INDIVIDUALITÀ E/O ORGANIZZAZIONE.

Tanti anni fa, Zlatan Ibrahimović ebbe a definire ‹‹filosofo›› Pep Guardiola. In quella circostanza il campione svedese utilizzò il termine in modo sarcastico, per denigrare l’atteggiamento del tecnico catalano. In un mondo empirico come quello del calcio, nel quale molto spesso non si guarda al di là del risultato e dove raramente si trova una certa sensibilità (umana ma anche culturale) parlare di filosofia significa genericamente parlare in modo astratto, di cose non pratiche.

E invece, se si guarda alla storia della filosofia, sono molte le tematiche che possono essere collegate al gioco del calcio e ad una sua analisi più articolata. Il calcio infatti è sì semplice, ma nella sua complessità.

D’altronde, se è vero che ‹‹tutto è politica›› è altrettanto vero che ‹‹tutto è filosofia››, intendendo con ciò che ogni argomento che l’uomo (animale razionale) tratta pone delle questioni filosofiche e che ogni dibattito può essere ricondotto a qualcosa di già precedentemente discusso nella lunga storia del pensiero che, dall’età greca, giunge fino a noi.

In questo senso, uno dei temi tattici più discussi di questo periodo ricalca uno dei nodi centrali della storia del pensiero occidentale, vale a dire quello del rapporto fra l’io singolo e la struttura all’interno della quale l’io è calata. Stiamo parlando dello scontro ideologico fra posizionalismo e relazionismo (o funzionalismo).

Con il primo termine intendiamo ciò che ha a che fare con il gioco di posizione, vale a dire con quell’approccio tattico che (mi si consenta una certa semplificazione) privilegia l’occupazione razionale degli spazi, alla ricerca di una superiorità posizionale che consenta alla squadra in possesso di superare le linee difensive avversarie.

Con il termine relazionismo invece ci si riferisce a quel tipo di calcio, di matrice sudamericana, che mette al centro del gioco non lo spazio (e la sua occupazione) quanto invece la palla e i legami associativi (tecnici ma anche affettivi) che vengono a generarsi fra i giocatori.

In parole povere, il primo approccio è quello tipico della scuola spagnola attuale (con radici olandesi) mentre il secondo ha avuto il suo più fulgido esempio nel Brasile di Telê Santana che partecipò ai Mondiali di Spagna del 1982.

Da una parte dunque si privilegia la struttura, tanto è vero che, pur in calcio fluido, è possibile descrivere con numeri la disposizione in campo in fase offensiva di una squadra che pratica un gioco di posizione (2-3-5/3-2-5/3-2-4-1…). Di contro, non è così semplice farlo per quelle realtà che adottano un calcio di tipo relazionale.

Il rapporto fra io singolo e struttura è stato trattato in lungo e largo nella storia del pensiero occidentale. Fra coloro che se ne sono occupati troviamo gli strutturalisti. Lo strutturalismo è una corrente filosofia che nasce e si afferma in Francia negli anni Sessanta del secolo scorso in opposizione a correnti che mettevano in risalto il soggetto, quali ad esempio l’umanismo o appunto il soggettivismo.

Per gli strutturalisti il concetto base è, ça va sans dire, quello di struttura. Con struttura essi intendono l’insieme delle relazioni che intercorrono fra gli elementi di un certo sistema. La struttura così data funziona in base a regole che presiedono alla collocazione degli elementi che si trovano al suo interno.

È il famoso esempio degli scacchi: i pezzi assumono valore non in funzione di quello che sono o di ciò che rappresentano ma per le funzioni che hanno.

Il filosofo Claude Lévi-Strauss ha applicato lo strutturalismo all’antropologia. Le strutture che l’antropologia mette in evidenza contrastano con la tradizionale visione dell’uomo come soggetto libero, padrone di se stesso.

Il post-strutturalismo (dei vari Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Jean-François Lyotard, Jacques Lacan, Louis Althusser e Michel Foucault) nasce quando la struttura viene ad essere considerata come una forma di controllo da dover oltrepassare. Questa corrente affonda le proprie radici nelle teorie di Marx, Nietzsche e Freud.

Non a caso, il filosofo francese Paul Ricoeur aveva definito i tre come i ‹‹maestri del sospetto›› perché hanno svelato come l’io non sia libero, ma condizionato appunto da strutture.

Assistiamo dunque negli anni Sessanta – Settanta del Novecento ad una vera e propria Nietzsche renaissance che porterà il filosofo tedesco a diventare il punto di riferimento dell’età post-moderna (quella nella quale viviamo).

Il post-strutturalismo vuole correggere il programma strutturalista (a partire, come detto, da Nietzsche) col risultato di arrivare fino al suo superamento. I post-strutturalisti vedono dunque nelle strutture qualcosa di cui liberarsi.

A quanto detto finora si potrebbe forse aggiungere ciò che riguarda il concetto di limite. La cultura greca è caratterizzata anche dal limite. Tàntalo e Prometeo vengono punti perché hanno provato a violare dei limiti. Icaro fallisce per lo stesso motivo.  Edipo è colui che, per eccellenza, vìola i limiti

Il limite per i greci è perfezione, l’illimitato è incompiuto, incompleto, imperfetto.

Parafrasando quanto detto finora e portandolo nell’ambito calcistico, la questione riguarda il legame che viene a costituirsi fra la struttura (il modello di gioco) e l’io (il singolo calciatore). In che misura una condiziona l’altro o viceversa?

Il giocatore è libero di esprimersi o la sua libertà è comunque condizionata dalla struttura (che pone dei limiti) della quale fa parte? Per lo strutturalismo ogni struttura è autoregolata e ha come obiettivo il proprio funzionamento e la propria conservazione. Gli allenatori devono quindi creare un modello di gioco costante, con i singoli che si adattano, oppure devono lasciare che siano questi ultimi a dar vita ad una struttura in modo spontaneo?

Ed è giusto creare una struttura? È giusto mettere dei limiti ai giocatori? Non si dovrebbero invece lasciare i calciatori liberi di associarsi secondo il proprio istinto e la propria comprensione del gioco e della situazione?

Si rischia l’anarchia tattica…va bene o no? Oppure anche l’anarchia ha bisogno di una guida, di una minima base organizzativa?

È difficile dare una risposta. Il calcio, come la storia umana, vive anche di corsi e ricorsi, di cose che ciclicamente ritornano, seppur in forme apparentemente diverse. «Nulla di nuovo sotto il sole» (Ecclesiaste 1, 10).

Abbiamo così assistito all’alternarsi di periodi nei quali i giocatori venivano inseriti in strutture preconfezionate (alle quali si dovevano adeguare) ad altri nei quali invece veniva loro garantita una maggiore libertà.

Porre dei limiti, creare una struttura deve costituire un aiuto affinché il calciatore possa esprimersi al meglio e non una costrizione che lo ingabbi. A seconda delle capacità, tecniche e di lettura della situazione, si potrà poi dare più o meno autonomia ai singoli.

Insomma, cercare una via di mezzo. E torniamo alla Grecia antica, là dove la medietà non era mediocrità, bensì la virtù che evitava estremi opposti, per difetto o per eccesso.

BIO Michele Tossani: giornalista, match analyst, storico e filosofo. Lo trovate un po’ qui e un po’ lì, nel web o su carta stampata. Cura il sito lagabbiadiorrico.com. Su Twitter @MicheleTossani.

AL TEMA AFFRONTATO IN QUESTO ARTICOLO DA MICHELE TOSSANI ABBIAMO PROVATO A DARE DELLE INDICAZIONI IN ALCUNI ARTICOLI PRECEDENTI CHE RICHIAMIAMO DI SEGUITO:

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