Pubblichiamo questa mia intervista rilasciata all’amico Luca Villani per la rivista di Aidp – Direzione del Personale 213 – giugno 2025.
Ringrazio la Direzione di Aidp e Luca per la gentile concessione e ringrazio Caterina Gozzoli, Edgardo Zanoli e Domenico Gualtieri fonti di ispirazione del mio percorso professionale.
Foto di copertina di Steven Berrevoets – The Van
INTERVISTA DI LUCA VILLANI – Partner – Managing Director at The Van Group:
«Ogni atleta è una persona che va considerata nella sua unicità e complessità. La fiducia? Si può costruire, delegando e premiando i comportamenti collaborativi». Filippo Galli, bandiera del Milan, poi allenatore e manager sportivo, parla di calcio ma fornisce spunti preziosi per chiunque gestisca un gruppo. E insiste sull’empatia, troppo spesso dimenticata o addirittura scambiata per debolezza
«Il talento si nutre dell’altro. È sempre un gioco di relazioni in cui ci si arricchisce a vicenda. Quindi un talento rende migliore chi gli sta intorno e migliora lui stesso nella relazione con gli altri». Quando ho letto questa frase sul libro “Il mio calcio eretico”, pubblicato da Mondadori nel 2024, l’ho sottolineata molte volte. Mi sembrava che dentro ci fosse molto di quello che serve sapere non solo sul calcio o sullo sport, ma anche sulla gestione di un gruppo o di un’azienda. L’autore è Filippo Galli – uno degli Immortali del Milan di Arrigo Sacchi, uno degli eroi della finale di Atene contro il Barcellona – titolare di un palmares che mette soggezione: cinque scudetti, tre Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, tre Supercoppe Europee, quattro Supercoppe Italiane.
Un’unica, lunga carriera
Quando, a quarant’anni, Galli si è ritirato dal calcio giocato non si è chiusa la sua carriera di atleta, ma piuttosto il secondo atto di un’unica carriera umana e sportiva straordinaria, quasi simbolicamente suddivisa in periodi di vent’anni: nei suoi primi vent’anni, Galli si è formato, in famiglia, a scuola e sul campo, per diventare un giovane atleta maturo e affidabile; tanto da accedere ai secondi venti, nei quali è stato il calciatore che conosciamo, incapace di separarsi dal rettangolo verde e attraversandolo in ogni sua traiettoria, dai fasti del Milan di Berlusconi alla Pro Sesto allenata dall’amico Stefano Eranio, passando per il fascino British del Watford di Elton John nella seconda serie inglese; nel terzo atto è stato prima un allenatore, poi un manager (responsabile del settore giovanile del Milan per nove anni) e un metodologo; oggi, ufficialmente fuori dal mondo del calcio, è ancora uno degli esperti più richiesti dai media per la sua obiettività (mentre parliamo, una troupe della Rai viene a chiedergli un ricordo del grande Bruno Pizzul), autore di libri, editore di un blog seguitissimo, studioso caparbio e curioso di tutto ciò che riguarda la gestione degli atleti, docente e speaker capace di affascinare qualunque platea, agganciandola con aneddoti su Maradona e Van Basten e poi portandola a spasso su sentieri inaspettati parlando di relazione, di fiducia, di responsabilità, di libertà.
È per tutte queste ragioni, intrecciate in modo inestricabile, che ho chiesto a Filippo Galli la sua disponibilità a parlare di che cos’è un gruppo, di che cos’hanno in comune una squadra e un’azienda, un allenatore e un amministratore delegato. Non è stato facile: non per mancanza di argomenti, ma al contrario, per eccesso. La vita di Galli è un repertorio infinito (e tenuto in ordine da una memoria precisissima, organizzata per stagioni calcistiche) di volti, persone, storie, insegnamenti.
«Per me il calcio è innanzitutto relazione. Io parto dall’idea che ogni calciatore, dal bambino all’adulto, sia un individuo che ha bisogno degli altri per imparare, per esprimersi. Nel film “Il mio amico Eric”, il protagonista chiede al suo idolo, l’ex-calciatore Eric Cantona, che gli appare in una sorta di sogno a occhi aperti per infondergli fiducia, quale sia il suo ricordo più bello e gli snocciola tutti i suoi gol con incredibile precisione. E Cantona gli risponde che “no, il mio ricordo più bello non è un gol: è un passaggio. Perché il passaggio è credere nel tuo compagno, è fiducia”».
Fiducia è una parola molto citata nelle aziende, ma forse ancora poco praticata. Dipende da come sono fatti i manager?
«Nelle organizzazioni prevale un approccio culturale molto gerarchico e “riduzionista”, nel senso che scompone le competenze per poterle controllare meglio: in questo modo nelle aziende abbiamo manager molto tecnici, magari ottimi amministratori, ma spesso poco attenti all’empatia, che invece è indispensabile per costruire un clima di fiducia. Diceva il filosofo francese Edgar Morin, che per il lavoro mio e dei miei colleghi con i quali ho costruito il mio approccio metodologico, Caterina Gozzoli, Edgardo Zanoli e Domenico Gualtieri, è stato una rivelazione e una costante fonte di ispirazione: la complessità va accettata, le parti devono essere considerate nel loro insieme».
E il rischio di un clima governato dalla gerarchia e non dalla fiducia è quello di perdersi il contributo di quelle persone che non si sentono abbastanza tutelate per esporsi.
«Esatto. In climi gerarchici e chiusi il rischio è quello della “stupidità funzionale”: non capisco ma eseguo, perché penso che alla fine mi convenga. Perché attenzione, la gerarchia fa paura ma anche la libertà ne fa molta: la libertà implica responsabilità e non tutti la vogliono, perché poi rispondi delle tue scelte. Quindi la fiducia non basta evocarla, bisogna davvero costruirla».
E come si fa a costruire un ambiente di lavoro basato sulla fiducia?
«Insisto sul valore della relazione come modalità di crescita. Bisogna premiare il fatto di essere collaborativi. Sembra paradossale, ma se ci pensi ha più valore chiedere aiuto che dare aiuto: perché chiedere aiuto richiede coraggio, specie in un mondo dominato dall’idea della forza, dell’autosufficienza (e in questo calcio e azienda a volte sono simili), apre la relazione, libera energie. E poi bisogna saper dare feedback nel modo corretto: la valutazione non è un giudizio, è un accompagnamento, un lavoro che dura nel tempo. Se io, da responsabile del settore giovanile, parlo con un mio allenatore il primo di luglio, gli spiego quello che mi aspetto, e poi a giugno dell’anno successivo lo valuto sulla base del risultato sportivo, nessuno dei due cresce, è un fallimento».
Si potrebbe obiettare che la relazione è impegnativa, perché se io do lo stesso input a tutti ci metto un certo tempo; se invece quell’input lo do a ciascuno, ci metto un tempo moltiplicato per il numero delle persone.
«Certo, però permettimi di dire che se vuoi essere un leader ormai questo impegno deve essere messo in conto. Ognuno è uno, ognuno è diverso, questo è un fatto, non lo decidiamo noi. E allora qui entra in gioco chi vuoi essere e di che persone vuoi circondarti: se vuoi guidare le persone con la gerarchia e la paura, prego. Ma, di nuovo, questo non fa crescere nessuno, nemmeno il leader, che ha bisogno di essere stimolato, incalzato da persone che si sentano libere».
Questa è una competenza che si può imparare?
«Io credo di sì. Se penso ad esempio all’esperienza di un allenatore, che è responsabile di molte persone, c’è un momento decisivo che è la riunione di staff. L’allenatore è il responsabile ultimo, ma ogni membro dello staff è il leader per quanto riguarda la sua parte: per prendere la decisione corretta su chi mettere in campo o quale struttura dare all’allenamento, l’allenatore deve ascoltare il preparatore atletico, lo psicologo, il nutrizionista, gli analisti. In questo modo si forma una leadership più corale, che allena il leader ad ascoltare e i suoi riporti ad assumersi responsabilità, a diventare anch’essi leader. Mi pare un approccio praticabile anche in azienda».
Abbiamo parlato di allenatori: che cosa c’è dietro il mito di Ancelotti, il “leader calmo”, vincente e benvoluto da tutti? Cosa possiamo imparare da lui?
«Sono stato suo compagno di squadra per cinque anni e suo assistente per una stagione, che per me è stata come un master. Da quello che ho capito, anche continuando a seguirlo da lontano, ci sono diverse cose da dire: in primo luogo Carlo è un profondissimo conoscitore del calcio, e per un leader la competenza è importante; poi si è circondato di persone giovani e capaci che hanno introdotto competenze complementari alle sue: tecnologia, video, analisi dei dati, non ha avuto paura del nuovo e del talento degli altri; infine, e soprattutto, è un campione di empatia, sa mettersi nei panni dell’altro: a volte può alzare la voce, anche se da fuori non sembra, ma poi è bravo a ricucire».
Quest’ultimo punto è interessante: a chi tocca fare il primo passo dopo un conflitto?
«A chi sta più in alto, è ovvio. Per lui è più facile, ma spesso non si fa perché, ancora una volta, si confonde l’attenzione, la cura, con la debolezza. Da responsabile ho visto tante volte un allenatore discutere con un componente dello staff o con un giocatore, allora andavo dall’allenatore a chiedergli notizie e la risposta spesso era: “Per me è tutto a posto”. Bravo, per te è tutto a posto. E per l’altro? Come fai a sapere che la cosa non ha lasciato strascichi, incomprensioni, ferite, tanto più in un ragazzo giovane? Anche questo è compito di un leader, invece di arroccarsi nella sua presunta posizione di forza».
Nelle aziende un’altra parola molto diffusa, direi quasi di moda, è l’engagement, cioè l’adesione all’azienda non solo su basi utilitaristiche, ma anche per una condivisione di valori. Che cosa possiamo imparare dallo sport, in questo senso?
«In una squadra è difficile tenere tutti coinvolti, specialmente quelli che giocano meno. Però si possono fare alcune cose. Uno, trovare obiettivi individuali, diversi, per tenere ognuno agganciato al progetto: per qualcuno può essere il perfezionamento di un gesto tecnico, per un altro un miglioramento atletico, per un altro ancora la capacità di mantenere la concentrazione: ognuno ha il suo obiettivo sul quale ci confrontiamo periodicamente, non lasciamo nessuno in un angolo. Due, dare feedback: il feedback è indispensabile, perché tutti abbiamo bisogno di sapere come stiamo andando e, come dicevamo prima, il feedback è un percorso, un accompagnamento, e non un giudizio insindacabile. Tre: insisto sulla relazione, sulla conoscenza delle persone, perché la relazione è il canale attraverso cui passa l’educazione. Io ho visto Silvio Berlusconi in azione in contesti extra-calcistici e devo dire che da questo punto di vista era un fuoriclasse: l’attenzione, la preparazione, la cura dei particolari che metteva in ogni sua relazione era inimmaginabile. Sapeva tutto di tutti. Era frutto di un lavoro studiato a tavolino? Può darsi, anzi, meglio: di certo con lui le persone si sentivano oggetto di attenzione».
A proposito di esempi: nello sport il concetto di esempio è molto citato. Il caso classico è quello del giocatore che racconta di quando è arrivato in un grande club e ha visto i veterani, quelli che non devono dimostrare più niente, allenarsi meglio di tutti. Probabilmente tu sei stato uno di quegli esempi.
«L’esempio è la coincidenza fra il dichiarato e l’agito ed è una leva molto potente. Io credo di essermi sempre allenato molto bene, con grande focalizzazione: anche, anzi, soprattutto, quando sapevo che la domenica non avrei giocato. Perché è così importante? Perché se ti alleni bene non stai bene solo tu, ma svolgi un ruolo di contaminazione positiva: costringi l’allenatore a ponderare meglio le sue scelte, lo metti in difficoltà, come si usa dire; poi costringi il tuo concorrente per quella maglia, che nel mio caso al Milan era tipicamente Billy Costacurta, ad allenarsi ancora meglio; infine alzi l’intensità complessiva dell’allenamento, a beneficio di tutto il gruppo. Contribuisci a far passare le persone dalla zona di comfort a quella che il pedagogo russo Vygotskij definiva la zona di sviluppo prossimale, quella in cui si impara».
Credi che l’esempio virtuoso che contamina tutto l’ambiente possa funzionare anche in azienda? E come?
«Credo che lo si possa fare in due modi: il primo è dichiarando nei momenti istituzionali, come quelli di formazione, uno stile di leadership aperta, collaborativa, che ha come obiettivo il miglioramento collettivo. In secondo luogo, facendolo. Pensiamo al concetto della delega: qual è la parte che un manager delega? Se delega le cose meno importanti, non sta dando un esempio positivo. Se invece delega mansioni strategiche e ne accompagna lo svolgimento con i suoi suggerimenti, ecco che sta facendo crescere tutta la squadra. Io ho visto allenatori del settore giovanile che, vuoi per carattere, vuoi per cultura, all’inizio della stagione non si sarebbero mai sentiti in grado di esprimere il loro parere, le loro idee, il loro vissuto, e che alla fine dell’anno spiegavano un movimento o un esercizio davanti a settanta colleghi: per me questo, la crescita del capitale umano, è il ruolo di un manager. E conta più di uno scudetto».

BIO: Luca Villani è nato a Milano il 31 gennaio 1965. Giornalista professionista, oggi si occupa di comunicazione aziendale e insegna all’Università del Piemonte Orientale. Tifoso milanista da sempre, ha sviluppato negli anni una inspiegabile passione per il calcio giovanile e in particolare per la Primavera rossonera. Una volta Kakà lo ha citato in un suo post su Instagram e da quel momento non è più lo stesso.
Una risposta
La verve, le capacità, le doti innate unitamente alla maestria dettata da trainers innovativi e veri monumenti calcistici viventi, hanno portato a lievitazione ottimale quell’autentico difensore che si onoro’ nei 14 anni di permanenza al Milan (217 presenze/3 gol) di fregiarsi del titolo di Invincibile (ed io personalmente aggiungerei
“Inpentrabile” date le sue asfissianti marcature) monzese di nascita ma puro sangue Rossonero nelle vene è sicuramente uno dei maggiori calciatori a non aver mai appeso al famoso chiodo gli scarpini!
Da oltre un ventennio continua ad insegnare e parlare di calcio, quello vero, come pochi, pochissimi sanno proporre ed applicare sul campo e fuori!
Grandissimo Filippo! Chapeau!
Il nostro Milan dovrebbe avere, in ogni ruolo, sul terreno, spogliatoio e scrivanie uomini del tuo stampo!
Un particolare ringraziamento a Luca Villani per questa preziosissima intervista.
Un caro abbraccio.
Massimo Baldoni