Nel 1993 Diego Armando Maradona decise di tornare in Argentina. Mancava dal suo Paese da calciatore dall’estate 1982 quando, a Mondiale spagnolo terminato, lasciò il Boca Juniors per fare ciò che hanno fatto, fanno e sempre faranno i calciatori argentini: salire su un aereo con destinazione “Europa”, scendere dalla scaletta e far vedere a tutti di cosa sono capaci.
La storia calcistica di Maradona nel decennio 1982-1992 la sanno tutti e tutti la ricorderanno per sempre. Terminata la fugace esperienza con il Siviglia dopo la squalifica per doping quando militava nel Napoli, il pibe de oro decise di tornare a casa. E firmò con uno dei due club più famosi di Rosario, la città dove per la prima volta (il 27 febbraio 1812) Manuel Belgrano mostrò al mondo “bandera” argentina, nonché la città del calcio per il numero di calciatori di grande livello nati laggiù. Qualche nome rosarino? Messi, Di Maria, Icardi, Banega, Santiago Solari, Bielsa, Menotti, Angel Correa, Killer, Lo Celso. Oltre a Ernesto “Che Guevara” e la modella Valeria Mazza.
Maradona firmò con il Newell’s Old Boys, la “lepra”. Se il 5 luglio 1984 al “San Paolo” di Napoli erano giunti almeno 70mila tifosi per vedere dal vivo, anche solo per pochi minuti, colui che era costato 13 miliardi di lire alla loro squadra e che in sette anni ha fatto diventare il Napoli un fenomeno globale ed è diventato “megl’ie e Pelé”, Rosario è impreparata alla “calata” del pibe de oro: non gioca seriamente a calcio dai tempi di Napoli, ma Maradona è sempre Maradona: el Diez, barrilete cosmico, pelusa, el mas grande de todos.
La “cuna de la Bandera” è nel caos, c’è gente ovunque, c’è fila ovunque. Fisicamente Diego non è al top, è un po’ tirato ma è lì ad abbracciare tifosi e giornalisti. Durante la presentazione, un giornalista chiede “Diego, cosa si prova ad essere il più grande giocatore mai passato da Rosario?”. Attenzione, piccolo excursus: il Newell’s Old Boys è una delle squadre più famose d’Argentina, gioca il derby con il Central (il “derby rosarino”) ma fino a quel momento aveva vinto quattro campionati argentini.
Detto questo, Maradona rispose quasi stupito: “Sbagli! Il più forte qua è stato un altro: Carlovich”. Silenzio in sala stampa: il calciatore più forte di sempre ha spiazzato tutti con una risposta naturale, senza nessun ridolino. Serio, come mai forse è stato serio nella sua vita. Ma chi è questo Carlovich?
Per capire il fenomeno, o meglio il culto, Carlovich c’è da tornare nella città di Rosario in tre momenti distinti: il 19 aprile 1946, il 17 aprile 1974 e l’8 maggio 2020.
Partiamo dalla prima, la data di nascita. Tomas Felipe Carlovich è figlio di un argentina e di un idraulico di origine croata che ha lasciato il suo Paese di origine a seguito della crisi economica del 1929. È l’ultimo di sette figli, vive nel barrio General San Martín chiamato “La Tablada”. La famiglia non è ricca, ma è dignitosa.
A Felipe piace il calcio (ops, il futebol): si destreggia con il suo piede sinistro, è il re del potrero, il campo da calcio improvvisato che caratterizza chi in Argentina gioca a calcio e che sogna un giorno di andare in Europa, scendere dalla scaletta dell’aereo e far vedere il proprio talento.
Da buon calciatore argentino, anche Carlovich ha un apodo, un soprannome: “Trinche”, che non significa nulla in particolare.
Carlovich è il numero 5, di “mestiere” fa il volante, il “nostro” regista: tutte le palle passano da lui e da lui parte il passaggio che porta poco dopo il compagno al gol.
La sua carriera è stata caratterizzata da tante squadre delle serie minori argentine come Flandria, Cordoba Central (in quattro tranches), Independiente Rivadavia, Club Atlético Colón e Deportivo Maipú. Squadre note, alle nostre latitudini, solo ad esperti di calcio o ai tifosi di quelle squadre, ma il “trinche” ha anche giocato due partite con il Rosario Central nel 1969. Poi solo provincia argentina.
Uno potrebbe pensare: “Carlovich non era capace e quindi ha giocato nelle serie minori”. “Eh no, señor!”: Felipe Carlovich ha voluto lui stesso giocare lontano dalle grande luci del calcio argentino. Il motivo? Non è mai sceso a compromessi: a lui il calcio piaceva giocarlo “senza impegno”, per il gusto di indossare gli scarpini chiodati e toccare la pelota in campo. Tutto qua. Un pazzo? No, semplicemente “el Trinche”.
Tanto per capirci: il Central Cordoba, il club dove ha dato di più, giocava (e giocava ancora oggi) al “Gabino Sosa”, un piccolo impianto intitolato ad uno dei primi calciatori simbolo di Rosario, e se il “Trinche” giocava il prezzo del biglietto costava di più, di meno se non giocava. Fuori dalla biglietteria dello stadio se appariva la scritta “Esta noche juega el Trinche” c’era fa fare un bel po’ di coda per accaparrarsi il biglietto. E ne valeva sempre la pena.
Chi lo ha visto giocare (e lo dice tra il mito, le battute e l’esagerazione) parlava di un ragazzo che aveva la palla sempre attaccata ai piedi. La sua specialità era il “doble caño”: un doppio tunnel fatto all’avversario nello stesso frangente.
Ed ecco arrivare la seconda data importante nella carriera di Carlovich. Siamo al 17 aprile 1974 e a Rosario arriva la Nazionale argentina in fase di preparazione per il Mondiale tedesco occidentale che sarebbe iniziato il 13 giugno successivo. Commissario tecnico della Albiceleste è Vladislao Cap, detto “el Polaco” viste le sue origini. La Seleccion tornava ad un Mondiale dopo avere “bucato” quello messicano del 1970: non era tra le favorite, ma l’Argentina è sempre l’Argentina e quattro anni dopo avrebbe ospitato il Mondiale.
Cap conta una squadra forte: da Bertoni a Killer, da Houseman a Perfumo, da Carrascosa a Fillol fino a Brindisi e ad un giovane Kempes. Il Ct, che aveva ereditato da Omar Sivori la Nazionale, decide di far fare una sgambata ai suoi ragazzi nella città della bandiera argentina. Il 17 aprile 1974 si gioca nello stadio del Newell’s Old Boys la partita tra Argentina e “combinado de Rosario”, ovvero una selezione di calciatori allora militanti nelle due squadre di Rosario, il Rosario Central e lo stesso Newell’s Old Boys. Peccato che all’entrata in campo, l’undicesimo era un giocatore che non militava in nessuna delle due grandi squadre rosarine, ma uno che giocava nella terza squadra della città, il Central Cordoba, in Primera B Nacional: Felipe Carlovich.
La partita è vinta 3-1 dalla formazione rosarina e Carlovich diede lezioni di calcio a tutti, sia al “combinado” che ai ragazzi di Cap: alla fine del primo tempo il “combinado” era avanti 3-0 e si dice che Cap sia andato dai due allenatori della sezione rosarina, Juan Carlos Montes e Carlos Timoteo Griguol, chiedendo il cambio di quel numero 5 che stava facendo fare una brutta figura ai suoi ragazzi. I due entrenadores declinarono l’invito e tolsero il “Trinche” solo al 60’. Si dice che appena fatta la doccia, Carlovich sia andato al bar con gli amici.
Nessuno si dimenticò di lui. Non se dimenticò l’erede di Cap sulla panchina della Albiceleste, il rosarino Menotti che sostituì il “polacco” dopo il Mondiale del 1974. Nel 1978 l’Argentina avrebbe ospitato il Mondiale, al potere c’era da due anni la Junta ma il “flaco” non si dimenticò del “trinche”. Gli disse “Tomas, ti aspetto a Ezeiza. Non puoi mancare”. Carlovich accettò l’offerta: chi non voleva non giocare un Mondiale per di più in casa ? E se poi ci scappasse un provino per una grande squadra bonaerense?
La distanza tra Rosario e Buenos Aires è di 300 chilometri e quelli sono stati i 300 chilometri più lunghi della vita del “Trinche”. A Buenos Aires quel giorno Carlovich non arrivò mai. E sapete perché? Durante il viaggio passò accanto al fiume Paraná, si fermò e si mise a pescare. Finito di pescare, tornò a Rosario. Menotti si arrabbiò, ma aveva capito il personaggio e perse mai la stima in lui.
Carlovich nel 1982 trascinò il Central Cordoba in Segunda division: da quel momento, abbassò il ritmo e si ritirò nel 1986 all’età di 37 anni. Visse sempre con la moglie e i due figli e lavorando (così dice la vulgata) con uno dei fratelli come installatore di pavimenti.
E si arriva alla terza data, l’8 maggio 2020. Due giorni prima Carlovich era in giro per Rosario con la sua bicicletta. Non camminava perfettamente perché an ni fa aveva subìto un intervento all’anca e fatica a muoversi. Due ragazzi lo osservono, gli vanno incontro, lo strattonano, lo spingono per terra e scappano via con la bicicletta. Carlovich ha battuto la testa, ha perso i sensi e viene ricoverato. Morirà l’8 maggio dopo due giorni di coma: aveva 71 anni.
Rosario e tutto il calcio argentino sono nello sconforto: era morto uno dei maggiori personaggi rosarini della storia ed il futebol perdeva uno dei suoi prodotti più belli.
In conclusione, Tomás Carlovich è stato nostalgia, utopia, fantasia. Uno che aveva un rapporto particolare con la palla tanto da considerarla una sorta di coperta per Linus: senza averla tra i piedi, stava male.
Con i se e con i ma non si fa nulla, ma chissà cosa avrebbe fatto Carlovich se avesse giocato in Primera division o in Europa. Non lo sapremmo mai, ma sicuramente a lui questo non importava: a lui interessava solo giocare per divertirsi, stare con gli amici, vivere Rosario, ridere e scherzare e con tutti. Ricordando quando al “Sosa” c’era il cartello “Questa sera gioca il Trinche” e la gente faceva la coda per vederlo in campo con la maglia numero 5 a dispensare grande calcio.
Carlovich è pura Argentina, quel luogo del Mondo dove fantasia e verità si fondono. Parliamo di uno che una volta gli fu tolta un’espulsione perché la folla inveì contro l’arbitro per quella decisione il quale dovette “ritirare” il cartellino oppure quando in una trasferta si presentò senza documenti di identità, l’arbitro non volle farlo giocare ma un addetto della squadra di casa gli assicurò che quello era davvero Tomas Carlovich.
La sua è stata una vera storia argentina ed è ancora Carlos Luis Menotti, il tradito Carlos Luis Menotti dallo stesso Carlovich, a parlare del ragazzo di Rosario che aveva i capelli lunghi e i baffoni western: “ecco a voi Tomas Carlovich, il più forte giocatore argentino di sempre che nessuno ha mai visto giocare”.