ITALIA, DALL’ABISSO ALL’1%: L’AZZURRO BISOGNA RICOSTRUIRLO COME UNA BICICLETTA
Italia-Norvegia, 0-3. Un cappotto che più che un risultato sportivo è un verdetto antropologico. Sul campo di Oslo abbiamo toccato il fondo, ma la sensazione è che si continui a scavare, con le unghie spezzate e l’illusione che basti un modulo a riportarci in superficie. E invece no. Non è l’ 1-3-5-2, non è l’1-4-3-3, non è il trequartista che manca. Manca, piuttosto, una cultura sportiva e identitaria che ci restituisca una Nazionale degna di questo nome. Ma da dove ripartire?
Forse ci può venire in aiuto un libro: Atomic Habits di James Clear. A leggerlo bene, sembra scritto per Coverciano più che per gli open space della Silicon Valley. Clear inizia il libro raccontando la storia della squadra di ciclismo britannica, quella che per un secolo era stata la barzelletta delle due ruote. Niente trionfi, pochi piazzamenti, tante figuracce. Poi arrivò Dave Brailsford, e cambiò tutto. Non con rivoluzioni titaniche, ma con micro-ottimizzazioni. La famosa “regola dell’1%”: migliorare ogni dettaglio dell’organizzazione, della preparazione, dell’alimentazione, della logistica. Il sellino più comodo, la tuta più aerodinamica, persino il cuscino su cui dormire in trasferta. Sommati insieme, tutti questi 1% portarono i ciclisti britannici a dominare il mondo: cinque Tour de France in sei anni, piogge d’oro olimpiche. E allora, perché non applicare lo stesso principio alla nostra derelitta Nazionale?
L’Italia di Spalletti oggi è un’insegna scolorita: la gloria passata mal si concilia con l’anemia presente. Lo 0-3 contro la Norvegia non è solo una disfatta tecnica. È una débâcle strutturale, un cortocircuito tra il dire e il fare, tra le conferenze stampa da senatori romani e una squadra che si comporta che pare non essere mai nel momento presente. L’atteggiamento visto in campo è stato imbarazzante, come se la semplice presenza in maglia azzurra garantisse diritto d’asilo dal pressing e dalla fatica.
Spalletti ci aveva illuso con qualche lampo di buon gioco e il carisma di chi sa farsi ascoltare. Nello specifico il 3-1 in terra francese all’inizio della sua avventura. Ma alla prima vera tempesta è naufragato. L’Europeo è stato imbarazzante. I cambi tardivi, l’insistenza sul sistema difensivo senza uomini adatti, l’assenza di un’identità riconoscibile: sono questi gli errori più gravi, perché non sono tattici, sono culturali. Eppure, dicevamo, si può ripartire. Ma servono gli “1%” giusti. Basta con i CT che arrivano in Nazionale pensando che basti il loro nome per far lievitare il gruppo. Basta con i giocatori che si presentano in ritiro come se fosse una gita aziendale. L’Italia non ha bisogno di rivoluzioni romantiche, ma di una meticolosa ingegneria del dettaglio.
Per esempio, chi si occupa della preparazione atletica dei nostri ragazzi? Chi ha studiato l’alimentazione più adatta per affrontare una doppia sfida? Chi ha analizzato i dati sulle distanze percorse in campo e sulle accelerazioni in partita? E poi, chi si occupa della psicologia del gruppo? Quanti hanno letto i dossier sulle abitudini dei norvegesi o sulle modalità di gioco di Haaland e compagni? È lì che si costruiscono i 90 minuti. È lì che si vince o si perde. Oggi non si può prescindere dalla scienza, dalla statistica, dall’analisi video. E non si può continuare ad affidarsi alla retorica dell’improvvisazione geniale o del talento puro. Quest’ultimo manca come mai prima nella storia della nostra Nazionale. E pure se ci fosse, senza struttura diventerebbe fuoco fatuo.
C’è inoltre la questione del palazzo: dirigenti federali che sopravvivono a ogni cambio di vento, i consulenti che nessuno sa esattamente cosa facciano, le poltrone che sembrano incollate alla pelle. Per riformare davvero, bisogna che qualcuno — anche in alto — abbia il coraggio di alzarsi e andarsene. Non è più il tempo dei compromessi. È il tempo delle decisioni. E delle rinunce. Perché rinunciare all’ 1-3-5-2 non basta. Bisogna rinunciare a un’intera mentalità fatta di piccoli ricatti (tra cui soldi chiesti ai giovani per essere tesserati), pigrizie tattiche e orgoglio fuori luogo. Serve un’idea nuova, anche banale, ma radicale: tornare a guadagnarsi ogni centimetro di campo. Serve la fame, non l’alibi.
In conclusione, il problema non è solo l’essere stati demoliti dalla Norvegia. Il problema è credere che si possa imboccare la strada giusta senza cambiare. E invece bisogna cambiare tutto, un dettaglio alla volta. Come i ciclisti inglesi, cominciando dal cuscino. Noi possiamo cominciare dal primo controllo orientato fatto bene, dal primo passaggio in verticale riuscito, dalla prima scelta coraggiosa. Un 1% oggi. Poi un altro domani. E, chissà, forse torneremo a vedere l’Azzurro dove ora c’è solo nebbia.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
Una risposta
Buongiorno Vincenzo e buongiorno a tutti. Sono d’accordo su ogni dettaglio di questo articolo, manca però la presunzione di Gravina…per il resto nulla da eccepire.