TOGETHER: ALLA CONQUISTA DEL TRIPLETE (SU NETFLIX)

La poetica della forma-documentario, di argomento sportivo e non, è ricca e variegata. Ci sono lavori, come Vivere partita dopo partita, sul Cholo Simeone, che tentano di scavare oltre l’ovvio, di andare al di là della tautologia. Ne emerge un allenatore ossessionato dal proprio lavoro, ma soprattutto un uomo dalla fragilità scoperta, assai diverso dall’immagine persino smargiassa che la TV ci ha spesso restituito.

E poi ci sono lavori come Together: alla conquista del Triplete dai quali non ci si può aspettare molto di più che un impianto celebrativo. È quello il suo intento, quella, la sua primigenia vocazione. È demandato a chi guarda – e resta un privilegio quello di poter guardare dentro – il compito di intuire ciò che traspare in controluce. Persino quando la superficie di un percorso calcistico e umano viene appena lambita, tra trionfi e ovazioni, l’appassionato può tentare di guardare tra le pieghe della narrazione agiografica, insomma, può cercare di vedere meglio. Valeva qualcosa di analogo, in fondo, per All or Nothing: Manchester City, ancora disponibile nel catalogo di Amazon Prime.

Il Manchester City festeggia il triplete (vittoria della FA Cup, della Premier League e della Champions’ League) al termine della stagione 2022-’23

L’ossessione per il mediocentro di uno scacchista, non di un mago. Perché il mago gioca con la credulità popolare, insomma illude lo spettatore – o il tifoso, in questo frangente – che esista qualcosa che invece non c’è; lo scacchista sa piuttosto come muovere le pedine, anticipando la mossa avversaria, spiazzandola, valorizzando al meglio il talento/i talenti di cui dispone.

Guardiola aveva tentato di farlo anche contro il Chelsea, nella precedente finale di Champions League, e solo il risultato lo aveva contraddetto. Sarebbe potuta andare diversamente e racconteremmo una storia diversa. Non scordiamo poi l’inusuale gesto – almeno nel calcio, ahimè – di baciare la medaglia d’argento: altro stile, El noi de Santpedor. Sinceramente sportivo più che scaramantico, alla vigilia dell’ultima finale disputata, quella che viene raccontata nel sesto episodio della miniserie, Together: alla conquista del Triplete (o meglio, treble, all’inglese), a domanda diretta di Alessandro Del Piero, Pep aveva risposto infatti qualcosa che suonava come “se vinceremo, saremo tutti felici e se invece non dovessimo vincere, saremo comunque arrivati secondi, il che non è male”.

Guardiola sconfitto con il City dal Chelsea in finale di Champions’ League 2020-’21 bacia la medaglia d’argento

Qualcuno accusa Guardiola di finta umiltà, talvolta usando un termine meno urbano, ma si tratta, per chi sa ascoltare, di garbo, intelligenza e grande (auto)ironia; sono doti che Pep – dal documentario emerge in modo piuttosto chiaro – riesce a mixare con la disciplina e il riconoscimento dei meriti altrui.

Succede, per esempio, nel confronti del giovanissimo Rico Lewis, giocatore cresciuto nella cantera del Manchester City e via via impiegato sempre di più anche nei match che contano. Di fronte a una prestazione opaca della squadra in Premier League, il manager catalano, negli spogliatoi, sottolinea come solo Rico sembri crederci, come solo questo diciottenne, alle prime esperienze nel calcio dei “grandi”, abbia assunto la giusta attitudine in campo. Lo fa in seguito – ma questa volta lo sappiamo dalle interviste che fungono da corollario alle scene, chiamiamole così, in presa diretta – lodando il comportamento di un veterano come Kyle Walker. Se si considera il calcio in un’accezione più olistica, come gioco, ma anche nel suo portato di relazioni – e le relazioni sono un dedalo di piccoli conflitti da gestire –  tra individui, quel particolare momento racconta un mondo che funziona bene.

Kile Walker e Rico Lewis

Il terzino destro del City, a un certo punto della stagione, dopo la prestazione monstre contro il Real Madrid (e contro Vinicius Jr.: una sfida superlativa tra velocisti), sembra essere stato relegato ai margini del progetto tecnico. Addirittura non parte titolare per la finale di Istanbul. Eppure il giocatore, che oggi è il capitano, dopo l’addio di İlkay Gündoğan, prende la parola prima che la squadra entri in campo per fronteggiare l’Inter. E dice qualcosa che non ha il minimo sentore di rabbia o di frustrazione. Le sue parole, davvero belle, da leader, sono puro, sincero spirito di gruppo e fanno eco alla scritta che campeggia negli spogliatoi dell’Etihad Stadium: “some are born here, some drawn here but we all call it home”.

I versi sono tratti dal poema, This is the Place, dello scrittore mancuniano, Tony Walsh, commissionata nel 2012 e divenuta tristemente nota all’indomani del terribile attacco terroristico di Manchester, del 22 maggio 2017. Il poeta stesso infatti scelse di recitare quelle parole di appartenenza e di solidarietà universale di fronte al mondo intero, durante la veglia organizzata per commemorare le vittime del brutale massacro: “And so this is the place now with kids of our own. Some are born here, some drawn here, but they all call it home.” Sì, nel poema originale prima della parola “but” c’è la virgola, come in effetti dovrebbe essere!

L’ensemble come motore: questo è un principio inderogabile per il Manchester City di Pep Guardiola. Non mi pare quindi un caso che Together: alla conquista del Triplete si soffermi su dei momenti conviviali, apparentemente poco calcistici, quasi sciocchi, come la diatriba se sia meglio affrontare un ippopotamo o un coccodrillo (sic!), tuttavia fondamentali, per la coesione del gruppo, più dell’ennesimo rondo.

In mezzo a complimenti e attestati di stima, arrivati nel corso degli ultimi anni da parte di tifosi di ogni squadra della Premier, persino degli stoicissimi supporter del Liverpool, primo fra tutti Jürgen Klopp, persino dagli avversari “territoriali” dello United – Wayne Rooney definisce Pep Guardiola, senza mezzi termini, come una delle cose migliori occorse al calcio inglese da vari decenni a questa parte – a certe latitudini bisogna distinguersi, enfatizzando polemichette vere o presunte, rilanciando dichiarazioni che, be’, lasciano di stucco per faziosità, diciamo così. Del resto, si sa: non c’è nulla di imperdonabile, a questo mondo, tranne il talento (specie per chi non ne possiede).

Altri ancora accusano Pep di un concetto che, se non fosse del tutto improprio, suonerebbe ridicolo: il cosiddetto overthinking. Guardiola pensa troppo, in modo esasperato, e il suo elucubrare lo rende inefficace. La prova inoppugnabile dell’assunto scolpito nel marmo? Proprio la sconfitta in finale contro il Chelsea di Tuchel, subentrato in corso d’anno a Frank Lampard. Improprio e sciocco: il Manchester City aveva perso due volte in campionato contro i Blues e un cambio di strategia era, quella volta, non solo opportuno, ma necessario. Non era pensare troppo, ma pensare a fondo. E non è detto che chi pensa a fondo vinca per forza. Guardiola analizza e agisce, assumendosi gli oneri delle proprie scelte, senza alcun innamoramento a priori, né per il mitizzato, di solito a sproposito, tiki taka né per la teoria del falso nueve che funzionava alla grande, grazie a Messi là davanti, con lo spazio a fungere da centravanti. Xavi Hernandez riassume molto bene la filosofia del Barcellona, da Cruijff in avanti. Dice: “Entiendo el fútbol como una relación espacio-temporal”. Intendere quindi il gioco come una relazione tra spazio e tempo, un cronotopo calcistico.

Il mago ha un copione, senza il quale il trucco diviene manifesto, Pep, lo scacchista, immagina ed esegue, non solo per il risultato, ma per esprimere un’idea olografica. Lontano da quello che Ugo Morelli definisce il “riduzionismo efficientista”, Guardiola, come chiunque abbia inciso fortemente nel proprio ambito professionale, dall’arte alla letteratura, dalla scienza fino allo sport, accetta l’errore come parte di un processo lungo e complesso di apprendimento che può, nei casi migliori, portare al successo. Altre volte conduce solo a divenire la versione migliore di sé stessi: mica male!

Altro che overthinking

Il documentario, pensato per gli appassionati, ma anche per un pubblico generalista, abituale fruitore delle piattaforme di streaming come Netflix, non si sofferma granché sulle questioni tattiche. Qualcosa lo si può tuttavia comunque evincere, riflettendo sulle dichiarazioni passate e presenti dell’ex manager del Barça. Intanto, a scanso di equivoci, nessun dogmatismo, proprio rispetto al sistema di gioco che lo ha reso celebre. In Herr Pep, un racconto dettagliatissimo della prima stagione da allenatore al Bayern Monaco, si mette in discussione il principio del possesso palla, non in quanto tale, ma come imperativo categorico, scisso da ogni altra variabile; il possesso palla deve essere considerato un mezzo, non un fine.

Guardiola, a partire dal famoso 1-3-7-0 – nessuna punta – contro il Santos, di schemi e microschemi ne ha testati a decine: più di venti nel solo Bayern. Tuttavia il punto di vista – il luogo dove collocare la macchina da presa – resta quello che meglio conosce. Nel City l’idea parte, come ai tempi di Busquets, Xavi, Iniesta, dal centrocampo, con Rodri nel suo ruolo abituale di mediano – quel defensive midfielder che era mancato contro il Chelsea – e con John Stones che Mr. Guardiola ha spostato in una posizione ibrida, da mediano difensivo o da difensore avanzato: una sorta di falso cinco, dodicesimo uomo, presente ovunque, capace di intuire e creare traiettorie inedite. I moduli sono ondivaghi: l’importante non è lo schema tattico monolitico, ma la capacità di leggere velocemente la situazione contingente. Ciò che conta sono i valori. Pep si è messo in discussione anche contro l’Inter di Simone Inzaghi, dove a farla da padrona, nel primo tempo, è stata soprattutto la paura. Rispetto al dream team di Barcellona, dove sembrava che la palla scegliesse tragitti preordinati dal destino, i talentuosissimi ragazzi di Manchester, che negli spogliatoi hanno bisogno di ripetersi, come in un mantra, che ce la faranno, appaiono quasi umani (che meraviglia!).

La paura, appunto, quella tensione che di solito attanaglia i predestinati, la pressione mediatica che si riverbera sui grandi favoriti, ché il coraggio di affrontare il drago deriva dalla consapevolezza di poter soccombere, non dall’assenza di emozioni. Vediamo Kevin – “Prince Henry” – De Bruyne, la testa della squadra, uno dei migliori calciatori al mondo, abbandonare il campo, come nella finale persa di Porto, per un grave problema fisico, risalente addirittura al match di contro il Bayern. Subentra al suo posto Phil Foden, ancora troppo immaturo – che evoluzione, in pochissimi mesi! – per prendersi la squadra sulle proprie spalle: fa un’azione miracolosa, ma sbaglia sul più bello.

Phil Foden e Kevin De Bruyne

Ci sta, ci sta sempre, con questi ragazzi umani. E poi il capitano, ormai ex, Gündoğan, e Jack Grealish: grandiosi, perfetti, nulla per cui basti il denaro, come sottolineano con malizia, di solito, i detrattori (“non ho mai visto un mucchio di soldi segnare un gol”, diceva Cruijff!). I pilastri senza i quali il mausoleo crollerebbe sono nella zona che Guardiola conosce bene, per averla prima di tutto frequentata da giocatore. Peraltro le voci critiche tendono a omettere che Pep fu “assunto” in prima squadra alla fine del ciclo di Rijkaard, in virtù del bel gioco che aveva saputo imprimere al Barça B, su campetti che sembravano coltrati, per quanto erano malmessi.

Non ammettere che quello che gioca il City di Guardiola, in generale, è un calcio di bellezza – una moderna bellezza, anche con schemi quasi antichi, come l’ 1-2-3-5 – e di idee come pochissimi se ne sono visti negli ultimi decenni significa essere invidiosi, in malafede oppure incompetenti, o magari tutte e tre le cose insieme. Le vittorie sono solo uno dei parametri da prendere in considerazione, quello sicuramente più remunerativo ed eclatante, ma di certo non l’unico. Marcelo Bielsa, El loco, viene giustamente studiato e osannato dagli appassionati, anche se ha vinto pochissimo. Se ne celebrano le intuizioni, in un certo senso rivoluzionarie, comunque riconoscibili, da filosofo del calcio, come è nel caso di Guardiola, di Klopp – con il quale Pep condivide, oltre al bel gioco, acume, ironia e un certo senso teatrale – o di Carlo Ancelotti. Come è stato nel caso di Mazzone che, con Pirlo, fece una cosa almeno concettualmente assimilabile a quella che Guardiola ha poi realizzato con Bernardo Silva.

Quel Mazzone che, ai tempi del Brescia, diceva alla squadra: «se non sapete cosa fare con la palla, mettetela in banca, datela a Peppe». Con grande senso di riconoscenza, il manager catalano annovera pure Carletto tra i suoi maestri, al pari di Sacchi, la cui carriera è stata ben più munifica. A questi vanno aggiunti naturalmente il maestro primigenio, Johan Cruijff, quasi un padre putativo, e ancora Van Gaal, e JuanMa Lillo, il técnico mitad maldito, mitad de culto, oggi tornato suo vice al City, dopo la parentesi con il nostro Maresca. E il già citato Bielsa, appunto. Del celebre incontro tra Pep Guardiola e Marcelo Bielsa non si sa moltissimo. I social network ancora non esistevano, ma probabilmente poco sarebbe cambiato perché la discrezione, a certi livelli, è segno tangibile di nobiltà d’intenti (per fortuna). Si sa che è avvenuto a ottobre, nel 2006, il giorno 10, in un momento storico in cui la carriera da centrocampista centrale di Pep stava tramontando e quella da allenatore era il futuro che si prospettava come imminente… o forse ancora solo un sogno.

Marcelo bielsa e Guardiola sullo sfondo. Pep ha sempre considerato il tecnico argentino fonte d’ispirazione

Si sa che è avvenuto davanti a un asado preparato dal maestro nella sua casa, situata nelle campagne intorno a Rosario. Si sa che il “gancio” per contattare il tecnico argentino fu Lorenzo Buenaventura che aveva lavorato all’Espanyol proprio con Bielsa. E infine si sa che il testimone di quell’incontro fu lo scrittore e regista (e amico di Pep), David Trueba, del quale consiglio di leggere il gioiellino, Quattro amici, nel caso non l’aveste ancora fatto. Siccome pare che Pep non fosse in grado di spiccicare parola, lì, all’improvviso seduto di fronte a uno dei suoi miti, fu proprio Trueba a rompere il ghiaccio, parlando di cinema! Il resto sono pochissimi aneddoti, tipo quelli che lo stesso Guardiola ha raccontato durante la sua lunga chiacchierata con i ragazzi della fu Bobo Tv.

L’allenatore catalano parlò di una specie di agenda dove Bielsa sosteneva di custodire i suoi “segreti” tattici e disse di aver bramato quel quaderno tipo il Sacro Graal! Non potendo averla, si accontentò di prendere appunti; sembra che ne abbia in effetti presi tantissimi (due Sacri Graal, a questo punto)! A Bielsa pare aver chiesto perché, nonostante spesso non fosse stato riconosciuto appieno il suo valore, volesse comunque tornare ad allenare. La risposta è da film, con buona pace di Trueba: “necesito esa sangre”.

Il documentario di Netflix, che avrebbe dovuto celebrare un triplete, si conclude annoverando altri due titoli, la Supercoppa Europea, vinta ai rigori contro il Siviglia, e il Mondiale per Club: dal treble ai fab5!

La vittoria al Mondiale per club, ottenuta contro la squadra brasiliana del Fluminense, suggella un percorso glorioso, rarissimo, per più di una ragione, nella storia del calcio. È un altro titolo che il Manchester City non aveva mai vinto prima, è lo zampillio necessario del sangre, precursore di un futuro che sembra ancora tutto da scrivere (e da raccontare).

Una curiosità a margine: il titolo dell’elaborato finale che Enzo Maresca, unico italiano nello staff tecnico del City, nel 2023 – ci sono poi almeno altri due nostri connazionali, il dott. Max Sala e il terapista sportivo lucano, Mario Pafundi – ha presentato, al corso per allenatore di Coverciano, era “Il calcio e gli scacchi”.

BIO Ilaria Mainardi: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

Sono titolare della pagina Instagram @Ilarie.ed.eventuali

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