GIANNI RIVERA: IL ROMANZO DI UNA STELLA.

Una grande fortuna, bisogna ammetterlo: nascere a Milano nel 1961, scoprire presto la passione per il calcio, crescere nella città dove approda Gianni Rivera da Alessandria. Una grande fortuna anche avere un cugino di nome Antonio, che forzò la mia scelta: in quel periodo per me il pallone era il cortile di cemento delle elementari e l’oratorio tutti i i pomeriggi e nei weekend. In tv la domenica andavano in onda solo un tempo di una partita e i gol delle altre gare, poi i servizi alla “Domenica Sportiva” che andava in onda un po’ tardi per uno scolaretto: se saltavi quell’appuntamento (che non si poteva registrare), dovevi accontentarti per una settimana dei racconti, delle cronache dei quotidiani. 

Tutti parlavano di Rivera e Mazzola, Mazzola e Rivera, stelle e capitani del Milan e dell’Inter. Io volevo solo andare a San Siro per vederli da vicino, non importava quale dei due. Mio cugino Antonio propose ai miei genitori di portarmi allo stadio, partita di coppa in notturna durante le prime feste di dicembre, Sant’Ambrogio. Giocavano i rossoneri, Antonio era milanista così oltre al biglietto mi regalò una maglietta da indossare per l’evento, ma non ero molto convinto: all’oratorio conoscevo un bambinetto secco e foruncoloso, era del Foggia e aveva sempre addosso la maglietta rossonera di quella squadra. 

Ciò che quella sera indirizzò la mia passione fu la gente: non ho mai rammentato con quale risultato terminò né quale avversario fosse di fronte al Milan, non mandai a memoria nemmeno un’azione di quella gara internazionale, stregato com’ero dalle luci, dai cori, dalla gente, dai colori. Quello che ho sempre ricordato sono i boati di estasi, gli applausi, le ovazioni per Gianni Rivera: mi pareva che per un’ora e mezza tutta San Siro parlasse solo di lui, si esaltasse solo per lui. All’uscita vidi in un chiosco il poster a grandezza naturale del capitano del Milan. Chiesi ad Antonio un ultimo regalo, me lo comprò.

Quel poster è rimasto appeso nella mia camera per 30 anni, fino a quando ormai era troppo consunto e non bastavano più i metri di scotch per tenerlo insieme. Sul retro, oltre a qualche altra fotografia, a caratteri cubitali c’era stampata una frase dell’allenatore Nereo Rocco: “Il Milan con Rivera è una cosa, senza Rivera è un’altra”. 

Ero ragazzino e benché leggessi e sentissi che quel fuoriclasse immenso non corresse molto, che altri come Lodetti, Benetti, Biasiolo corressero in campo per lui, a me sembrava che sullo scatto li lasciasse sempre lì. Forse erano quelle sue finte ondeggiate, forse era quel suo tocco vellutato che li ipnotizzava, forse era il suo incedere elegante, o la rapidità e la precisione con cui metteva il pallone sui piedi dei compagni, da qualsiasi posizione, da qualsiasi distanza.

Anche i suoi gol non erano mai banali, nessuna sua giocata era normale. Ho visto Mazzola, Pelé, Maradona, Van Basten, Cruijff, Platini… Non starò a dire se fosse più forte l’uno o l’altro o chi, per certo posso dire che per me il calcio era Rivera: semplice, puro, essenziale, così lo faceva apparire. Maradona si capiva che era eccezionale, fuori dagli schemi, inimitabile. Guardando Rivera invece si aveva la sensazione che fosse possibile. Solo giocando capivi che era tutto possibile solo a lui, quello che faceva, e agli altri no. Tutte le grandi stelle che ho visto nella mia vita giocavano, Rivera danzava. Fluttuava con la palla attaccata alla scarpa, fino all’attimo in cui la ritrovavi esattamente sulla testa o sul piede di un compagno che avrebbe segnato. In realtà, le prime partite che ricordo bene sono quelle della Nazionale azzurra ai Mondiali di Messico ’70. Avevo 9 anni e le guardavamo con i miei genitori e le mie sorelle, qualche volta sul balcone perché era estate. La sera di Italia-Germania il mio amore per Rivera divenne folle dopo il suo epico gol del 4-3. 

L’ho conosciuto quando avevo 12 o 13 anni. Un altro colpo di fortuna indicibile: abitavo non lontano da casa dei suoi e una sera vidi il pullman del Milan fermarsi a un semaforo. Scese Rivera. Feci uno scatto felino e mi piantai davanti a lui: “Signor Rivera, per favore, un autografo”. Sorrise: “Hai un foglietto e una penna?” Non avevo nulla. Fece riaprire le porte del pullman e chiese all’autista di dargli un foglio e una penna. Mi fece l’autografo e al mio quinto “grazie!” rise ancora, allontanandosi a piedi. Confesso che una decina di anni dopo, quando già avevo iniziato il mio percorso di giornalista e Maurizio Mosca mi mandò alla sede di via Turati per intervistarlo, ero emozionato e agitato. Nel frattempo mi era capitato di intervistare, per una televisione privata di Brescia, personaggi grandissimi come Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Isabella Biagini, Gastone Moschin, Riccardo Cucciolla, Adolfo Celi, ma anche sportivi come Sara Simeoni, Azeglio Vicini, Gigi Simoni, Beccalossi e Altobelli. Facendo cronaca, in occasione di una visita del Papa in piazza Loggia avevo persino sfondato il cordone di sicurezza allungando il microfono sotto il mento di Karol Wojtyla: mi riconobbe un vigile evitandomi l’arresto e consentendo al Pontefice di dare una risposta telegrafica che fu il primo grande scoop della mia carriera.

Eppure. Eppure quella mattina in sala d’attesa il cuore batteva forte e le mani un po’ mi tremavano. Rivera era dirigente sotto la presidenza di Giussy Farina, la sua segretaria mi accompagnò puntuale nell’ufficio del Golden boy (lo avevano soprannominato così essendo stato il primo italiano a vincere il Pallone d’oro, nel 1969) e lui fu molto affabile, disponibile. Mi mise subito a mio agio (“Come sta Maurizio?”), forse anche perché appena prima di iniziare gli raccontai tutto quello che ho scritto fino adesso, dal poster fino all’autografo…

Ci siamo incontrati molte altre volte, sempre con affetto, con cordialità. Quando conobbi ed entrai addirittura in confidenza con Gianni Brera, gli rinfacciai benevolmente il soprannome di Abatino che aveva dato al mio piccolo dio del calcio, ma Brera mi rassicurò dicendomi che il suo rapporto con Rivera era molto cordiale. Ebbi l’impressione che in realtà tollerasse meno il carattere rispetto alla classe divina del calciatore. Rivera infatti era noto per le sue battaglie contro il sistema, gli arbitri, la Juve despota e persino contro il suo presidente Albino Buticchi che l’aveva offerto al Torino: fu il primo e quasi sicuramente unico caso nella storia del calcio, in cui un giocatore fu capace di mandar via il presidente. Del resto aveva dalla sua parte tutto il popolo rossonero a sostenerlo, sorreggerlo e incoraggiarlo in questo strano tipo di impresa.

Ricordo la rabbia che provai quando arrivò in panchina Pippo Marchioro e costrinse Rivera a svestire la maglia numero 10 per la numero 7, spostandolo all’ala destra. Un’ignominia che – tra le altre – condusse la squadra nel baratro della lotta per la salvezza e fu solo il ritorno di Nereo Rocco a evitare la retrocessione. Non solo: alla fine di quella stessa stagione vinse la Coppa Italia, battendo in finale 2-0 l’Inter nell’ultima partita della carriera di Sandro Mazzola.

Ricordo l’amarezza di Giovanni Lodetti, che ha organizzato tanti incontri con gli ex compagni di squadra, ai quali però Rivera non è andato mai.

Ho scritto di recente un articolo sull’ultimo triste atto del romanzo tra Rivera e il Milan, la causa contro il club per avere i diritti sull’esposizione di alcune cose, tra cui una scultura, al Museo di San Siro:

“Mesto e inadeguato, mi sento un po’ blasfemo nello scuotere la testa scrivendo oggi del mio piccolo dio: Rivera per me è stato il calcio, l’essenza, l’inarrivabile (…). Da qualsiasi lato la si legga, da ogni prospettiva la si osservi, la vicenda stende sotto ai piedi uno sgualcito, miserabile tappeto di tristezza (…). Quella sera con mio cugino Antonio fu come andare a un concerto di Morricone: fenomenale l’orchestra, strepitosa la cantante, splendido il teatro, ma il centro del mondo era lui, Ennio. Come Gianni. Lui era la musica, lui era il calcio. Oggi è un’altra cosa, oggi è un’altra musica”. 

I club, le leggende, le bandiere, le epoche, gli idoli, passano. Poi restano gli uomini, con le loro storie grandi o piccole. 

BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.

7 Responses

  1. Ragazzetto del 1963.
    Gianni come Rivera…
    Per me il Verbo…
    Quanto calcio ho giocato sui campetti del Gratosoglio, con la maglietta numero 10.
    Il DIECI era solo lui. Una folgorante stella che ci ha accecato tutti. Articolo bellissimo

  2. Gianni Rivera, per me, è stato il più grande giocatore italiano e, per la precisione dei passaggi, il numero uno al mondo

  3. Solo un appunto non capisco perché si dica che RIVERA HA VINTO IL PALLONE D’ORO NEL 1969 SENZA SPECIFICARE CHE QUELLO È IL SUO SECONDO PALLONE D’ORO VISTO CHE IL PRIMO LO HA VINTO NEL 1963 E DA LI CHE NASCE L’APPELLATIVO NINIO DE OR AVEVA SOLO 19 ANNI TANTI CALCIATORI A QUELL’ETÀ GIOCANO ANCORA CON I SOLDATINI….DA UN TIFOSO DI RIVERA NON ME LO ASPETTAVO….

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