ROBY BAGGIO, GUARDIOLA, DE ZERBI E LA FELICITÀ DI DIFFONDERE BELLEZZA

Uno dei volti, delle istantanee, degli squarci, dei romanzi, delle narrazioni aulicamente più eminenti della storia del football, che si stagliano illuminanti e suscettibili di logica venerazione, una delle espressioni più  talentuose, geniali, da un punto di vista squisitamente tecnico indubitabilmente facente parte della ristrettissima cerchia dei fuoriclasse più puri che il calcio mondiale abbia mai ammirato:

Roby Baggio da Caldogno è, infatti, probabilmente, qualitativamente e complessivamente, la migliore espressione calcistica europea assieme a Zidane, Platini, Cruyff, Best e Van Basten. Il miglior giocatore del globo nella prima metà degli anni novanta, emblema identitario dell’iconografia del numero dieci per purezza stilistica, tecnica sublime, raffinatezza, eleganza, capacità balistiche, giocate sopraffine.

A mio modo di vedere l’apice del connubio fra uomo e strumento al pari di pochi e dietro l’inarrivabile Diego. Al pallone d’oro del 1993 avrebbe dovuto quanto meno aggiungersi quello dell’anno seguente: il rigore di Pasadena contro il Brasile precluse al “divin codino” la conquista del secondo riconoscimento personale più importante a livello individuale.

Avrebbe dovuto essere il suo mondiale, quale miglior giocatore del pianeta e pallone d’oro in carica: un trofeo che avrebbe nuovamente per l’appunto vinto se, in quel di Los Angeles, non avesse clamorosamente fallito il rigore decisivo alla fine di un incontro che il “divin codino”, a onor del vero, non avrebbe disputato se non si fosse trattato di una finale di un mondiale. L’infortunio patito durante la straordinaria semifinale con la Bulgaria, condita da una doppietta, costrinse Roby a presentarsi in condizione precaria (ad esser buoni) sul prato di Pasadena contro i verde-oro: l’andamento della partita aumentò a posteriori il rammarico, nel gruppo squadra e nell’intero popolo azzurro, per un titolo che, con Baggio al meglio, probabilmente sarebbe stato sollevato al cielo da un eroico e stoico Franco Baresi, rimessosi velocemente da un infortunio al menisco e sceso in campo per dare il proprio contributo.

In una delle sue rare ma ultimamente più frequenti predisposizioni all’interazione pubblica, momentaneamente abbandonate le bucoliche vestigia che ne contraddistinguono la quotidianità sostanzialmente dal maggio del 2004, allorquando il calcio si scoprì inevitabilmente più povero e dimesso, Roby si concede alla stimolante ed emotivamente coinvolgente vibrazione cronologica del proprio percorso, soffermandosi sulle tematiche e sui momenti più rimarchevoli di rilascio intimamente interiore.

Dai primordi alla Fiorentina, dagli infortuni alla Juve, dall’iconografico rigore di Pasadena a Carletto Mazzone, fino alla candida affermazione concernente l’inclinazione all’identificazione di un’espressione: oggi, ca va sans dire, con chi avrebbe voluto condividere la gioia di esercitare le poetiche movenze del suo impareggiabile, fantasioso, sublime, dolcemente caracollante football?

Con Pep, of course, suo compagno in quel di Brescia. E Roberto De Zerbi. E anche Inzaghi, geometrico creatore di un’Inter a suo modo intenta ad offrire uno spettacolo collettivamente godibile a cui la classe di Roby avrebbe sicuramente aggiunto la magia mancata individualmente in alcune circostanze.

Per il divertimento, per la gente, per la gioia fanciullesca di voler coniugare bellezza estetica ed obiettivi professionali. Per far godere il pubblico dello spettacolo sportivo più apprezzato nel globo terracqueo, per ricamare, per incorniciare, per sciorinare. Per giocare a calcio nell’accezione più generalmente sottintesa, verso la finalità più nobile.

Contro ignobili pressappochismi, minimalismi, speculazioni, mentalità volte a ridimensionare eleganza e dedizione alla sublimazione dell’essenza più incontrovertibile, contro l’assurda predisposizione a non superare i propri limiti decidendo di non coltivare gli estremismi volti a concepire e raggiungere le proprie capacità massimali, i propri apici, e dunque autoinfliggendosi la condanna a restare inferiori a sé stessi.

Contro tutto ciò cui da sempre combatte Pep Guardiola, straordinaria mente pensante di un calcio evoluto e sempre in evoluzione, fantastico pioniere di idee concettualmente innovative sia nell’inventare, letteralmente, situazioni e sistemi di gioco, sia nel creare, più prettamente, rivoluzioni nell’utilizzo degli elementi a disposizione.

Travolgente creatore di uno spartito incantevole, volto al dominio tecnico e territoriale di ogni incontro, secondo dinamiche figlie dell’intellettualità calcistica degli interpreti magistralmente diretti da un uomo visionario, che inventa linee, tempi di gioco, spazi, che crea mentalità vincente rispettando il proprio lavoro, il proprio pubblico e gli spettatori di tutto il mondo, come formazione ed educazione catalana vuole. Non esattamente il tipo che timbra il cartellino in allenamento suggerendo di passare il pallone a “quelli che hanno la stessa maglia”.

E l’omonimo, di Roby, De Zerbi: una carriera enunciata scegliendo coerentemente la strada che per molti avrebbe potuto essere la più difficile, la più impegnativa, la più rischiosa, tendenzialmente più adatta ad un’esposizione più prettamente idonea ad un tendone da “circo” (luogo che, per alcuni, dovrebbe essere unicamente prescelto perché possa essere ammirato “lo spettacolo”).

Un’aulica espressione che, abbracciando il dominio di campo e pallone come concetto basilare ed identitario, determina  l’innalzamento di aspetti di cui il mondo dovrebbe essere invaso, vale a dire bellezza, conoscenza, qualità, contemporaneamente esibiti, sfoggiati, ostentati, sbandierati in nome di un’educazione umana prima ancora che sportiva e volta al rispetto del proprio lavoro e di chi ne fruisce in termini di passione, emozioni, attaccamento, brividi.

Ciò che Baggio sa. Ciò che Roby ha fatto e tutelato. Imporsi, nel calcio moderno, non è uno sfizio. È una necessità. Rispettando gioco e pubblico. E tutelando quell’umanitá che Baggio seppe ritrovare in Carletto Mazzone: schietto, verace, umanamente coinvolgente e rassicurante, figlio di un’italia non ancora inquinata dagli ambivalenti contorni della modernità e da un’estetica comportamentale che precede la rivelazione dell’essenza, in un fallace gioco di esposizione fasulla dell’interiorità, Mazzone ha perennemente rappresentato un calcio più autentico, intriso degli ineguagliabili sapori della tradizione territoriale che si mescolano all’eco della ribalta nazionale.

In tanti lo hanno elevato a “secondo padre”: Baggio e Guardiola ne hanno tessuto costantemente le lodi. Non ha vinto pressoché nulla in termini di trofei, pur raggiungendo sostanzialmente sempre l’obiettivo prefissato ad inizio stagione: un dato che è un ulteriore suggello di quanto sia stato realmente amato ed idolatrato principalmente per meriti travalicanti il becero risultato sportivo.

BIO: ANDREA FIORE

Teoreta, assertore della speculazione del pensiero quale sublimazione qualitativa e approdo eminentemente più aulico della rivelazione dell’essenza di sé e dello scibile, oltre qualsivoglia conoscenza, competenza ed erudizione quali esclusive basi preliminari della più pura attuazione di riflessione ed indagine. Calciofilo, per trasposizione critico analitico di ogni sfaccettatura dell’universo calcistico, dall’ambito  tecnico-tattico all’apparato storico, dalla valutazione individuale e collettiva ai sapori geografici e culturali di una passione unica. La bellezza suprema del calcio è anche il suo aspetto più controverso: è per antonomasia di tutti e tutti pensano di poterne disquisire.

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