IL SOTTILE CONFINE TRA TRIONFO E DISFATTA

Le valutazioni nel calcio sono eccessivamente condizionate dai risultati. Il sottoscritto ama ripetere come un mantra che, ai fini di una valutazione obiettiva e onnicomprensiva, non conta tanto il risultato in sé bensì il come viene raggiunto quel risultato.

I pagellisti sembrano ignorare troppo spesso questi annessi e connessi. Lo stesso avviene quando si tratta di valutare la stagione di un determinato allenatore o di una determinata squadra. Nel calcio, sport supremo delle passioni popolari, c’è un dogma che resiste a ogni tentativo di razionalizzazione: il risultato comanda. Il resto – il gioco, il merito, la sfortuna, gli episodi – è un orpello per filosofi e perdenti. Ma chi scrive, con il cappello da redattore e non da tifoso, sente il dovere di contestare questa dittatura del punteggio. Perché se è vero che il risultato è il fine, è altrettanto vero che il percorso per raggiungerlo ne rivela la verità più profonda.

Il pallone si compone di mille sfumature che il semplice 1-0 o 2-2 non riesce a restituire. Eppure, da qualche decennio, abbiamo smesso di giudicare col bilancino e abbiamo iniziato a giudicare col tamburo. Vince? Eroe. Perde? Somaro. Pareggia? Inutile. Questo semplicismo, figlio di una pigrizia intellettuale e di un giornalismo urlato, ha distrutto la possibilità di comprendere davvero le vicende sportive.

Prendiamo un caso recente. L’Inter ha perso lo scudetto alla penultima giornata. Un rigore assegnato alla Lazio per un ingenuo tocco di braccio di Bisseck è stato decisivo per le sorti della Serie A. Nello stesso turno il Napoli di Conte non è andato oltre il pari col Parma, ma grazie al punticino di vantaggio e al risultato dell’ultima giornata ha trionfato. Conte diventa profeta, Simone Inzaghi il ciarlatano. Nessuno sembra ricordare che l’Inter era a pochi minuti dallo scudetto, né che le partite tra le due compagini sono state all’insegna dell’equilibrio. L’analisi si ferma al tabellino.

Questo criterio semplicistico ha rovinato la narrazione di tanti uomini di calcio. Cesare Maldini, per esempio, fu crocifisso al Mondiale del 1998 per l’uscita ai quarti contro la Francia. Ma basterebbe rivedere l’azione nei supplementari: Roberto Baggio, col suo piede destro ormai stanco e poco fortunato, calcia di poco a lato il gol che avrebbe mandato a casa Zidane & Co. Se quel pallone fosse entrato, oggi parleremmo di Maldini senior condottiero, Maldini junior capitano leggendario e di Baggio reincarnazione divina. Eppure si scelse la scorciatoia: fuori ai quarti? Fallimento, almeno parziale. Niente discussione, niente contesto.

Oppure pensiamo al povero Dino Zoff, eroe mondiale nel 1982, ridotto a capro espiatorio all’Europeo del 2000. La sua Italia, ordinata e cinica, stava per vincere il trofeo contro la Francia campione del mondo in carica. Poi, nei secondi finali, Wiltord pareggia. Ai supplementari, Trezeguet segna la rete che mette fine alle ostilità. Une fetta di stampa, sempre affamata di vittime, si scaglia su Zoff, reo di “aver fatto catenaccio nel finale”. Nessuno che noti come in finale l’Italia avesse giocato un calcio tutt’altro che difensivo, andando più volte vicina al raddoppio.

All’opposto, celebriamo con l’inchiostro dorato chi ha avuto dalla sorte la carezza della benevolenza. Marcello Lippi, per carità, resta un grande stratega, ma la sua Italia del 2006 ha rischiato l’eliminazione contro l’Australia agli ottavi. Rimasta in dieci per l’espulsione di Materazzi, la Nazionale fu tenuta a galla da un rigore contestato, conquistato da Grosso e trasformato da Totti all’ultimo secondo dei tempi regolamentari. Nessun titolo recitava “Italia in difficoltà”, “Lippi fortunato”, “Arbitro decisivo”. No, l’Italia vinse, quindi Lippi fu genio.

È il paradosso del calcio moderno: giudicare la prestazione solo dal risultato è come valutare un libro dalla quarta di copertina. E così gli allenatori si trasformano in funamboli, sospesi tra il trionfo e la gogna. Il problema, a ben vedere, non è tanto dei tifosi – a loro si può perdonare l’impeto e la faziosità – quanto dei professionisti dell’informazione, che dovrebbero elevare il dibattito invece di abbassarsi alla retorica da bar.

I pagellisti, categoria folkloristica ma influente, sono tra i principali responsabili di questa superficialità. Distribuiscono voti con la leggerezza di chi ignora che ogni partita ha una sua storia. Se una squadra vince, tutti sopra il sei. Se perde, fioccano i cinque e i quattro. Ma a calcio si può giocare bene e perdere, così come si può vincere in maniera casuale. Non sono concetti difficili, eppure sembrano ormai dimenticati. Il calcio ha bisogno di una critica più onesta, meno binaria. Serve recuperare la capacità di leggere tra le righe, di valutare l’intenzione oltre all’esito. Altrimenti continueremo a eleggere geni e incompetenti con la stessa rapidità con cui cambia il vento.

La verità, come sempre, sta nei dettagli: in quel rigore dubbio, in quel palo sfortunato, in quella deviazione fortuita, in quel fallo di mano. E noi, se vogliamo davvero capire il calcio, dobbiamo imparare a guardarli. Possiamo affermare che è nei centimetri mancati, nei legni colpiti, nei fuorigioco millimetrici che si decide la differenza tra l’epopea e la disfatta. E il cronista, o il pagellista, se persegue propositi di serietà e obiettività, deve raccontare entrambi con lo stesso rigore.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Una risposta

  1. Buongiorno Vincenzo, ottimo articolo, condivido appieno. Spesso i giudizi sono legati esclusivamente al risultato, come del resto i commenti televisivi, come quelli del Principe dei telecronisti Azzurri (Gigio a parte che viene esaltato anche per un rinvio da fondo campo).

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