Nell’apprezzare il contributo portato dal pezzo di Erdal Karaman , pubblicato in questo blog lo scorso 25 aprile, divengono naturali alcune riflessioni in tema di efficacia del gioco di possesso e/o di predilezione nell’iniziare l’azione con la cosidetta “costruzione dal basso”.
Riconoscendo la bontà delle osservazioni contenute nel succitato intervento, corredate da dati credibili e da una corretta e circostanziata interpretazione degli stessi (ipotesi non sempre ravvisabile nel dibattito a tema “possesso si, possesso no…”), diviene lecito introdurre un altro aspetto, troppo spesso dimenticato, in tema di incidenza sul risultato della gara.
Prima, però, è doveroso spazzare il campo da un equivoco di fondo, rappresentato dal luogo comune secondo cui le compagini e, prima di loro, i tecnici che ricercano un gioco di possesso lo facciano per mero esercizio di stile senza interesse al risultato.
Nella maggior parte dei casi, in realtà, chi pratica un calcio del genere lo fa perché ritiene sia il mezzo migliore per vedersi gratificare dall’esito della gara.
Lo fa perché pensa che costruire sia più proficuo che scommettere sulle individualità e, soprattutto, sull’errore dell’avversario.
Lo fa perché è consapevole che l’adagio secondo cui “basta dare la palla ai bravi e loro decidono” può funzionare nel breve termine ma è destinato a scontare innumerevoli variabili tra cui lo stato di forma dei singoli, gli infortuni, le assenze, la giornata no di qualche protagonista e le qualità dell’avversario.
Nei settori giovanili, peraltro, la scelta di giocare in un determinato modo è ancor più propedeutica allo scopo che è quello di formare i giovani calciatori al di là delle circostanze “singole” .
Non è raro che ragazzi dominanti a 13-14 anni, a cui viene demandata la funzione di far vincere la squadra grazie alle loro “magie”, interrompano la loro crescita nel momento in cui, da lì ad un paio d’anni, non siano più in grado di rimodularsi vedendosi improvvisamente incapaci di determinare singolarmente.
Quanto sopra deve essere rapportato ad ulteriori due aspetti.
Il primo è rappresentato dal fatto che, nel calcio moderno contraddistinto da tantissimi e ravvicinati impegni, nemmeno gli elementi più validi possono assicurare uno standard prestazionale di elevato livello per l’intera durata della stagione.
Il secondo dalla circostanza secondo cui il calcio di costrutto, basandosi su un elevato senso del collettivo, permette grazie alla proposta collettiva di valorizzare anche i singoli apparentemente meno dotati
Ciò consente notevoli introiti quando determinati elementi (valorizzati) vengono ceduti per salvaguardare la gestione economica del club ed, allo stesso tempo, di inserire i nuovi in un contesto collaudato, ancorché aperto a continua rimodulazione, in grado di non patire oltremodo l’assenza di chi se ne è andato.
Il caso del Bologna di questa stagione, capace di mantenersi ad alti livelli nonostante la cessione di Calafiori (uno dei pochi italiani a non essere stato rimbalzato dalla Premier), certifica quest’ultima annotazione.
Ma questi, qualcuno potrebbe obiettare, non sono risultati di campo.
Se analizziamo con onestà e correttezza i dati ci accorgiamo, invero, in merito all’efficacia del calcio di possesso, come le valutazioni non sempre risultino immuni da pregiudizi, concetti e carenza di competenze.
Il tentativo, da parte di una cospicua fetta dell’informazione calcistica, di ridurre i meriti e le peculiarità di un certo modo di proporre calcio è frutto della nostalgia verso un passato che si conosce meglio (a cui si tende ad essere affezionati perché parte di noi) e della mancanza di conoscenze che fa sì che gli esponenti di un football “diverso” vengano criticati, quando non derisi, prendendo a campione solo determinate situazioni.
Il non poter spendere adeguate competenze in materia produce una sorta di diniego prioristico delle altrui vedute della serie “non essendo in grado di confrontarmi nel merito, mando al rogo ciò che non sono in grado di confutare”.
L’esempio classico è rappresentato da chi, ogni qualvolta una squadra prende goal perdendo palla in fase di costruzione, si scaglia contro detta attitudine, incurante di tutte le volte che una compagine subisce una rete per non aver costruito da dietro, ovvero sugli sviluppi di una rimessa laterale battuta a seguito di un rinvio a casaccio al fine di “spazzare l’area” e/o allontanare la palla senza una minima possibilità di porre in essere un’azione di gioco.
Ma ciò non basta. Anzi, vieppiù!
Nel considerare l’efficacia del possesso palla, si dimentica spesso un aspetto fondamentale.
Non è raro, infatti, leggere ed ascoltare commenti atti a “computare” il numero di reti che una squadra realizza.
Commenti intenti a dimostrare come, tutto sommato, la percentuale di efficacia sia ridotta o comunque non tale da giustificare l’assunzione del rischio della costruzione da dietro.
L’esercizio, di per sé errato, sconta almeno un paio di “dimenticanze”.
La prima è rappresentata dal fatto che le realizzazioni frutto di calci piazzati, pressing alto e calcio d’angolo non vengono considerate “effetto del possesso” anche se, spesso, lo sono da un punto di vista tecnico.
Se a quel determinato calcio d’angolo sono arrivato costruendo da dietro, allora quel goal è frutto del modo con cui mi sono approcciato all’azione.
Non può essere derubricato esclusivamente alla voce “palle inattive”.
E, più alto è il numero di corner di cui la squadra può usufruire, più salgono le possibilità di realizzare sugli sviluppi di calcio d’angolo.
Più una squadra tiene palla nei pressi dell’area e più palle inattive potrà spendere…
Se il pressing alto, che mi ha permesso di recuperare palla, l’ho sviluppato nell’intento di rigiocarla subito, è un goal dovuto al desiderio di controllare la partita.
La seconda è dovuta all’inosservanza di un aspetto legato alla tipologia del calcio che è disciplina di squadra a punteggio basso.
Ciò significa che, a differenza del basket, non tutte le azioni sono destinate a concludersi con il tiro verso la porta.
Talvolta è la ripetitività di una giocata codificata o, meglio, opzionata nella maniera corretta a far si che la squadra vada in goal. Estremizzando il concetto: ci sono casi in cui la rete non è frutto esclusivo dell’ultima azione ma di quanto proposto in un lungo periodo della contesa.
Soprattutto nel finire di gara, una pressione continua, di possesso, lucida e condita da conoscenze può usufruire della stanchezza di un avversario costretto a correre senza palla ovvero del naturale errore difensivo (non in quanto cercato di proposito ma in quanto frutto del continuo controllo della palla da parte dell’altra contendente).
Questa situazione non può essere “contabilizzata” ma è comunque presente nelle partite a cui assistiamo.
I numeri e le statistiche non mentono.
Ad una condizione, però: che, come ci insegna Rino Tommasi, si abbia la pazienza di compilarle, la voglia di studiarle e la capacità di interpretarle.
ALESSIO RUI & FILIPPO GALLI

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.
2 risposte
Articolo giustissimo; pieno di considerazioni corrette. Ci sono tantissime ragioni che supportano l’indispensabilità del possesso. Dallo stancare e frustrare gli avversari; al ridurre-per quanto più possibile-il fattore caos, che si genera spontaneamente in ogni circostanza di gioco; fino alle motivazioni più intuibili. È incredibile, come ha giustamente sottolineato; la puntualità quasi sadica e carica di acredine, con cui vengono rimarcate, non solo le reti subite costruendo da dietro; ma anche le occasioni mancate da chi ha recuperato un pallone in simili circostanze. Mentre si ignora bellamente, tutta la moltitudine di reti ed opportunità di segnare che scaturiscono da palloni buttati via, nel vuoto e consegnati agli avversari o magari calciati fuori dal rettangolo di gioco e che generano situazioni favorevoli all’altra squadra. D’altronde viviamo in un paese in cui si parla(e mi riferisco al pre-gara di Barcellona-Inter, ma potrei citare esempi a non finire)di partita che:” si deve vincere grazie alla capacità di saper soffrire e di sacrificarsi” e non di partita da vincere cercando di proporre un buon calcio. Solo qui viene continuamente riproposta la litania sull’esperienza; sulla malizia; sul carattere; sulle motivazioni e sulla “cattiveria”; mentre in quasi ogni altra parte del mondo, ci si concentra sulla capacità di sviluppare le proprie idee sul campo. Siamo un paese in cui, se una squadra perde subendo una rete al 90′, dopo aver subìto costantemente la pressione avversaria, si parla di sconfitta eroica e di sforzi non premiati; mentre se si perde al 90′, dopo aver dominato per tutta la gara e magari avendo soltanto concesso quel singolo tiro; si viene derisi e trattati come dei “polli”. Qui c’è la tendenza ad esaltare chi riesce ad ottenere qualcosina, facendo il minimo indispensabile o anche meno; mentre si ridicolizza chi massimizza gli sforzi; gli studi; l’analisi. Purtroppo è così. Grazie ancora per il contributo. Un abbraccio
Grazie mille a lei!
Concordo su tutto; in particolare sull’eccessiva importanza data all’esperienza intesa come malizia.
Non che l’esperienza non conti ma, nel nostro paese, in qualsiasi ambito, è sopravvalutata.
Si va avanti per anzianità e non per merito
Un caro saluto
Alessio