MENO MALE CHE SILVIO (BALDINI) C’È

Ho avuto il privilegio, ché tale resta, di seguire le gesta di Silvio Baldini prima che il suo nome salisse agli onori delle cronache. Si parlava, con pudore e ammirazione, della Carrarese, squadra di provincia e di frontiera. Bastava poco: qualche trafiletto sui giornali, spezzoni rubati tra le immagini sfocate di 90° minuto, e già si intuiva la presenza di un tecnico diverso, di un pensiero non ancora allineato alla moda del tempo.

Poi venne il salto col Chievo, in Serie B, negli anni che precedettero di poco la nascita dei Mussi Volanti. Baldini non cavalcava miracoli: li preparava con metodo e ideologia. E da lì, il passo verso l’attenzione del grande pubblico fu breve. Fu a Brescia, con una squadra brulicante di volti e storie, che il suo nome cominciò a diffondersi nei bar e nelle rubriche degli intenditori. C’erano Filippo Galli, monumento difensivo; Lele Adani, ancora calciatore pensante; Bonera, Diana, Banin, Ráducioiu, i gemelli Filippini, i compianti Mero e Kovacic, che oggi abiteranno per sempre nel rimpianto. C’era Dario Hübner, detto Tatanka, l’ultimo centravanti da tabacco e osteria, e c’era anche Carmine Nunziata, CT dell’Under 21 che ha ceduto proprio a Baldini il testimone.

Fu a Empoli, però, che Baldini codificò la propria dottrina. Il suo 4-2-3-1, quando ancora era forma eretica, divenne sigillo riconoscibile, come la firma di un pittore su tela grezza. Giocare dal basso, oggi dogma, era allora atto di coraggio. Baldini chiedeva ai suoi di pensare in verticale, di orientarsi subito verso la profondità, come se il campo fosse inclinato verso la porta avversaria. Il suo disegno tattico si fondava su due interni di lotta e governo a cui era affidato il compito di proteggere la linea difensiva e raccogliere le cosiddette seconde palle, nutrimento primario per ogni tentativo di manovra. Davanti a loro, quattro riferimenti offensivi con licenza di aggredire lo spazio. Maccarone, Di Natale, Marchionni, Buscè, Rocchi, Cappellini: tutti giocatori trasformati in attaccanti pensanti. Baldini chiedeva onestà tattica e coraggio verticale.

Diversi suoi ex giocatori lo hanno detto con voce stentorea, e lo hanno ripetuto con la genuinità di chi ha condiviso campo e spogliatoio: Silvio Baldini è uno dei migliori allenatori di campo che il calcio italiano abbia conosciuto. Non il migliore nei salotti, né il più adatto alla diplomazia federale, ma certo tra i più preparati nell’arte della disposizione tattica e della relazione empatica. Massimo Maccarone, Francesco Tavano, Lele Adani — che prima di vestire i panni del paludato opinionista è stato vice di Baldini a Vicenza — hanno sempre sostenuto, con quella loro inesausta ammirazione, il paragone con Marcelo Bielsa. E Baldini, che rifugge le adulazioni con la stessa naturalezza con cui bestemmia da toscano credente (sì, il Nostro è la quintessenza dell’ossimoro), ha accettato solo una parte di quell’accostamento: l’essere anch’egli loco. Per l’argentino è soprannome folklorico; per Baldini è essenza.

A Palermo ebbe il coraggio di dimettersi dopo una lite fragorosa con Maurizio Zamparini, presidente imprevedibile e accentratore. Non era tanto il dissenso tecnico quanto una questione d’anima, ché Baldini, uomo di sostanza più che di diplomazia, rifiutava l’idea di allenare senza la pienezza del proprio sentire. Gli addii, con lui, erano sempre più definitivi del previsto, e più coerenti di quanto appaia.

Celebre fu anche il suo alterco con Luciano Spalletti, amico e toscanaccio come lui. L’Udinese, allora guidata da Spalletti, rifilò un rotondo 4-0 al Parma in dieci uomini. E Baldini, con un misto di amarezza e ironia, accusò pubblicamente l’amico di aver infierito. Non era una questione di risultato, ma di misura, di cavalleria. Cose che oggi paiono retaggio d’un calcio sorpassato, ma che in Baldini avevano ancora valore etico.

Appena sbarcato a Lecce, si presentò alla stampa con una frase che pareva una massima stoica: “La speranza dà il coraggio, il coraggio dà entusiasmo”. Parole d’altri tempi, che oggi non abitano più le conferenze stampa. Ma il campo, come spesso accade, non rispose con la stessa poesia. Gli obiettivi mancati e la separazione silenziosa segnarono un’altra tappa di un percorso mai addomesticabile.

Poi c’è il calcio nel fondoschiena a Mimmo Di Carlo, il gesto che lo condannò a lungo al fraintendimento. Catania-Parma, 2007. Un gesto deprecabile e stigmatizzato dai perbenisti da tastiera. Un gesto figlio di un carattere impastato di passione ed esasperazione. Nel 2014, riguardando il proprio percorso con lucidità, Baldini questo celebre episodio come punto di svolta in negativo della sua carriera. “Quando arrivi in alto, devi sapere gestire ciò che possiedi. Dopo quel gesto, non sono più riuscito a trasmettere alle mie squadre ciò che avevo dentro. Forse il calcio, a Di Carlo, avrei dovuto darlo in testa e non sul sedere. Visti i risultati, e vista la persona che è”.

Ecco: quella frase è più Baldini di ogni analisi tattica. C’è la rabbia, l’autocritica, l’ironia corrosiva e quell’insofferenza tutta sua per il compromesso. Baldini è uomo d’altri tempi e altre temperature, sospeso in una temperie alchemica fatta di istinto e Vangelo, di calcio e provvidenza, di schemi e coscienza. Ha vissuto tutta la sua carriera, e forse anche tutta la sua esistenza, da uomo che non ha più filtri da esibire.

Neppure nei giorni in cui festeggiava la promozione in Serie B ottenuta con il Palermo riuscì a trattenersi. A caldo, tra un abbraccio e l’altro ai suoi calciatori, non ci si poteva attendere da lui una chiacchiera di circostanza, una celebrazione istituzionale, magari qualche frase da titolo. Come ampiamente prevedibile, Silvio partì per la tangente. Un discorso pieno di solecismi e illuminazioni, che virava sulle affinità elettive con la cultura palermitana, sulla punizione sociale che, a suo dire, l’isola infligge al vecchio che si accompagna alla ragazzina. Sulla necessità, quasi evangelica, che l’umanità sofferente accetti il codice morale in vigore nel luogo in cui vive. Un monologo anarchico, disordinato, eppure autentico.

Baldini non si è mai piegato alla grammatica del sistema. A tratti ha pagato il prezzo della sua intransigenza. Ma proprio in questa sua tensione irrisolta fra fede e passione, fra dottrina e caos, fra regola e intuizione, risiede il suo mistero più profondo. Allenatore nel senso più pieno del termine: non uno che addestra, ma uno che accompagna. Verso qualcosa che ha a che fare più con l’essere che con il vincere. E forse, a suo modo, ha vinto così.

Il calcio di Baldini, a vederlo oggi, pare anticipazione più che nostalgia. E come spesso accade con i pensatori disallineati, è stato più capito dopo che durante. Ma chi lo ha visto da vicino, chi lo ha seguito dalla Carrarese fino al Pescara, sa che dietro quella voce ruvida da toscanaccio e quelle uscite dissonanti c’era, e c’è, una coerenza incrollabile e un’idea di calcio nutrita da etica e libertà. E non è poco, di questi tempi.

Silvio Baldini sarà il nuovo commissario tecnico dell’Under 21. L’obiettivo è chiaro, ma ambizioso: riportare gli Azzurrini alle Olimpiadi, da cui manchiamo dal 2008, quando arrivammo ai quarti. Da allora, più di quindici anni di silenzi, errori e occasioni perse, con vertici federali che — tra l’era Tavecchio e l’era Gravina — hanno fatto più danni della grandine.

Baldini non è uomo da poltrone né da congiure di corridoio. Fiero, solitario, allergico al compromesso, si è autodefinito “anarchico”. E non è difficile credergli. Non ha accettato per soldi, né per gloria. Men che meno per deferenza verso i piani alti. Ha accettato perché il campo lo chiama. Perché lavorare con i giovani non è un obbligo, ma un’energia, e perché a 67 anni ha ancora il desiderio di rimettersi in discussione, di ascoltare, correggere, forgiare.

L’ultima stagione, al Pescara, ha lanciato il 2009 Antonio Arena, italo-australiano. Non un caso. Baldini sogna un’autarchia tutta sua, un’idea che parte dai fondamentali e arriva al pensiero. E se l’Italia ha ancora un futuro calcistico, nonostante una Nazionale maggiore che, tolto l’Europeo 2021, annaspa da anni tra illusioni e ripartenze zoppicanti, quel futuro ha bisogno di figure come lui. Vere. Autentiche. Anche se, a volte, scomode.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

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