LO STADIO  E  IL PONTE TIBETANO – 1^ PARTE.

CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLO SVILUPPO CONCETTUALE DI UN NUOVO LUOGO PER GLI APPASSIONATI DI CALCIO E NON SOLO.

PREMESSA

Il calcio è uno dei fenomeni più rilevanti che si conoscano e costituisce, sotto il profilo sociale ed economico, un valore  per molti paesi. E’ pertanto importante, ignorando la retorica degli snob che rifiutano questo assioma, capirne i fenomeni, valutarne gli scenari e indirizzare l’evoluzione strategica del rapporto tra il  calcio e il suo contesto, che cambia sempre più rapidamente nelle scelte e nei bisogni.

Tutti dovrebbero aver ormai capito che lo sport più seguito al mondo, con i suoi richiami, i suoi miraggi e la sua liturgia, sta assumendo connotati molto diversi rispetto al più recente passato. E’ in atto una trasformazione di modello che vede il passaggio da attività prevalentemente agonistica a una di intrattenimento globale nella quale, prendendo spunto da un evento (la partita) e alcuni personaggi  (giocatori, allenatori e manager), si realizzano contenuti di vario tipo, fruibili sia in uno stadio sia attraverso strumenti tecnologici sempre più sofisticati. Un sistema dove il consumatore, di qualsiasi matrice esso sia,  non è più una figura passiva, ma in qualche modo vuole partecipare  e interagire.

L’intreccio tra globalizzazione e progresso tecnologico ha infatti allargato oltre ogni immaginazione il rettangolo di gioco, un tempo fisicamente circoscritto negli stadi delle città, e gli attori sono diventati i protagonisti del circuito mediatico globale. Il calcio è un fenomeno di costume dove i club sono assurti al ruolo di media company e producono contenuti mirati  a due obiettivi: da un lato  il successo sul campo, dall’altro la conquista dell’attenzione, del tempo e della disponibilità di spesa di un pubblico sempre più vasto e diversificato. Questo sviluppo non deve essere subito ma  gestito in modo proattivo, con consapevolezza e rinnovate professionalità.

In uno scenario strategico così complesso  il tema degli stadi è quello che meglio si presta a rappresentare il paradigma di questa evoluzione. Negli ultimi dieci anni in tutto il mondo sono stati depositati oltre 600  nuovi progetti per impianti sportivi. In Europa se ne contano circa 200, però nel nostro paese i casi sono noti e si contano sulle dita di una mano. Abbiamo stadi grandi, vecchi e obsoleti: non è notizia il fatto che da anni in Italia si registra un fattore di riempimento medio sotto il 70%, contro il 95% e oltre di quello inglese e tedesco.

In buona sostanza il nostro sistema è gravato da un peccato originale, vale a dire una totale mancanza di visione. In particolare abbiamo perso la grande occasione dei mondiali del 1990. Si è costruito e ristrutturato, sono scese in campo ottime professionalità, però quasi tutte indossavano scarponi da cantiere e un caschetto giallo, mentre altri profili sono rimasti in panchina o in tribuna. E’ sfumata così l’opportunità per uno sviluppo di impianti diversi rispetto a semplici contenitori temporanei di persone.  Qui si parla d’ impianti per sport professionistici, ma la stessa visione è mancata anche nei riguardi di tutti gli sport di base, con evidenti e diffuse carenze nell’impiantistica sportiva in generale.   

Giustamente molti nostri club  vorrebbero (o perlomeno danno l’ impressione di volerlo) colmare il gap concorrenziale con una diversa strategia, ma di questi tempi proporre da noi la realizzazione di un nuovo impianto è come tentare l’attraversamento di un fragile e traballante ponte tibetano. Infatti sono in molti  a demonizzare questi progetti, in quanto convinti che la loro realizzazione possa, come il vaso di Pandora, liberare tutte le bruttezze del genere umano. Esempi se ne potrebbero far tanti, decisamente troppi: motivazioni politiche e ideologiche, pastoie burocratiche, duelli di competenze, interessi contrapposti e via dicendo stanno rendendo  disarmante il panorama della impiantistica sportiva nel nostro paese.  

Oramai si ha la piena consapevolezza che proporre un nuovo progetto  implichi  un percorso senza prospettive certe. Quindi, tornando alla metafora del ponte tibetano, per raggiungere l’altra sponda del fiume si dovrebbe cercare un approccio alternativo rispetto a quello fin’ora usato, pensando e comunicando concetti fuori dagli schemi tradizionali. Prendiamo ad esempio Ikea oppure Ryanair. Cos’ hanno di diverso rispetto ai loro concorrenti? Come si sono differenziate  in un mercato stereotipato? Hanno sparigliato le prassi e le liturgie del loro mondo, cambiando l’ approccio ai problemi e offrendo opzioni alternative. Gli spunti che seguono vogliono fornire elementi di riflessione in tal senso.

NON CHIAMIAMOLO PIU’  “STADIO”   

La parola stadio trae origine da stadion, termine greco che indica un’unità di misura corrispondente a circa 180 metri. Il più antico conosciuto è quello di Olimpia, dove nacquero i primi giochi. Inizialmente questi consistevano in un singolo evento, una gara di corsa per la lunghezza appunto dello stadion. La standardizzazione delle piste da corsa a 180-200 metri fu poi seguita dai romani, nella convinzione che la capacità umana di sostenere la massima velocità venisse meno dopo questa distanza.

Stadio starebbe quindi a significare un sito attrezzato per correre i 200 metri piani, ma non è mai stato semplicemente questo. Infatti, come ad Olimpia, ogni civiltà ha da sempre evidenziato, attraverso specifici segni architettonici, l’importanza che lo sport  ha rivestito per la formazione della loro identità. Ne sono esempio, nelle diverse epoche, il Colosseo, il Circo Massimo, il Vigorelli, il Maracanà, la Bombonera, San Siro e molte altri. Non sono semplicemente edifici complessi ma vere e proprie icone, testimoni del tempo, delle persone e della  loro cultura.

Quindi non dobbiamo più  pensare allo stadio come  ad una infrastruttura, bensì come a un luogo.

Non deve essere una costruzione aliena collocata casualmente dove capita, funzionale a contenere temporaneamente un pubblico di transito,  bensì uno strumento integrato di configurazione territoriale, pensato per essere in grado di offrire risposte ai bisogni di diverse utenze sociali con tempi e modalità di fruizione anche diversi tra loro.  E’ un sito strategico di un quartiere e di una città, con un suo particolare genius loci  e non  un  fastidioso e ingombrante contenitore a cui si accede per due ore ogni quindici giorni con  disagi, stress e sporcizia. Deve servire la città, la cui nuova  tendenza  è  quella di far convivere contemporaneamente  molteplici elementi sovrapposti, come  l’ aggregazione, la sostenibilità, l’ integrazione, insieme ad aspetti come i valori sociali, la solidarietà, la cultura, il divertimento, la conoscenza e l’innovazione.

Anche una superficiale  lettura della storia ci indica come  nei secoli i contesti abitativi e di scambio sono cambiati, evolvendosi  verso un modello che ricorda il modo di cucinare un uovo. Nel medioevo era sodo, con distinzioni funzionali nette tra le due componenti. Il tuorlo (la classe dominante) stava compatta al centro e   l’ albume, tutto intorno, lo avvolgeva compatto con rigidi confini e nessuna contaminazione.  Nell’ ottocento era  in tegamino: sempre il tuorlo più o meno al centro, ma le due parti erano più  fluide, potevano infiltrarsi una nell’ altra.

Ai nostri giorni siamo all’ uovo strapazzato,  con le componenti sociali che si integrano, tuorlo e albume si mischiano e non esistono più confini o barriere, centri o periferie.

Pertanto, se si comprende il valore di questa metafora, occorre ripensare   a una funzionalità diversa  delle strutture aggregative:  devono essere aperte, convivere con la realtà quotidiana del luogo e interagire con tutte  le persone e con tutte  le attività tipiche  del posto. Solo in questo modo potranno  soddisfare i bisogni degli  stakeholder, secondo una matrice che tocca le istituzioni, i tifosi, gli abitanti della zona, le attività commerciali, gli sponsor e via dicendo.  E’ evidente che il concetto di un progetto per un nuovo  stadio oltrepassa quindi la natura architettonica per divenire campo di professionalità, competenze e creatività trasversali a molteplici discipline integrate tra loro. E’ solo attraverso il mix di tali elementi si riuscirà a capire a fondo  il contesto specifico in cui si colloca  e rifiutare i facili  modelli taglia e cuci che vengono spesso mutuati da altre culture.

Dobbiamo anche sottolineare che costruire uno stadio  implica una scelta che vede il passaggio a una gestione imprenditoriale pura del club, rispetto alle varie forme semi populistiche sin’ ora osservate.   Il costo costruzione di un impianto del genere può partire da 6 mila euro a posto per arrivare anche a 15 mila. – Infatti l’ ipotesi dello stadio Popolous a fianco del Meazza San Siro prevedeva un investimento di oltre un miliardo. Si possono fare tutti i voli pindarici che uno può immaginare ma la sostanza è che senza prevedere un  incremento rilevante   del costo dei biglietti un investimento del genere non regge.  I club sono attrezzati per gestire questo nuovo rapporto con i tifosi ? Una diversa qualità in tutta  l’ esperienza del match day sarà sufficiente perché uno qualsiasi dei tifosi sia disposto a spendere 50 euro rispetto ai 20 di prima ?

Anche a questo mi riferivo quando dicevo: proviamo a pensare e a parlare di  “stadio” in modo diverso.

GLI ELEMENTI PORTANTI DEL NUOVO CONCEPT

La sinergia tra stakeholder. La concettualizzazione di una struttura di questo tipo è frutto di un incontro d’ interessi diversi e a volte antitetici. L’ Amministrazione pubblica deve avere un ruolo guida proattivo, con una strategia propositiva  e una visione complessiva molto ampia  e non, come spesso accade, limitarsi a prendere atto ed esercitare uno sterile ruolo notarile; il club deve garantire che la struttura risponda in modo adeguato alle richieste  dei suoi stakeholder, che includono tifosi, clientela corporate e altri utenti non necessariamente legati al calcio; i media hanno esigenze che richiedono determinate soluzioni strutturali e tecnologiche e  gli sponsor  devono essere parte attiva del processo,  perché  già dal progetto la struttura sarà per loro un formidabile veicolo di comunicazione.

Ma altrettanto importante è il ruolo delle persone che formano la comunità, che dovranno  fornire il loro contributo alla realizzazione di un progetto che le vedrà coinvolte sia come utenti sia come normali cittadini.  Quanto sopra, sempre in un’ ottica di pensiero laterale e di diversità rispetto alle prassi correnti, andrebbe tenuto in considerazione anche nella definizione dell’assetto proprietario del nuovo stadio. Una strategia che preveda l’ utilizzo di strumenti finanziari e di raccolta di capitali  dagli stessi tifosi, dagli sponsor e dagli imprenditori delle attività collaterali   potrebbe rafforzare di molto l’ interesse collettivo del progetto, dare più forza alla comunicazione e alla  capacità negoziale e rendere meno precario l’ attraversamento del ponte tibetano. Un esempio  potrebbe essere  la quotazione in Borsa, in un segmento ad hoc, dei titoli di questi fondi proprietari degli stadi.

Lo spirito della cittàCostruire una nuova visione dell’ offerta sportiva, integrandola con lo stile di vita specifico del posto. Quindi uno stadio basato sul calcio più qualcos’altro non basta: va creato un rapporto stretto con l’ anima del   il territorio allargato e quello che esso rappresenta: l’ arte, il turismo, la moda, il design, la cultura, il lavoro  e via dicendo. Le città italiane  sono quasi tutte  caratterizzate da  un’  identità che le  distingue  e   questa tipicità  potrà essere riflessa nello stadio, creando un continuum tra fuori e dentro.

Il landmark  urbano. Il medesimo concetto vale anche per la dimensione fisica e architetturale. Il progetto si deve inserire in un contesto coerente, occupando uno spazio importante nella trama urbana consolidata, con  l’ obiettivo di fare dello stadio un nuovo pezzo di città integrato con il suo  intorno. Per questo andrebbe pensato in una direzione alternativa rispetto alla forma tradizionale di queste strutture.  L’ ispirazione deve venire dalle caratteristiche fisiche del luogo che lo ospita: palazzi, porticati, cortili, piazze, giardini, viali e via dicendo sono i modelli di riferimento. Christian Norberg-Schulz, uno dei più importanti critici e teorici dell’architettura del secolo scorso, diceva: “E’ il luogo che ispira il progetto, non viceversa”.

L’ ecosostenibilità. Non  meno importanti sono  gli aspetti ecologici. L’utilizzo di pannelli solari e fotovoltaici sul piano di copertura, ad esempio, garantisce l’autonomia energetica del complesso e consente inoltre la produzione di energia  per il fabbisogno di insediamenti limitrofi (come accade nello Stade de Suisse a Berna, in Svizzera). La particolare estensione della copertura delle tribune rende possibile una capillare raccolta delle acque piovane, che una volta depurate, possono essere utilizzate per i consumi interni. L’architettura  di uno stadio si presta in modo ottimale anche per la sperimentazione di materiali innovativi, come le coperture in bioframe o strutture in alluminio. Non da meno sono la definizione di spazi e forme che consentano la ventilazione naturale e l’ uso di coperture che minimizzino la dispersione acustica verso l’ esterno a favore della concentrazione interna. La cultura della sostenibilità ambientale può non avere limiti: In Australia è stato recentemente realizzato uno stadio la cui copertura è stata appositamente progettata per non disturbare la nidificazione della avifauna locale.

La polifunzionalità. Da un lato lo stadio viene identificato come una realtà socialmente evoluta in grado di veicolare valori positivi, dall’altra l’area diventa maggiormente attrattiva per i pubblici target in quanto aumenta sia la qualità che la quantità delle potenziali scelte. A fronte di queste considerazioni, la struttura rappresenta quindi uno strumento in grado di produrre ricchezza. In questa fase emerge la necessità di un modello innovativo basato su un retail mix considerato più sensibile alla rivoluzione delle modalità  di consumo dell’era digitale. Nel concepire i futuri centri di aggregazione è necessario, secondo le ricerche più accreditate, considerare innanzitutto il cambio di ruolo che molte funzioni, una volta prevedibili all’interno di uno stadio, stanno subendo. 

Si è affievolita di molto la logica del  puro retail  (il tanto celebrato centro commerciale) accreditato nel recente passato come la panacea per rendere questi luoghi sostenibili. Oggi per avere maggiori possibilità di business è necessario creare curiosità e aspettativa, incrementando al massimo il flusso di visitatori, organizzando eventi e momenti d interesse collettivo.  Ovviamente una tale strategia non assicura come conseguenza la conversione dei visitatori in vendite, ma è un prerequisito inevitabile che trasforma le zone di retail in aree che fungano da magnete per la comunità. E quindi che l’evoluzione di questi luoghi all’interno dei loro perimetri passa sicuramente per il leisure e l’offerta esperienziale di vissuto nel tempo libero. Su questo versante emergono la ristorazione in tutte le declinazioni, partendo da una food and drink court basata su offerte multietniche, alla movida, alle mostre tematiche, al family entertainment, alla convegnistica, al coworking, ai budget hotel, alle spa e allo sport destrutturato.

Di conseguenza non esistono più solo i tifosi, ma un gran numero di persone interessate alla frequentazione del luogo che installano così nuove e diverse interazioni con il club e il suo brand.

Esistono legami deboli e legami forti, gli uni e gli altri possono generare business, ricavi e monetizzazione. Focalizzare la propria attenzione sui tifosi, tradizionalmente intesi, può limitare di molto il proprio bacino potenziale. Un brand aperto è un brand che non esclude, ma che propone ai propri interlocutori di partecipare ai propri valori, alla propria storia, alle proprie esperienze. Questa è la logica della community inclusiva, che presuppone e attiva comportamenti positivi di scelta, che innesca pratiche di consumo evolute e crea maggior interesse per gli sponsor. Questa logica dovrebbe, con il tempo, depotenziare il tema dell’ossessione del risultato sportivo, dell’aggressività che si concentra nel calcio e portare lo stadio a rappresentare quindi uno strumento in grado di produrre nuova ricchezza e  di generare valore…CONTINUA…

BIO: ANTONIO MARCHESI

Consulente di strategia aziendale, ha fondato e diretto per anni il segmento Sport Industry  di Deloitte in Italia.

Ha collaborato con la Uefa, la Figc, la Lega di A, la Lega  Pro e numerosi Club, tra cui FC Juventus, AS Roma, FC Bologna, SS  Lazio, Torino FC, US Lecce, FC Internazionale e AC Milan. In quest’ ultima società  è stato membro del  Consiglio di Amministrazione, con un  ruolo operativo nella definizione del nuovo assetto strategico e  di sviluppo in affiancamento al Vice Presidente – Amministratore Delegato.

Ha insegnato per oltre un decennio Gestione delle Aziende Sportive nell’Università di Torino e ha  tenuto lezioni ai principali Master dello Sport ( SBS, Mastersport Institute, Master FIFA ). Da 7 anni collabora con il Politecnico di Milano come coordinatore strategico per il  Master In Sport Design and Management. E’ autore di due libri  dalla collana Politecnica edita da Maggioli Editore e di numerose altre pubblicazioni in materia di Sport Business.

Attualmente è Senior Advisor per  Monitor Deloitte.

2 Responses

  1. Gli stadi come business sono un must per nazioni come Inghilterra e Spagna, al di la di questioni economiche, credo che in Italia il problema sia di tipo politico, pur portando, queste eventuali nuove strutture, soldi .

  2. San Siro è San Siro…
    Punto
    Come non puoi sostituire il Duomo…
    poi fate come volete ma agli intenditori di calcio di Milan e Inter sembrerà una bestiemmia

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