Il Napoli, come da supposizione facilmente preventivabile, batte il Cagliari e si laurea campione d’Italia per la quarta volta nella sua storia, bissando il titolo ottenuto due stagioni or sono (allorquando il tricolore fece nuovamente capolino sulle maglie azzurre a distanza di 33 anni) e dunque concentrando in sole tre annate agonistiche quanto precedentemente raccolto nell’intera epopea partenopea dai primordi.
Un dato clamoroso che certifica la bontà dell’operato da parte della totalità delle componenti societarie e riscrive la storia: l’arco temporale occorso per raddoppiare i titoli conquistati da Maradona e compagni, come sottolineato, è stato addirittura inferiore a quello che conclamò Diego assoluta divinità fra le stagioni 1986-87 e 1989-90, allorquando i due titoli nazionali furono altresì inframezzati da due secondi posti (con particolari strascichi e ombre relativamente alla seconda delle succitate stagioni, con Giordano e Careca a completare un reparto offensivo semplicemente formidabile, con il Napoli capace di inanellare quattro sconfitte nelle ultime cinque giornate e letteralmente consegnare il tricolore al Milan).
Se la squadra di Diego seppe, sotto la sapiente guida di Bianchi e Bigon, rendere noti allo scudetto i fino ad allora sconosciuti territori meridionali (escludendo geograficamente il successo ottenuto dalla Sardegna nel 1970), in uno dei due decenni verosimilmente più competitivi nella storia della Serie A, vero è che ciò avvenne facendo contemporaneamente affidamento sul più grande calciatore di ogni epoca e su una struttura di squadra all’altezza della qualità del reparto avanzato: lo scudetto di poche ore fa è invece figlio di una ricostruzione che affonda le radici esclusivamente ad inizio stagione, dopo un’annata disastrosa seguita alla conquista del campionato da parte di Spalletti.
Un decimo posto che sembrava essere volto ulteriormente a rimarcare l’assenza di quella specifica mentalità vincente che accantona immediatamente i successi affinché sia pressoché istantaneamente possibile agognare ancora di più quelli successivi, allontanando il senso di un soddisfacimento estremo e di una avvenuta “compiutezza” rispetto alla quale il senso di appagamento, di aver fatto ciò che è inusuale e in quanto tale difficilmente ripetibile e dunque da goderne, tende a prevalere.
Allora chi meglio di Antonio Conte per instillare ed inculcare quella mentalità vincente di cui sopra, per instaurare concettualmente ciò che è invece consueta abitudine in poche piazze, per trasmettere quel senso di ripudio e di totale rigetto sensibilmente già quasi linguistico verso la parola sconfitta? Chi meglio di un condottiero riconoscibile e carismatico, dettagliatamente preparato, conoscitore come pochi di ogni sfumatura indispensabile perché l’universo sia influenzato dalle giuste vibrazioni che possano conciliare volontà e competitività? La debacle in quel di Verona alla prima giornata sembrava sancire un percorso sghembo e impervio, una sentenza in termini di previsioni che sembrava esclusivamente lasciar apparire all’orizzonte come miracoloso un cammino che potesse collocare il Napoli nei quartieri nobili della graduatoria, prodromi alla qualificazione nella massima competizione continentale.
Ma, per lo specialista Antonio (al quinto scudetto in sei stagioni di Serie A, se si esclude la prima, breve, parentesi sulla panchina dell’Atalanta, e la prima guida tecnica a trionfare con tre differenti compagini), paradossalmente è, seppur faticosamente, la condizione ideale per sviscerare tutto ciò che dall’inizio della sua avventura da allenatore ha come nessun altro dimostrato. E Antonio da Lecce ha condotto la neonata creatura partenopea a guardare tutti dall’alto in basso, come consuetudine della sua carriera suggeriva potesse essere già plausibile nonostante la ristrettezza temporale dell’operare.
Ricostruita nei giocatori la capacità di avvertire l’indomabile volontà di trionfare quale sublimazione suprema della propria ragione professionale, trasmettendo or dunque ciò che da sempre gli appartiene, accantonati gli spettri della scorsa stagione che sembravano palesarsi nelle prime gare stagionali , Conte, con il fido Oriali e l’intero staff, ha nuovamente fatto emergere, senza possibilità di smentita alcuna, la sua caratteristica principale: innalzare complessivamente il livello di qualsivoglia squadra a disposizione, elevarne gli apici e ridimensionarne i passi falsi, collocare collettivo ed individui sensibilmente al di sopra della propria soglia massimale.
Virando su sistemi diversi da quello ormai dettagliatamente cementato nei meandri di oltre un decennio (dalla costituzione della “BBC” in poi), scegliendo, cioè, di posizionare graficamente il Napoli sul terreno di gioco in modo tale da inserire nello scacchiere principale le caratteristiche e l’intuito realizzativo di Scott Mc Tominay e soprattutto per sopperire alla partenza di Kvara e far fronte agli infortuni (Buongiorno e David Neres su tutti, oltre ad assenze di volta in volta circoscritte), Conte ha nuovamente dimostrato di poter essere tutt’altro che rigido relativamente allo sviluppo delle due fasi.
Se, rispetto all’evoluzione tattica camaleontica di alcuni fra i tecnici maggiormente all’avanguardia, Antonio Conte sembra nel dettaglio infinitesimale non “inventare” nulla dal punto di vista dell’interpretazione di alcuni ruoli, vero è che, però, le sue letture, la sua innata capacità di avvertire il calcio nella sue essenze fondamentali, la sua capacità di leggere indole e caratteristiche degli uomini a disposizione lo conducono a tessere una tela psicologica e atletica inesorabilmente direzionata a primeggiare, verrebbe da dire sempre e comunque, indipendentemente dal materiale umano e ambientale a disposizione. Il suo curriculum non lascia scampo a velleità di errate valutazioni. Curriculum appena, inequivocabilmente, aggiornato. De Laurentiis agguanta Ferlaino e il Napoli raggiunge la ragguardevole cifra di 12 trofei nazionali complessivi.

BIO: ANDREA FIORE Teoreta, assertore della speculazione del pensiero quale sublimazione qualitativa e approdo eminentemente più aulico della rivelazione dell’essenza di sé e dello scibile, oltre qualsivoglia conoscenza, competenza ed erudizione quali esclusive basi preliminari della più pura attuazione di riflessione ed indagine. Calciofilo, per trasposizione critico analitico di ogni sfaccettatura dell’universo calcistico, dall’ambito tecnico-tattico all’apparato storico, dalla valutazione individuale e collettiva ai sapori geografici e culturali di una passione unica. La bellezza suprema del calcio è anche il suo aspetto più controverso: è per antonomasia di tutti e tutti pensano di poterne disquisi