentiche colonne della stilografica quali Flaubert e Cecov sono un valore aggiunto in quest’ultima serata magica regalataci dal Diavolo nelle vesti di un autentico Manzoni che ha fatto man bassa di una banda della Scapigliatura Milanese!
    Un caro abbraccio!
    Massimo 48

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