LEV JASIN: L’UNICO PORTIERE VINCITORE DEL “PALLONE D’ORO”.

Due febbraio 1943: l’Europa è da tempo, torbidamente, minacciosamente, avvolta e travolta dalla bellicosa traduzione e realizzazione delle deliranti ideologie naziste.

Stalingrado, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: le forze tedesche, sorrette dagli scellerati alleati, sono circondate ed annientate. La più decisiva fra le battaglie della seconda guerra mondiale ridimensiona lo spettro continentale di un Reich globale.

Al fronte anche intellettuali: Vasilij Grossman traduce in “Vita e destino” la sua esperienza come corrispondente della rivista dell’esercito sovietico “Stella Rossa”. Pur fedele al regime, ne evidenziò i risvolti da condannare. Equiparò lager e gulag.

Come il “Dottor Zivago” fu bandito, dopo le ire di Kruscev.

La trionfante Armata Rossa è, anche, costituita dai lavoratori delle fabbriche, figli di un “socialismo in un solo paese” che, un secolo prima, avrebbe fatto sobbalzare Marx: egli non avrebbe mai compreso perché instaurare la rivoluzione sociale da lui delineata in un luogo privo di un proletariato tale da attuare ciò che era indispensabile e che sarebbe stato logico proporre in paesi industrialmente più progrediti.

I molti operai impegnati a combattere furono sostituiti da uomini in erba: fra questi il quattordicenne Lev Jasin ( Yashin per l’Occidente) che, in fabbrica, era soprattutto intento ad afferrare al volo bulloni e altri oggetti che i suoi compagni scagliavano lui contro, quasi a ricercare ilarità in un contesto tetro e desolante. Con una prontezza di riflessi fuori da qualsivoglia equilibrio normativo, Jasin lasciava intendere chi, inevitabilmente, sarebbe diventato: portiere della Dinamo Mosca, squadra del ministero dell’interno i cui atleti, per l’appunto, erano retribuiti dallo Stato alla stregua di sergenti del KGB.

Ventidue anni di militanza, cinque campionati sovietici e tre Coppe dell’URSS alle quali, surreale ma reale, bisogna aggiungere una coppa sovietica di hockey su ghiaccio, sempre in qualità di protettore dei pali della Dinamo: correva il 1953 e, nonostante le doti dimostrate, Jasin non era ancora riuscito a scalzare Aleksej Chomic dalla titolarità della squadra della sezione calcistica, evento che avvenne l’anno successivo.

Denominato”ragno nero” o “pantera nera”, in virtù della scura uniforme che ne contraddistingueva l’impatto estetico, mantenne inalterato il livello di rendimento nell’arco dell’intera carriera: essenzialità e posizionamento le sue peculiarità, al punto tale da far apparire il più delle volte semplice e poco vistoso ogni suo intervento, anche quelli più tecnicamente complicati. 

La caratteristica più prettamente da rimarcare, al di là delle sublimi esposizioni numeriche in termini di traduzione statistica delle proprie prestazioni agonistiche, fu l’essere verosimilmente il primo portiere della storia a dirigere il  proprio reparto arretrato, coordinando e sollecitando i movimenti della linea difensiva e altresì estendendo il proprio raggio d’azione oltre il canonico confine ( all’epoca insuperabile) delimitante l’area di rigore, ergo partecipando attivamente alla costruzione del gioco. 

Antesignano, in sostanza, delle più moderne concezioni calcistiche che hanno trovato estrema rappresentazione scenica in un’interpretazione del ruolo non più rinchiusa nelle isolate ed isolanti frontiere geograficamente prossime alla linea di porta.

Un’innata predisposizione ad una padronanza concettuale, sinonimo di sicurezza quasi inconscia, geneticamente impressa, dei propri mezzi, da farne icona di un calcio moderno e volto all’iniziativa, nonostante la sua presenza potesse, agli antipodi, suggerire un atteggiamento che, qualora estremamente dimesso, poteva in ogni caso confidare nell’eccezionale qualità delle sue doti.

Seppe far assurgere ad una dimensione mai raggiunta il ruolo del portiere, sostanzialmente quasi mai degno di menzione in precedenza: sino alla sua comparsa impossibile, comprensibilmente, romanzare sull’unico elemento il cui compito, sul terreno di gioco, era quello di far sì che non si verificasse l’estrema gioia del calcio,  il goal.

Disse di lui Sandro Mazzola in occasione di un calcio di rigore fallito nel novembre del 1963 al cospetto del portiere presumibilmente (certamente per l’Istituto di storia e statistica del calcio e per France Football che lo ha inserito nella formazione ideale di tutti i tempi) più forte della storia del calcio: “Jasin era un gigante nero: lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato. Quando presi la rincorsa vidi che si buttava a destra, potevo tirare dall’altra parte, non ci riuscii. Quel giorno il mio tiro andò dove voleva Jasin”. 

Centocinquanta circa ( sì, 150) le estreme punizioni neutralizzate durante la carriera ( si narra raccogliesse un quadrifoglio ogni qualvolta ciò accadesse), duecentosettanta le partite concluse con la porta inviolata (anche in questo caso la traduzione numerica delle lettere costituenti l’ultima parola raffigurata concorre a tradurre la meraviglia del dato espresso in rigoroso rispetto letterario) .

Il carattere corrispondeva allo stile sobrio esibito sul terreno di gioco, fu uomo del popolo legato alla terra natìa , uomo semplice ed umile, antitesi totale di alcuni protagonisti dello sport più popolare: probabilmente perché spesso la grandezza si riveste di semplicità e altresì perché sottendere un’inclinazione individuale eccessivamente esaltante in tempi storici avversi alla piena realizzazione identitaria è oltremodo difficile da ipotizzare potesse verificarsi. 

Unico estremo difensore della storia ( Zoff e Buffon sfioreranno l’ambito trofeo) a fregiarsi del “pallone d’oro” , nel 1963 ( guardando dall’alto in basso gente del calibro di Eusebio, Rivera, Law, Charlton ), con l’URSS fu campione e vicecampione d’Europa ( oltre ad aver conquistato la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici del 1956 ed il quarto posto ai campionati del mondo del 1966, miglior piazzamento di sempre per la nazionale rossa): la difese, ne accrebbe il lustro negli anni in cui un’invisibile linea divideva il mondo in due blocchi contrapposti.

No, fredda in quel periodo non era soltanto la sua glaciale predisposizione ad ipnotizzare gli avversari. Fredda era la guerra. Ma calda la protesta, di lì a poco.

BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

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