Ho deciso di prendermi del tempo prima di scrivere questo articolo non perché non sapessi cosa scrivere ma perché volevo dare il giusto spazio di sfogo al mio ego tifoso ferito. Un tempo necessario per evitare che ogni riflessione venisse in gran parte inficiata da quello che è stato il risultato.
C’è un principio, il cuore della competizione, che ogni sportivo impara alla svelta: al termine dell’incontro, uno vince e l’altro perde. È così semplice e netto da sembrare quasi crudele. Sono numeri: quanti goal hai segnato, quanti goal hai subito, quanti punti hai in classifica. Eppure noi romantici dello sport, per quanto subiamo il fascino e l’importanza del punteggio, difficilmente riusciamo a restare confinati dentro i parametri numerici di un tabellone che decreta vincenti e vinti.
Il 24 maggio si è giocata la finale di Champions League a Lisbona tra Arsenal e Barcellona che si è conclusa 1 a 0 per le Gunners. Si potrebbe a lungo discutere se è stata una finale vinta dall’Arsenal o persa dal Barcellona, una riflessione che il mero e asettico punteggio finale non contempla.
È certo però che alla fine l’Arsenal riceve la coppa mentre il Barcellona no. Ma davvero è tutto qui?
I giorni successivi, mentre evitavo di aprire Instagram e X per non vedere foto e video della sconfitta, mi sono trovata spesso a pensare a quanto è successo.
Ho cercato di immedesimarmi in alcune delle protagoniste in campo. Non perché sappia cosa significhi giocare una finale così importante, ma perché conosco l’emozione di inseguire un sogno, realizzarlo oppure vederlo sfuggire proprio a un passo dal traguardo.
Su quel campo si sono intrecciate storie molto diverse.
Leah Williamson, la colonna dell’Arsenal e della nazionale inglese, è stata per mesi ferma a causa di un grave infortunio, lo stesso che le ha impedito di giocare la finale del mondiale 2023 contro la Spagna. Un legamento rotto ti toglie molto più del gioco perché ti spezza un’identità. E così passi giorni, mesi a domandarti se tornerai a essere quella di prima e provi lentamente a ricostruirti. La sua è una storia di pazienza e di speranza perché quel 24 maggio, sul campo di Lisbona, ha giocato la sua migliore partita da quando è tornata. Un cerchio che si chiude: nel 2007, quando l’Arsenal vinse la sua prima Champions, Leah era una bambina, una delle mascotte che accompagnavano le giocatrici in campo. Oggi, nel 2025, ha conquistato quel trofeo da protagonista e leader.
Dall’altra parte del campo, l’altra faccia della medaglia, c’è Alexia Putellas, l’emblema del calcio totale, leader del Barcellona, due volte Pallone d’Oro. Una che ha portato il Barça ai vertici d’Europa. Ma oggi non è il suo giorno e deve affrontare la caduta. Tuttavia non si spezza e accetta la sconfitta allo stesso modo in cui ha accolto le vittorie: senza rumore ma con presenza. Si congratula con le avversarie, consola le compagne e lei, fautrice di molte delle gioie azulgrana, si rivolge al suo pubblico come a chiedere scusa di averli delusi. Capitana lo sei anche quando si perde, quando nello spogliatoio c’è silenzio e si sentono in lontananza i cori dell’altra squadra che festeggia. Devi essere capitana quando abbracci le tue compagne che hanno gli occhi lucidi e le esorti a rialzare la testa e ad applaudire le avversarie che ricevono la coppa. Devi cercare le parole e raccogliere i cocci mentre dentro di te un caos di sentimenti ti farebbe stare volentieri a terra, sul prato a ripensare tutto quello che non è stato fatto. Oggi non è bastato, ma avere dignità nella sconfitta significa ricucire le ferite e poi reagire per tornare a rivivere queste grandi partite puntando a un esito differente.
Arsenal – Barcellona è stato un incontro – scontro di vicende personali ma mi ha portato a fare una riflessione anche più ampia. Nei giorni precedenti, io così come tante altre persone, eravamo quasi certe della vittoria delle spagnole che da anni incantano e dominano per tecnica, identità e continuità. Ingenuamente pensavamo fosse un match già scritto eppure ancora una volta il calcio ci ha dimostrato che non esistono partite vinte prima di essere giocate e che anche le storie perfette incontrano un fuori copione.
Qualcosa è andato storto nel Barcellona oppure l’Arsenal si è preparato talmente bene da aver avuto la forza di inceppare i meccanismi di questa macchina perfetta. Per chi guarda superficialmente, è solo una sorpresa sportiva ma in realtà l’inattesa sconfitta del Barcellona è stata la chiara metafora di una vita nella quale può capitare che, nonostante gli sforzi, qualcosa non vada secondo le previsioni perché, proprio come il calcio, non è una linea retta. Ci prepariamo, costruiamo, ci illudiamo che basti fare tutto “nel modo giusto” per avere il finale sperato. Studiamo, lavoriamo sodo e programmiamo. Ma poi arriva l’imprevisto. Un errore, un infortunio, una decisione che cambia tutto oppure semplicemente un’altra persona o un’altra squadra che quel giorno dà qualcosa in più.
E allora cosa si fa?
Allora si sceglie chi si vuole essere. Si può scegliere di accettare che la vita sia fatta di variabili che non possiamo controllare senza però perdere di vista l’importanza di arrivare il più preparati possibile alla sfida. Quando il copione salta si può scegliere di reagire perché la vita non finisce per un risultato. Lo sport ci insegna che c’è sempre un’altra occasione per la quale possiamo lottare e serve a farci da specchio e a raccontarci che anche i migliori inciampano e che anche chi è sfavorito può brillare.
E allora no, non riuscirò mai a fermarmi solamente alle etichette di vincitrici e vinte perché ho provato attraverso queste partite che siamo molto di più: siamo chi ritorna, chi resiste, chi sogna, chi ispira e chi guida. E questo il tabellone non lo dice.

BIO: LAURA ZUCCHETTI
Gen Z di nascita ma vintage nei modi, parlerei per ore di sport e questioni di genere. Vivo il calcio femminile da tifosa ma con lo sguardo da psicologa sociale per riflettere sulle sue contraddizioni e opportunità figlie della realtà nella quale siamo immersi.