Sabato 10 maggio o come d’ora in poi lo chiamerò ogni qualvolta che mi troverò a ripensarci, il giorno di Juventus – Inter, la mia prima volta allo Stadium.
Dalla mattina iniziano i preparativi anche se sono già un paio di giorni che l’attesa si è fatta spazio tra i pensieri, spazzando via tutto il resto.
Mi preparo con meticolosità: maglietta portafortuna, sciarpa e biglietti stampati.
Passo le ore che precedono la partenza a fissare l’orologio, un po’ come si fa durante l’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola prima dell’inizio delle vacanze: mi illudo che il tempo possa così scorrere più velocemente salvo poi, quasi beffardamente, vedere le lancette muoversi ancora più lentamente.
Ad ogni km che ci avviciniamo a Torino, aumenta l’emozione. In macchina con me, una compagine particolare: mia mamma, dalla quale ho ereditato la gobba e poi mio papà e mio fratello, fieri milanisti che mi accompagnano in questa avventura resistendo alla tentazione di portare con sé la sciarpa del Milan.
Dopo un viaggio parso interminabile vedo finalmente la sagoma dello stadio. Mio fratello ci tiene a sottolineare quanto San Siro sia più bello ma lo lascio fare, niente può turbare questo momento, neanche un simpatico sfottò fraterno.
Facciamo i controlli ed entriamo. Settore 115. La cornice buia dell’ingresso del settore contrasta con le luci che provengono dal campo. La musica riempie l’aria, i tifosi affluiscono, il ritmo sale e io, con in mano il mio biglietto mi guardo intorno. Settore 115, fila 10 posto 31. Il mio sguardo fatica a concentrarsi sui numeri scritti sui gradoni perché è chiamato da mille stimoli con la voglia di non perdere neanche un dettaglio. Il mio è uno sguardo dettato dall’emozione e accompagnato da un sorriso che mi fa male alle guance.
Provate a ricordare la prima volta che avete messo piede nello stadio della vostra squadra del cuore. Nella letteratura tedesca c’è un termine preciso, “Vorfreude”, che si riferisce alla sensazione di eccitazione che si prova nell’anticipazione di qualcosa di bello. In italiano potremmo tradurlo poeticamente come “l’attimo prima del miracolo”, sottolineando l’intensa tensione emotiva e speranza che porta con sé.
I tifosi della curva sud sono già carichi e incitano la squadra con cori e sventolando striscioni. Accanto a me invece, mia mamma si lascia sfuggire emozionata “Pensa se ci fosse stato qui il nonno” e scatta subito una foto da mandare a mio zio. È dal nonno infatti che entrambi hanno ereditato la passione per il bianconero, successivamente trasmessa a me.
L’arbitro fischia l’inizio e non c’è più tempo per guardarsi intorno, il gioco ha la mia completa attenzione.
Al minuto numero 3 però la mia prima volta allo Stadium lascia il posto a un’ultima volta: si interrompe il gioco e le giocatrici di Juventus e Inter si dispongono per un pasillo de honor a Sara Gama. Quando un giocatore o una giocatrice smette di giocare nella mente del tifoso e della tifosa si fanno strada pensieri legati alle sue gesta passate e interrogativi sul suo futuro e su quello della squadra. In quel pasillo però domina un presente di gratitudine. Sara Gama è la capitana della Juventus, una leader naturale in campo ma soprattutto fuori dal campo. Ha guidato un processo di cambiamento verso la parità di genere e si è fatta carico delle pressioni che da questo ruolo sono derivate con determinazione e fermezza. Ha abbracciato queste responsabilità con senso del dovere e senza tradire i propri valori nonostante le difficoltà. Sara Gama è stata il motivo per cui oggi, per molte ragazzine, è facile pensarsi come calciatrice e credere che il loro sogno possa avere una concretezza. La sua carriera ora fa parte del passato recente ma ha contribuito a plasmare quel futuro che molte oggi vivono. Probabilmente alcune di quelle ragazze sono presenti anche lì, in quel pasillo e ad una ad una abbracciano la Capitana, senza distinzione di colori, perché in quel momento non esistono squadre ma si riconosce con umana partecipazione il valore della persona che si ha davanti e le si vuole trasmettere vicinanza per un momento difficile per il quale non si è mai completamente pronti.
Sara Gama varca la linea, intorno a lei il pubblico è in piedi e si sentono solo applausi. Dà il cinque a Martina Rosucci con un cambio che sa di passaggio di testimone. La partita ricomincia ma per qualche minuto rimane come sfondo perché il pubblico gravita verso le barriere a bordo campo per salutare la Capitana.
Lentamente il rumore del campo ritorna a farsi sentire, il gioco è di nuovo protagonista ed è forse questa la forza più autentica dello sport: ogni stagione, ogni weekend, anche quando cambiano i volti, si può ricominciare e provare tutto come fosse la prima volta.
Alla fine l’Inter con un bel goal di Bugeja vince la partita, dominata per interpretazione e gioco espresso. Un risultato che però passa subito in sordina perché si prende tutta la scena la celebrazione del sesto scudetto della storia bianconera. Mentre nell’aria risuonano le note di “Country Roads, Take Me Home” e coriandoli tricolori cadono come pioggia, Sara Gama solleva la coppa. “Take me home to the place I belong,” canta John Denver e mi permetto di dire a Sara Gama che può anche non indossare più gli scarpini ma, per noi che siamo cresciuti insieme al suo calcio, quel rettangolo verde sarà per sempre un luogo che le appartiene e che potrà chiamare casa.
Quel sabato 10 maggio, detto anche la mia prima volta allo Stadium o l’ultima volta di Sara Gama, mi ha rivelato in modo nitido quanto lo sport non sia mai solo una partita, un risultato o una classifica. È un luogo dove le storie personali si intrecciano con quelle collettive, dove la memoria familiare si salda con il presente, e dove le emozioni si fanno più vere, più intense, perché condivise.
In un solo pomeriggio, ho vissuto l’euforia dell’attesa, l’incanto dell’esordio, la commozione dell’addio. Lo stadio diventa teatro della complessità della vita: l’eredità di un capitano, la voce di una madre che ricorda il nonno, lo sguardo commosso di chi capisce che sta assistendo a qualcosa che va oltre il gioco.
In quell’abbraccio collettivo a Sara Gama, in quei cori, in quegli applausi senza colori, ho visto come lo sport possa essere un ponte tra generazioni, un motore di cambiamento, un linguaggio comune che parla di impegno, di passione, di possibilità. E, forse, anche un modo per tenere vive le persone e i valori che amiamo.
Quel giorno, lo sport non ha solo raccontato una partita. Ha raccontato la vita.

BIO: LAURA ZUCCHETTI
Gen Z di nascita ma vintage nei modi, parlerei per ore di sport e questioni di genere. Vivo il calcio femminile da tifosa ma con lo sguardo da psicologa sociale per riflettere sulle sue contraddizioni e opportunità figlie della realtà nella quale siamo immersi.