2 LUGLIO 1944, MILAN-JUVENTUS: L’ARENA RACCONTA

Ogni strada, ogni piazza di una città ha delle storie da raccontare.

Per non parlare, poi, di case e monumenti.

L’Arena Civica di Milano, ad esempio, può narrare di battaglie navali e degli spettacoli di Buffalo Bill, di scioperi e di manifestazioni sportive. Oppure, di quello che vi accadde il 2 luglio del 1944…

Il calcio durante la guerra

Ma prima di raccontare questa storia drammatica va ricordato che, anche durante la guerra, il calcio rimase uno dei pochi momenti di distrazione. Come si legge nel libro “Diario sotto le bombe” di Paolo Grassi (Segni e Parole): “Anche allora, come oggi, il calcio era fra i giochi più diffusi. Si giocava negli spazi erbosi, nelle strade meno frequentate, negli oratori e dovunque vi era dello spazio disponibile e non vietato. I palloni da calcio si componevano di una copertura in cuoio rigorosamente giallo (che col tempo e con l’uso diventava grigiastro), nella quale si introduceva una camera d’aria in gomma attraverso una apposita fessura. La camera d’aria veniva adeguatamente gonfiata con una pompa da bicicletta alla quale era stata applicata un’apposita valvola, il suo peduncolo veniva legato strettamente e introdotto attraverso la fessura, che poi a sua volta veniva chiusa con una stringa esattamente come l’allacciatura di una scarpa. Col progredire della guerra, però, anche questi palloni divennero introvabili, per cui ci si dovette accontentare di comuni palle di gomma o di altro materiale ‘autarchico’ per bambini”.

Il Milan diventa Milano

Torniamo, ora, al 2 luglio 1944, all’Arena. Erano quasi le tre del pomeriggio quando, sul suo campo, entrarono i giocatori di Juventus e Milan. Anzi, sarebbe più corretto scrivere Milano perché il regime fascista aveva cambiato in modo piuttosto ridicolo – per una forzata italianizzazione – il nome della squadra rossonera che, come noto, è in inglese in virtù dei suoi fondatori, a cominciare da Herbert Kilpin. Lo stesso accadde anche al Genoa, che diventò Genova, mentre l’Internazionale in quegli anni prese il nome di Ambrosiana.

La città è morta

Nomi a parte, lo spettacolo di quel giorno era quasi surreale perché, se avessimo guardato fuori dall’Arena, ci sarebbe apparsa una Milano in ginocchio: spopolata dagli sfollamenti, piena di macerie per i bombardamenti che aveva dovuto subire, affamata dal razionamento, spaventata dalle violenze quotidiane di fascisti e nazisti. “La città è morta”, avrebbe scritto il futuro premio Nobel Salvatore Quasimodo in una poesia, e il verso sintetizzava perfettamente la situazione.

Ciononostante, si continuava a giocare a calcio in quanto il regime voleva che tutto sembrasse normale. Anche se, di normale, ormai non c’era più nulla. E così juventini e milanisti si schierarono a centrocampo per salutare romanamente. Tra di loro, spiccavano nomi di un certo rilievo come i fratelli Sentimenti, Carlo Parola, i milanisti Boniforti ed Egidio Capra. Addirittura, il mitico Giuseppe Meazza, per due volte campione del mondo, che adesso vestiva la maglia bianconera dopo aver militato per due anni nel Milan e dodici nell’Inter. A guardarli, sugli spalti, stavano seduti seimila spettatori che avevano scelto di dimenticare la guerra per un paio d’ore.

La deportazione di 300 spettatori

L’incontro, che era amichevole, non ebbe storia. Troppa, la differenza in capo. Il primo tempo si concluse sul 2-0 per la Juventus, e a cinque minuti dalla fine il punteggio vedeva i bianconeri avanti per 5-0. Fu a quel punto, che tutto ebbe inizio. Prima si sentirono degli spari, e subito dopo l’altoparlante annunciò che le persone nate dal 1916 al 1926 sarebbero dovute uscire dalla porta Nord dell’Arena, gli uomini da quella occidentale e le donne con i bambini da quella Sud.

Lo stupore, ma anche l’angoscia si sparse per l’Arena. Tutti avrebbero dovuto attraversare le forche caudine di aguzzini tristemente famosi per le loro angherie. Qualcuno, tra l’altro, poteva essere privo di documenti o, ancora peggio, essere renitente alla leva della Repubblica di Salò oppure – chi lo sa? – essere vicino alla Resistenza, che in quel periodo era tornata ad essere molto attiva in città.

Ma non esistevano altre possibilità: saltare dagli spalti e correre avrebbe provocato l’intervento di chi, all’esterno, stava sicuramente pattugliando lo stadio. Mischiarsi con i bambini e le donne sarebbero stato inutile, perché ci si poteva immaginare dei controlli severi. Volenti o nolenti, bisognava dirigersi verso le uscite, non c’era altra possibilità per sfuggire alla trappola che era stata ordita.

I giovani e gli adulti trovarono ad attenderli dei soldati italiani della contraerea di Monza e degli esponenti della Guardia Nazionale Repubblicana, mentre i tedeschi controllavano che tutto si svolgesse regolarmente. Gli accertamenti furono lunghi, minuziosi, e durarono almeno fino alle otto e mezzo di sera. Dopo di che, l’Arena vide le trecento persone che erano state trattenute, salire su quindici camion che si diressero per ulteriori controlli alla Bicocca, nella zona Nord della città, dove aveva i suoi uffici di reclutamento la Todt, l’organizzazione che aveva il compito di fornire manodopera alle industrie del Terzo Reich.

Il fonogramma della Questura

Di loro, di quei trecento, non si sa nulla. Perché l’unico documento ritrovato a riguardo è stato un fonogramma inviato dalla Questura alla Prefettura in cui si informava di ciò che i tedeschi avevano organizzato, tra l’altro senza avvisare le autorità fasciste, a dimostrazione dello scarso rispetto che nutrivano per loro.

Nei giorni seguenti molti treni partirono verso la Germania, e su di essi si trovavano soprattutto operai e manovali. Analizzando un campione di schede presenti nell’Archivio di Stato, si nota che il trasferimento dell’8 luglio 1944 vide una percentuale di nati tra il 1916 e il 1926 dell’80%, il doppio di altre partenze. Il che potrebbe far pensare che alcuni di quegli individui prelevati il 2 luglio furono portati lontano da Milano, in quelli che non erano campi di lavoro ma di concentramento.

Il lavoro di ricerca continuerà nei prossimi anni. Per il momento, è stato fondamentale provare che questo rastrellamento, tra i maggiori avvenuti in città, è realmente avvenuto, perché con il passare del tempo si stava trasformando in una sorta di leggenda metropolitana. La sua ricostruzione, oltre a un ritratto della vita quotidiana a Milano durante questo periodo, lo si può leggere nel nostro libro “Un calcio alla guerra, Milan-Juve del ‘44 e altre storie” (Le Milieu), in cui abbiamo narrato anche le vicende di tanti calciatori e sportivi italiani ed europei che si opposero al nazifascismo, spesso perdendo la vita per i propri ideali. 

DAVIDE GRASSI      

BIO Davide Grassi: giornalista pubblicista, ha collaborato con diversi quotidiani nazionali, tra cui il Corriere della Sera, e con magazine di calcio e radio. Ha scritto e curato diversi libri soprattutto di letteratura sportiva, ma anche di storia della Seconda guerra mondiale e musica. Il suo sito è www.davideg.it

MAURO RAIMONDI

BIO Mauro Raimondi: insegnante e storico milanese, ha scritto diversi libri sulla sua città, in maniera particolare sul cinema. Ha curato la biografia di Franco Loi in Da bambino il cielo. Appassionato di letteratura sportiva, insieme a Davide Grassi e Alberto Figliolia ha appena pubblicato Cento derby sui Navigli.

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