LEONARDO BONUCCI: IL DIVISIVO

La parabola di Leonardo Bonucci è la quintessenza della complessità del calcio. Il difensore viterbese, nel bene e nel male, è un difensore del suo tempo. Non il migliore. Non il peggiore. Ma certamente uno che ha segnato un’epoca, anche solo per essere riuscito a starci dentro più a lungo di molti altri. La sua parabola calcistica, durata più di quanto molti avrebbero pronosticato, è la storia di un calciatore sospeso tra eccellenza e fragilità. Talento e limiti. Intelligenza e presunzione. Un calciatore che il sottoscritto, dall’alto (o dal basso, a seconda dei punti di vista) della propria proverbiale umiltà, ammette di non essere riuscito a inquadrare appieno.

Nel 2017, un quotidiano inglese – non uno di quelli da titoli a effetto – lo incoronava come “miglior difensore del mondo”. Era l’apice. Il trio BBC (Barzagli, Bonucci, Chiellini) blindava la Juventus, e lui ne era il cervello. L’impostazione dal basso, le verticalizzazioni chirurgiche, la sicurezza nel duello. Sembrava destinato a sedersi al tavolo dei grandi. D’altronde Bonucci è considerato uno dei difensori più completi del nuovo millennio, con buona pace del prototipo del centrale italiano, un centrale che badava essenzialmente a difendere e maestro nell’arte della marcatura. Un calciatore che sublimava la fatica con l’ordine. Un calciatore che, in tutta la sua carriera con la maglia della Juve e della nazionale, si è completato al meglio con Giorgio Chiellini, come l’apollineo con il dionisiaco (concetto, quest’ultimo, perfettamente associabile al “Nostro”). L’uno ragione e geometria, l’altro impeto e resistenza. Insieme, equilibrio.

Ma bastarono pochi mesi a rovesciare la narrazione. Nel 2017 lasciò la Juve per accasarsi al Milan. “Voglio spostare gli equilibri”, diceva infilandosi la fascia da capitano del Diavolo. Il sogno si trasformò subito in incubo. Capitano di un gruppo spaesato, in un ambiente dove non bastano le idee ma serve il carattere giusto nel posto giusto, Bonucci sembrò un pesce fuor d’acqua, un generale senza esercito. La sua stagione rossonera, mediocre e confusa, dimostrò ciò che già si intuiva: che Bonucci da solo non bastava. Che il sistema Juve lo aveva elevato e esaltato. E che, tolti Chiellini e Barzagli, perdeva l’equilibrio. Tornò a Torino in fretta e furia, quasi chiedendo scusa.

Nei momenti più complicati della carriera, Bonucci ha deciso di affrontare non il campo, ma sé stesso, iniziando a lavorare con un mental coach, Alberto Ferrarini. Non solo nel fisico, ma nello sguardo. Un Bonucci divenuto più essenziale e silenzioso. “Voglio che la maglia di Leo a fine partita sia sporca di sudore, fango, erba. E sangue, se serve”, diceva Ferrarini. In quel momento Bonucci capì che la leadership non è solo comando, ma testimonianza. Non solo voce, ma esempio.

Eppure, quando nel 2020–2021 la Juve vacillava sotto le macerie dell’esperimento Pirlo, Bonucci fu tra i più criticati. Appesantito, disattento, troppo preso dal ruolo di guida spirituale per occuparsi della fase difensiva. Sembrava l’inizio della fine. Ma poi arrivò l’Europeo. Luglio 2021. Wembley. E Leonardo, con la solita faccia da professore della linea a quattro, tornò protagonista. Gol in finale, rigore segnato, urlo liberatorio: “It’s coming to Rome”. Non era più il miglior difensore del mondo. Ma era di nuovo un leader, un vincente. Un uomo da battaglia. Proprio nel 2021, Bonucci ha ricevuto un altro riconoscimento, venendo premiato come difensore dell’anno ai Globe Soccer Awards.

Dalle proteste fino alle esultanze con il classico gesto di sciacquarsi la bocca, Bonucci è diventato divisivo. Oggetto della visione manichea, estrinsecata in commenti da bar o fiumi di parole scritte da prestigiose penne, che contraddistingue il mondo del pallone italico. Eroe o antieroe, villain o semidio, seconda del tifo di chi lo osserva. Bonucci sembra un tipo in grado di litigare con tutti. Anche con sé stesso. Un carattere difficile, a tratti spigoloso. Ma anche incarnazione della complessità moderna, dove il ruolo dell’atleta si mescola con quello del comunicatore, del simbolo, del leader morale.

La storia di Bonucci inizia ancor prima, e chi ha memoria se lo ricorderà: nel 2011 era già alla Juve, ma con Delneri le cose non andavano. Lento, spaesato, sembrava un corpo estraneo alla Serie A d’élite. E dire che a Bari, accanto a Ranocchia, era sembrato il più promettente. Eppure i riflettori andavano sul compagno. Poi nella Torino bianconera arrivò Conte. E da lì Bonucci esplose. Non come marcatore classico, ma come libero moderno. Conte ne capì l’intelligenza tattica, ne affinò l’uso del piede, lo incastonò in un sistema che lo proteggeva. E lui, protetto, rendeva.

Bonucci è stato un difensore figlio del contesto, che nel sistema giusto pareva un filosofo della difesa e in quello sbagliato un calciatore confuso. Un pesce fuor d’acqua, appunto. Ha incarnato l’era in cui il difensore non è più solo quello che marca, ma anche quello che imposta. L’era dell’equivoco, verrebbe da dire, dove essere bravi a impostare vale più che saper difendere. E lui, quell’equivoco, lo ha fatto fruttare come pochi. Il calcio moderno è stato il suo alleato e, al contempo, il suo giudice, in un mondo dove pullulavano i “Catoni”, che hanno cercato (invano) di ricondurlo alla purezza degli antenati del ruolo difensivo.

Ora che la sua carriera si è conclusa, ci si può interrogare serenamente su dove collocarlo. Bonucci non è Baresi, non è Nesta, non è Cannavaro, non è Scirea. A quei livelli non è mai arrivato. Non ha avuto l’eleganza del primo, la pulizia del secondo, l’esplosività del terzo, né l’intelligenza pura del quarto. Non ne ha avuto né la continuità, né la centralità.

Ma una menzione tra i grandi secondi sì, quella gliela si deve. Terza fascia della tier list, se vogliamo usare un linguaggio da star di YouTube o Twitch. Dove stanno i campioni che non hanno scritto la storia da soli, ma l’hanno accompagnata. Bonucci non ha inventato nulla, ma ha interpretato bene il suo tempo. Ha vinto molto. Ha perso altrettanto. Ha convinto e deluso. Ha diviso e ispirato.

È stato un paradosso ambulante: fragile e risoluto, arrogante e insicuro, moderno e antico. Un difensore che si è costruito sulle sue contraddizioni e ha saputo piegarle al suo favore. Non sarà ricordato come un mostro sacro, ma nemmeno dimenticato. E forse, per uno come lui, non c’è epitaffio migliore.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

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