NILS LIEDHOLM: IL BARONE LIDDAS.

Quando mi parlano della gavetta, racconto sempre la mia prima volta a Milanello, la mia prima intervista a Nils Liedholm. Avevo 24 anni o giù di lì, ma 8 li avevo già spesi tra cronaca nera e sport.

Ero stato da poco assunto a “SuperGol”, il mensile diretto da Maurizio Mosca. Gli piacevano evidentemente la passione, la scrittura, i miei modi, ma comunque mi accompagnò. Mi presentò a Liedholm, scambiò due parole con lui, poi assistette all’intervista senza mai intervenire.

Il mese dopo fu quella la copertina: intervista esclusiva a Nils Liedholm. Allenava il Milan di Verza e Icardi, Evani e Tassotti. E di Filippo Galli. Il mio direttore Maurizio aveva voluto assistermi al battesimo nell’olimpo: grazie al suo rapporto con Nils e da quel giorno, anche il mio rapporto con quell’uomo così imponente, carismatico e imperscrutabile ebbe una svolta che portò alla stima e alla fiducia.

L’ultima volta che lo vidi ero con Mosca e andammo a trovarlo nella sua famosa tenuta di Cuccaro, nell’alessandrino. Ci raccontò l’ennesimo aneddoto inedito della sua vita sospesa tra favole e realtà, sempre comunque eclatante negli episodi e nei suoi racconti.

Disse che la Svezia stava preparando i Mondiali del ’58 e giocò un amichevole in autunno, in Austria se ricordo bene. In quella partita Liedholm si fece molto male e in ospedale gli diagnosticarono una frattura. Chiese ai medici di non rendere pubblica la cosa e – giuro che ci disse questo – andò avanti ad allenarsi e a giocare fino alla primavera successiva, quando dovette interrompere un allenamento per il dolore insopportabile. Qualche ora dopo l’allenatore lo incontrò: “Ho capito perché soffrivi così tanto, sei fratturato”. Lui finse stupore: “Ah, è frattura?”. 

Nella narrativa di quell’uomo svedese che – si diceva – parlasse un po’ male l’italiano (dopo mezzo secolo nel nostro Paese) apposta per usare e storpiare le parole a piacimento quale condimento alla sua ironia e alle sue metafore continue, gli episodi che lo riguardavano erano sempre eccezionali, straordinari.

Lui in gioventù era stato campione di polo, di pattinaggio, di sci, di hockey, non ricordo di quanti e quali altri sport, e solo alla fine aveva scelto il calcio.

Gli chiesi quale fosse stata la squadra più forte di tutti i tempi, rispose senza esitazione: “Svesia scinquantotto”, cioè la sua Nazionale ai Mondiali del ’58. “Ma la Svezia fu battuta in finale dal Brasile della stella nascente Pelè”, osservai. Lui sorrise: “Io uscito prima della fine”.

Ai tempi del Ma-Gi-Ca, il fenomenale trio del Napoli Maradona-Giordano-Careca, gli domandai quale fosse stato per lui il trio d’attacco più grande di sempre: “Charles-Martino-Praest della Juventus”, non esitò. Obiettai sorpreso: “Pensavo mi avrebbe risposto il Gre-No-Li, Gren-Nordahl-Liedholm del Milan…”. Sorrise, come al solito: “Tu chiesto trio attacco, noi forti tutto campo”.

Una sera era ospite negli studi televisivi di Mediaset alla vigilia di un PSV-Milan di Champions, i rossoneri erano allenati da Capello. Gli facemmo osservare che le due squadre adottavano lo stesso modulo, lui rispose: “Sì, però PSV da fermo. Milan si muove, anche”. 

Stemperava qualsiasi situazione, non conosceva picchi di rabbia né di euforia. Pacato, riflessivo, pungente, la realtà gli scivolava addosso, la raccoglieva e la incartava per rivenderla un tanto al chilo, a seconda delle necessità. Andò a Verona nel tentativo di salvare una squadra disperata, sull’orlo della retrocessione, anzi ormai con un piede e mezzo in serie B. Era un martedì quando diresse il primo allenamento. Il sabato, alla vigilia della partita, radunò la squadra gialloblù: “Sono 5 giorni che sto con voi, non ho più dubbi e adesso posso dirvelo: siete la squadra più forte che abbia mai allenato”, ma la bugia non funzionò e gli scaligeri retrocedettero.

Quando vinse l’agognato decimo scudetto milanista, quello della stella, la sera della penultima giornata (che regalò la certezza aritmetica del titolo) si recò con tutta la squadra ospite alla “Domenica Sportiva”. Credo che il conduttore fosse Alfredo Pigna, lo imbeccò: “Lei ha sostenuto per tutto il campionato che ci fossero avversari più forti di voi, che lo scudetto era un obiettivo fuori dalla vostra portata, ma alla squadra, ai suoi giocatori, quando ha detto che avrebbero potuto farcela?”.

Per una volta Nils restò serio: “Alla vigilia della prima giornata”, e tutto lo studio rise. Amante della “zona”, della tecnica, ma anche dei solisti di talento e fantasia (non ebbe mai paura nel far giocare insieme Rivera e Capello, in qualche occasione), fu uno dei primi a predicare il possesso-palla (“Finché l’abbiamo noi, non ce l’hanno gli avversari”, era il suo semplice assunto), tradendo qualche volta i princìpi per opportunismo.

Dopo uno Juventus-Milan in cui i rossoneri erano chiusi drasticamente dal pronostico, ma che finì a sorpresa in parità, un giornalista a fine partita lo punzecchiò: “Oggi ha rinnegato la zona facendo marcare Michel Platini a uomo da Filippo Galli”. Liedholm scosse il capo: “No, era Michel che andava sempre dove c’era Filippo”. 

Il suo paradosso più famoso era legato a quel lungo, infinito applauso che San Siro gli tributò (quando giocava nel Milan) “perché avevo appena sbagliato un passaggio dopo 2 anni che non ne sbagliavo uno”. La durata dell’applauso e il periodo in cui non aveva sbagliato un passaggio, variavano a seconda dei momenti in cui raccontava quella storia. Tutto ciò che lo riguardava era fenomenale. Gli chiesi se avesse mai segnato un’autorete, rispose: “Sì, una volta battei una punizione dal limite così forte che la palla picchiò contro la traversa, attraversò tutto il campo ed entrò nella nostra porta”.

Alla vigilia di un Fiorentina-Milan, tra i tanti dettagli che si curano prima di una partita, il team manager Silvano Ramaccioni – forse il più grande liedholmologo esistente – lo mise in guardia: “Dobbiamo stare attenti alle rimesse laterali di Massaro (che era in viola, ndr): sono lunghe come dei veri e propri cross”. Liddas, così era soprannominato, non si scompose: “Rimesse laterali lunghe? Certamente non possono essere come le mie”. “Perché, come erano le tue?”. “Una volta ho fatto una rimessa laterale con le mani così lunga, che la palla uscì dall’altra parte del campo”. Per una volta, Ramaccioni sbottò: “No, a questa non credo”. Allora Liedholm scosse il capo: “Ammetto che la palla toccò per terra, prima di uscire”.

Per Liddas l’espulsione di un suo uomo era un vantaggio “perché in 10 si gioca meglio”, la fama era fastidiosa “perché se passo col rosso, il vigile mi ferma e mi riconosce, non mi fa la multa”, l’oroscopo era tutto e “se devo scegliere tra due giocatori bravi nello stesso ruolo, schiero titolare quello dello Scorpione”: la scaramanzia era un rito continuo, infatti, dalle maglie che distribuiva lui negli spogliatoi, alle decine di amuleti che teneva in tasca, fino alla scelta dell’hotel dove trascorrere il ritiro “perché è un posto tranquillo dove cucinano bene il pesce”, salvo poi confessare che in verità voleva andare lì perché il titolare era un astrologo.  

Non si scomponeva dopo le sconfitte così come dopo i trionfi, e nemmeno davanti a uno scherzo che José Altafini aveva già fatto tempo prima a Nereo Rocco: si era chiuso, completamente nudo, nell’armadietto del Paròn. Quando Rocco, ignaro, lo aprì, Altafini lo spaventò e il tecnico lo insultò, gridando in triestino per parecchi minuti. José rifece lo scherzo qualche tempo dopo a Liedholm, solo che lo svedese non mosse un muscolo del viso, fissò Altafini e gli disse: “Questo non è il tuo armadietto”.

In ritiro a Vipiteno mi sorprese fumare una sigaretta dopo pranzo, sulla terrazza dell’hotel “Aquila nera”. Si avvicinò e gentilmente mi chiese: “Quanto fumi?”. Io mentii: “Una ogni tanto”. Annuì: “Da ragazzo ho avuto un allenatore che diceva: se vivi da vecchio quando sei giovane, puoi vivere da giovane quando sei vecchio”. Abbassai la testa. Lui concluse: “Io però ho sempre vissuto da vecchio”. 

E in effetti così era: da sempre saggio come un anziano, e infine anziano saggio, ma con una mente e idee rimaste sempre giovani da mantenerne vivo il ricordo lontano, come se fosse adesso. 

BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.

2 Responses

  1. È vera sta cosa dello scorpione, gli attaccanti li voleva dello scorpione, mentre gli altri della bilancia! Conosciuto personalmente nel gennaio del 98, faceva morire dal ridere.

  2. Come al solito,un grande ricordo del Barone. E oltre a questi , durante la cena fatta dagli ex di Milanello fatta 15 giorni fa a Parma , Francesco Vincenzi ex Milan con un percorso importante alla Roma , ne ha raccontati tanti di anedotti divertenti .
    Caro Luca , grazie come sempre per farci vivere questi grandissimi personaggi.

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