SUBLIMARE LA FRUSTRAZIONE.

Ghana vs Uruguay – Mondiali in Sudafrica 2010

Ogni campionato del mondo di calcio ci consegna regolarmente tantissimi spunti, spesso addirittura riesce a sorprenderci con insospettabili capacità divinatorie quando ci regala indicazioni su come si muoveranno la nostra società e la nostra cultura.

Il mondiale 2022, giocatosi in Qatar, ha lasciato in noi appassionati di calcio dell’emisfero boreale la sensazione di aver assistito ad un vero e proprio sparti acque epocale che ci ha costretto a profanare quello che potremmo definire “l’assioma estivo pallonaro”, secondo cui si può assistere ad un mondiale di calcio solamente in maglietta e infradito, con la possibilità di celebrare vittorie o piangere sconfitte tra grigliate, birra e anguria.

L’almanacco invece ha riportato la vittoria per la terza volta dell’Argentina, la prima post Diego e anche la prima che probabilmente dovrà cominciare a contare con pre e post Leo.

Nelle statistiche del mondiale qatariota il numero tre, per noi Italiani, assume invece i connotati dell’onta, certificando la terza mancata partecipazione ad un campionato del mondo di calcio.

Uno dei fatti più memorabili è stato sicuramente la prima storica volta di una squadra africana classificatasi tra le quattro nazionali più forti del mendo, il Marocco.

Proprio quest’ultimo dato potrebbe aver mosso in alcuni appassionati dei riverberi strani, come una dissonanza di cui riconosciamo bene gli effetti e, perciò, vogliamo capirne di più le radici.

Dodici anni prima, nel mondiale svoltosi in Sudafrica, il Ghana giocò contro l’Uruguay un drammatico quarto di finale e la definizione mai fu così calzante, perché quella partita rappresentò tutto quello che di più inspiegabile, esaltante e crudele che il calcio possa offrire.

Le due nazionali arrivarono a quella partita posizionate in maniera molto differente nei confronti della storia di questo sport perché l’Uruguay, vincendo quella partita, si sarebbe reinscritto nella storia del calcio di cui era stato uno dei padri fondatori, mentre il Ghana avrebbe riscritto la storia del gioco posizionando per la prima volta una squadra africana tra le quattro più forti del mondo.

Il Ghana aveva dovuto chiedere al suo grande cuore africano qualche piccolo compromesso accogliendo un allenatore serbo, Milovan Rajevic, ma soprattutto facendo finta che uno dei giocatori più talentuosi convocati espressamente per quella competizione, Kevin Prince Boateng, fosse realmente appartenente ad una nazione di cui non conosceva nemmeno la lingua…

La partita ebbe un andamento speculare, con qualche battito in più delle “Black Eagles, sostanzialmente equilibrata anche nelle tipologie di goal, entrambi con i portieri non esenti da colpe, rispettivamente sul tiro dalla distanza di Muntari e sulla punizione defilata di Furlan.

“In cauda venenum” … probabilmente Marziale (poeta ed epigrammista romano) avrebbe sorriso compiaciuto se avesse assistito a ciò che avvenne quella sera, in cui il veleno si fece attendere fino all’ultimissimo istante, al centoventesimo minuto di una partita lottata ogni secondo.

Ricostruire quella incredibile azione finale risulta ancora complesso e, nel farlo, riconosciamo anche l’importanza di un altro giocatore, Jorge Fucile, autore del fallo da cui scaturì la punizione che innescò tutto e anche primo a tentare di parare invano il tentativo ghanese, precedendo di qualche millesimo di secondo la “parata” determinante di Suarez appostato appena dietro di lui.

Questo ultimo doppio disperato tentativo ci fa pensare che tutti i giocatori uruguayi fossero stati addestrati a fare la stessa cosa?

E da chi, poi?

Proprio da un allenatore come da Oscar Washington Tabarez, soprannominato “El maestro”?

Probabilmente dovremmo virare verso un’ipotesi secondo cui qualsiasi giocatore di qualsiasi squadra al mondo avrebbe potuto comportarsi allo stesso modo.

Dal momento in cui quell’ultima palla venne calciata verso l’area di rigore i destini di molti dei giocatori sul campo si ribaltarono e, per rendere il tutto ancor più surreale, senza motivi strettamente legati a loro meriti o demeriti.

Al momento dell’assegnazione del rigore e della conseguente espulsione di Suarez (che per una frazione di secondo riuscì incredibilmente a tenere ancora la maschera del “Cos’ho fatto io?”) il capitano del Ghana, John Mensah, cominciò ad esultare all’impazzata, aizzando un pubblico già in festa…sarà uno dei due rigoristi che fallirà l’esecuzione, decretando così l’eliminazione della sua squadra e spezzando il cuore dei suoi tifosi e probabilmente di tutti quelli africani.

Suerez è probabilmente il protagonista centrale di quei drammatici secondi, rappresentante perfetto di tutte le sue ambivalenze, sia in quell’episodio che in tutta la sua carriera.

Prima salvò regolarmente sulla linea un tentativo ghanese e, pochi secondi dopo, non esitò ad infrangere il regolamento usando le mani per impedire al pallone di entrare in rete.

Poi, dopo la sua inevitabile espulsione, uscirà dal campo coprendosi le lacrime con la maglietta portata sul volto salvo, dopo pochi secondi, sprigionare una gioia isterica assistendo all’errore dal dischetto di Asamoah Gyan, ridefinendo così in un attimo tutta la storia della letteratura clinica sul bipolarismo.

Un altro personaggio vittima di questi ribaltamenti del destino sarò Muslera, il portiere dell’Uruguay, che aveva lasciato la porta sguarnita con un’uscita sbagliata, obbligando Suarez a parare al suo posto, divenendo poi però protagonista della vittoria finale con due rigori parati senza dover attingere ad alcuna straordinarietà.

Muslera non avrà bisogno di sfoggiare una parata incredibile sul rigore di Asamoah Gyan perché sarà la traversa a decidere per sempre le sorti dei due giocatori, uno che potrà gioire solamente baciando il legno salvifico e l’altro che rimarrà in eterno ritratto con le mani sul volto.

Asamoah Gyan, fino a quel momento eroe indiscusso di quella squadra, sarà per sempre ricordato come l’autore dell’errore che farà sfumare una vittoria storica in extremis, ma sarà anche il a presentarsi sul dischetto per battere la serie dei rigori finali, segnando, senza però poter godere della redenzione per un coraggio enorme a causa di un rimpianto che pesava più di qualsiasi altra cosa.

L’elemento che rende unica questa partita è che sembra sia stata costruita dagli dèi del calcio appositamente per farci sperimentare la potenza della frustrazione, l’intensità con cui questa emozione riesce a farci sentire impotenti, stritolati tra rabbia e tristezza.

Questo pensiero viene rinforzato anche dal fatto che, un istante dopo che la palla colpì la traversa impennandosi verso il cielo pedinata dallo sguardo sgomento di Asamoah Gyan, l’arbitro fischiò immediatamente la fine della partita, sigillando l’irreversibilità di ciò che era appena successo e castrando ogni velleità riparatoria.

Non contento di aver obbligato i giocatori ghanesi a soffocare in quel modo un urlo di gioia atteso da sempre il destino li obbligherà anche ad osservare Sebastian “El Loco” Abreu mentre trasforma l’ultimo decisivo rigore…con il “cucchiaio”!

Dobbiamo chiederci a cosa ci serve una partita così, che sembra essere stata costruita per far vacillare qualsiasi certezza, etica, educativa o sportiva che sia.

Un’ infrazione del regolamento così indiscutibilmente netta, evento che nel calcio spesso sembra un’allucinazione, in un momento che non lascia tempo per rimediare e nemmeno per dimostrare, attraverso un’eventuale strenua resistenza in inferiorità numerica, dei meriti che possano giustificare quella incredibile vittoria.

Ghana contro Uruguay ci serve a dimostrare quanto sia ingiusto il calcio?

Dire che quella vittoria della “Celeste” non sia giusta vorrebbe dire non prendere in considerazione l’importanza degli errori dei giocatori ghanesi, anche al di là dell’assenza di meriti eclatanti da parte uruguaiana, e ridurre il comportamento di Suarez a pura scorrettezza sarebbe ingiusto rispetto alla sua disponibilità al sacrificio individuale per il raggiungimento dell’obbiettivo comune, con la consapevolezza che di quel traguardo lui non potrà essere partecipe.

Sarebbe perciò più realistico descrivere un quadro in cui una squadra ha rifiutato l’idea della sconfitta più violentemente di quanto l’altra abbia rincorso quella della vittoria.

Possiamo immaginare che Tabarez abbia ripreso Suarez dopo quella “parata” a fine partita?

Probabilmente per un istante si sarà dimenticato di essere “el maestro” e l’avrà solamente abbracciato in silenzio.

Ma noi dobbiamo comunque continuare a credere e a pretendere che nessun allenatore al mondo possa insegnare a comportarsi in quel modo, essendo così d’aiuto ai nostri figli nel combattere una naturale tendenza ad evitare la frustrazione e rincorrere il piacere.

C’è il rischio che partite come queste promuovano agli occhi del mondo l’idea che, alla fine, vinca sempre il più furbo o quello che aggira meglio le regole?

Il calcio, in giornate come quella di Ghana-Uruguay, ci riporta a situazioni della vita in cui ci può capitare di vivere situazioni che percepiamo come ingiuste e, allo stesso tempo, ci insegna che in quei momenti l’unica cosa che possiamo fare è imparare ad accettarle, lavorando sugli aspetti che dipendono da noi stessi.

Accettare non vuol dire subire, esattamente come resistere non vuol dire combattere.

Una simulazione dell’avversario, un errore dell’arbitro, sono tutte buone occasioni per far allenare la frustrazione dei nostri figli, sostenendo strenuamente l’idea che l’unica cosa che li aiuterà sarà l’assunzione di responsabilità e la profondità dei principi in cui crederanno.

Possiamo essere sicuri che chi vive una esperienza come quella nata da Ghana-Uruguay non ne farà tesoro usandola, all’occorrenza, a proprio vantaggio?

No, non possiamo, perché essere liberi di sbagliare è sia la grande responsabilità che il grande privilegio dell’essere umano, perciò, poter allenare questi comportamenti fin da piccoli è una delle grandi possibilità che ci offre il calcio.

Innalzare un’emozione come la frustrazione verso qualcosa di più positivo è l’opportunità che ci offre questa partita, trasformare qualcosa di doloroso per portarlo dove potrebbe diventare altro, in un luogo emotivo dove le Aquile Nere resteranno per sempre le prime ad essere arrivate a vedere la cima dell’Olimpo del calcio, partendo dalla culla di tutti noi.

Davide Bellini e Filippo Galli.

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago. Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta

2 Responses

  1. Complimenti per il pezzo che sale di tono nella parte conclusiva e ci porta a d una serie di riflessioni di ampio genere. Particolarmente interessante quella sull’accettazione.
    Due sole considerazioni::
    1. L’ingiustizia nella fattispecie è relativa, nel senso che il Ghana ha comunque usufruito del rigore e dell’espulsione a suo favore non riuscendo a capitalizzare il tiro dagli 11 metri per proprio errore.
    A mio parere sarebbe stata vera e propria ingiustizia se l’arbitro non avesse sanzionato il gesto.
    2. La furbizia, la capacitò di speculare (anche oltre il regolamento) può portare dei vantaggi, anche ingiusti, ma solo nel breve tempo.
    Ed infatti gli effetti o conseguenze del gesto fan sì che l’Uruguay giochi la semifinale senza il suo calciotore più bravo.
    Complimenti ancora.
    alessio

    1. Grazie mille Alessio per le belle parole!
      Si, la difficoltà nel toccare questo argomento era quella di scindere la percezione di giustizia(o ingiustizia) e l’idea di giustizia, l’etica.
      Sono contento che sia passato lo sforzo.
      Grazie mille ancora!

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