IL GRANDE TORINO, LA TRAGEDIA DI SUPERGA, IL RIVER PLATE: UN LEGAME INDISSOLUBILE.

Immaginate che esista un filo che unisca due città: Torino e Buenos Aires.

Sarebbe un filo lungo 11.000 km, un filo che partirebbe idealmente dallo ‘Stadio Filadelfia’ di Torino, tutto colorato di granata e arriverebbe dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, a Buenos Aires e più precisamente all ‘Estadio Antonio Vespucio Liberti’ virando le proprie tonalità in bianco-rosso.

Sarebbe un filo lunghissimo che nella nostra immaginazione non solo attraverserebbe lo spazio, ma che finirebbe per attraversare anche il tempo, partendo dal secolo scorso e arrivando ai giorni nostri.

Un filo fatto dello stesso materiale di cui sono fatti i ricordi e carico di un senso di nostalgia per tutto quello di bello (principalmente sogni e speranza) che c’era all’epoca e che oggi non c’è più.

Nostalgia del passato, del calcio, quello genuino, quello del popolo, quello che ingenuamente iniziava a muovere “denari” senza immaginare cosa sarebbe mai diventato con il passare degli anni: un’industria mondiale che muove il PIL di alcuni paesi. Ingenuo ed ancora troppo giovane e romantico.

Il filo immaginario ci serve per presentare il racconto di due storie parallele, nate in due città e due continenti diversi, lontanissimi e assai differenti tra loro, ma che ad un certo punto della storia, più precisamente il 4 maggio del 1949, si intrecciano indissolubilmente tra loro, per amore, per passione.

In questo breve racconto abbiamo due presidenti: Ferruccio Novo e Antonio Vespucio Liberti.

Abbiamo due squadre che sono entrate di fatto nella leggenda del calcio mondiale, due squadre vincenti: il ‘Grande Torino’ e ‘la Maquina’ (il River Plate degli anni ’40).

Due realtà unite dalla tragedia che ancora oggi si scambiano rispetto e affetto reciproco, senza che nessuno pretenda nulla dall’una o dall’altra parte. Un legame nato e perdurato nel tempo solo per amore di uno sport che in tutta la sua “bruttezza” moderna, da sempre fa miracoli, da sempre unisce le persone e da sempre appiana le disuguaglianze in modo ben più efficace di tanti altri strumenti sociali: il calcio.

PARTE 1: CONTESTO SOCIO-ECONOMICO DEGLI ANNI ’30-’40.

Come sempre accade non risulta semplice comprimere in poche righe tutto quello che è stato detto, tutto quello che è stato scritto e tutto quello che ho letto sull’argomento, si rischia sempre di essere approssimativi e superficiali, ma fornire un’idea di quello che furono Torino e l’Italia negli anni a cavallo tra le due guerre è doveroso.

Partiamo da un presupposto: la vita all’epoca non era facile. Dopo la crisi del ’29 si assistette ad un’impennata della disoccupazione e della povertà. C’era stata una guerra, un’altra incombeva ed il regime fascista imponeva politiche restrittive seppur investendo parecchio in infrastrutture e iniziative popolari.

Focalizzando l’attenzione sulla città di Torino, storicamente anti-fascista e combattente (Gramsci e Gobetti ne sono un simbolo), uno degli elementi più comunemente noti ai più fu l’impennata demografica dovuta ai flussi migratori interni al paese che in particolar modo dal nord-est e dal sud Italia convogliarono manodopera nelle fabbriche piemontesi (prima tra tutte la FIAT degli Agnelli) e non solo. Nonostante tutto questo la città di Torino rimase viva, vitale e variegata anche se all’epoca non esisteva una vera e propria cultura del tempo libero come quella odierna.

In questo ambito (il tempo libero) intervenne proprio la politica di regime e lo fece abbracciando vari settori tra i quali il mondo dello sport.

Il regime, che era ben conscio dell’importanza di controllare grandi fette della popolazione tramite gli eventi sportivi, aumentò i suoi investimenti sia a livello scolastico che a livello agonistico. E se nel primo caso puntò ad un “indottrinamento” diretto tramite l’istruzione, nel secondo caso si puntò più che altro sull’aspetto psicologico, sulla creazione di “eroi” sportivi tramite i quali il popolo potesse identificarsi e farsi “trainare” nelle idee e nei modi.

Fu così che il ciclismo in primis e il calcio a seguire, iniziarono a fare breccia nel cuore degli italiani in modo prepotente. Il ruolo dei nuovi beniamini degli italiani era fondamentalmente quello di far evadere per qualche ora il popolo dai propri problemi di vita quotidiana.

Fu così che il calcio subì una trasformazione radicale passando da sport amatoriale a sport per le masse sebbene il regime inizialmente lo mal tollerò a causa della sua origine anglosassone. In quel periodo la Federazione Calcio che già esisteva venne ristrutturata e in molti casi vennero edificati nuovi stadi e nuovi impianti per attirare folle sempre più numerose.

Parallelamente agli investimenti “di regime”, a cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’40, si assistette ad un fenomeno socio-culturale indipendente: la nascita su larga scala del mecenatismo sportivo.

I grandi imprenditori italiani fecero l’ingresso nel mondo dello sport e del calcio in particolare. Imprenditori appassionati di questo sport all’epoca ancora giovane e travolgente come Edoardo Agnelli alla Juventus e la famiglia Pirelli al Milan, giusto per fare due nomi, decisero di spendere ed immettere capitali in un mondo che forse all’epoca ancora non dava l’idea di territorio per investimenti redditizi: solo passione.

Detto questo e tornando a parlare di Torino, già all’epoca, le squadre che la facevano da padrona in città erano due: il Torino e la Juventus.

Un dualismo infinito quello tra i granata ed i bianconeri. E così se al Torino toccò il ruolo di rappresentante della “popolazione operaia”, quello della Juventus fu rappresentare la parte aristocratica della città.

Diverse squadre e stadi diversi. I granata giocavano le proprie partite presso lo stadio ‘Campo Torino’ (conosciuto ai più come campo ‘Filadelfia’), edificato dal presidente Cinzano nel 1926.

La Juventus invece fece dello ‘Stadio Mussolini’ la propria casa, ma solo a partire dal 1934. E ancora. Se negli anni ‘30 a dominare fu la Juventus, che in quel periodo fornì anche l’ossatura per la Nazionale italiana del C.T. Vittorio Pozzo (ex allenatore del Torino e in seguito due volte campione della Coppa Rimet nel 1934 e nel 1938 e delle Olimpiadi nel 1936), altresì negli anni ’40 iniziò il ciclo vincente di quella che divenne la squadra italiana più leggendaria della storia: il Grande Torino.

Il Torino a inizio XX secolo passò prima sotto la gestione del conte Enrico Marone Cinzano (quello dello spumante per intenderci), durante la cui presidenza vinse due scudetti, mentre successivamente, dopo una serie di presidenze brevissime, arrivò l’imprenditore Giovanni Battista Cuniberti con cui il “Toro” vinse una Coppa Italia.

Pur essendo sempre stata in buone mani, la società granata venne acquisita nell’estate del 1939 da un altro torinese “doc” di nome Ferruccio Novo. Ed è con l’avvento del presidente Novo che inizia la nostra storia, ma andremo ad approfondire poco più avanti.

Prima spostiamoci un attimo dall’altra parte dell’oceano. In Argentina.

Esattamente dall’altra estremità del filo di cui accennavamo all’inizio del racconto. Per cui dopo aver parlato brevemente di Torino e dell’Italia è bene sapere a grandi linee e in poche parole cosa accadde anche in Argentina prendendo in considerazione il medesimo periodo storico che va all’incirca dal 1930 al 1949.

Partiamo dal presupposto che l’Argentina non è mai stato un paese facile e per capirlo è sufficiente leggerne la storia a partire dai primi anni del secolo scorso fino ad arrivare agli anni ’90 (anche se i problemi originari sarebbero da ricercare già a partire dalle conquiste spagnole e portoghesi del ‘500).

Una nazione, quella albiceleste, passionale, nata principalmente da enormi flussi migratori (principalmente europei, ma anche nord americani) e divenuta con il tempo il granaio d’America. Caratterizzata negli anni non da uno ma da molteplici colpi di stato, cambi di governo, politiche protezionistiche, default nazionali ricorrenti.

Una nazione che senza dubbio ha costretto il popolo argentino a vivere spesso in condizioni critiche. Oltre ai flussi migratori, tra l’altro caratterizzati in parte dalla povertà e dalla disperazione che affliggeva l’Europa e in parte dalle speranze che il nuovo continente rappresentava per gli immigrati stessi, sul finire del XIX secolo, alcune compagnie prevalentemente inglesi e statunitensi sbarcarono letteralmente nell’economia del paese con importanti capitali e progetti di investimento.

Vennero convogliate grandi risorse monetarie e materiali in settori nevralgici come quello ferroviario e portuale, ma soprattutto si puntò forte sull’agricoltura. Investimenti che accentuarono le caratteristiche dell’economia argentina, un’economia basata prevalentemente sull’esportazione di materie prime e sull’importazione di prodotti manufatturieri.

Un’economia povera i cui profitti vennero trattenuti nelle mani di pochi soggetti, talvolta trasferiti all’estero, penalizzando la popolazione locale che per decenni ha fluttuato nella povertà, senza giovare di politiche mutualistiche o di welfare sociale.

A partire dal 1930 circa e fino al termine della dittatura militare nel 1983 con la caduta del secondo governo di Hipolito Yrigoyen, l’economia venne poi sovrastata dalla situazione politica che portò ad un susseguirsi di colpi di stato, con conseguente forte instabilità.

I radicali vennero costantemente esclusi dal governo mediante frodi elettorali e dura repressione. Durante la seconda guerra mondiale, sotto il governo di Roberto Ortiz, venne applicata una politica pacifista e anti-belligerante (fino al 1943), fino a quando gli argentini decisero di fornire appoggio ai tedeschi i quali necessitavano di materie prime per portare avanti la “loro” guerra, anche se prossimi alla sconfitta.

Fu solo nel 1945 con l’arrivo al potere di Pedro Pablo Ramirez che vennero interrotte le relazioni con la Germania tanto che nel 1945 l’Argentina stessa dichiarò guerra ai tedeschi. Quindi per farla breve, in mezzo a una selva di politici, lotte sociali per ridurre la povertà del popolo medio, nel periodo preso in considerazione (dal 1939 al 1949), possiamo affermare che in Argentina e a Buenos Aires la popolazione provò sulla propria pelle condizioni di vita pessime, simili a quelle di chi in Europa aveva vissuto la guerra.

Furono questi i tratti sociali che accomunarono le due realtà prese in considerazione, senza contare che in un paese dalla forte influenza italiana, dove la passione per il calcio era dominante e i problemi di vita quotidiana erano moltissimi anche qui l’arte pedatoria diventa una “valvola di sfogo”, un momento di gioia e spensieratezza per i più, ma anche una chance per fuggire altrove. Ed il calcio il collante che tiene insieme il filo immaginario che unisce Buenos Aires a Torino.

PARTE 2: NOVO, IL TORINO E “IL GRANDE TORINO”.

Il Torino a partire dal 1939 ebbe un grandissimo presidente che rese grandissima una squadra che già grande era, ma che mancava di qualcosa per imporsi definitivamente nel panorama calcistico italiano. Il suo nome era Ferruccio Novo.

Ferruccio Novo nacque a Torino nel 1897, da una famiglia di imprenditori del cuoio. Novo, grande appassionato di calcio, vestì la maglia granata delle giovanili del Torino senza mai riuscire ad arrivare a giocare in prima squadra (il suo ruolo era difensore, ma a suo dire era davvero scarso).

Si rifece con gli interessi diventando presidente del club e lo fece dal 1939, anno in cui acquistò il club, fino al 1953. La sua grande opera fu quella di costruire una società solida e una squadra fortissima, una squadra che già all’epoca risultava “moderna”.

Apprese i segreti dell’organizzazione dei club inglesi da Vittorio Pozzo il quale ebbe modo di frequentare gli ambienti del calcio britannico e del quale Novo era amico. Tuttavia il modello d’ispirazione a cui fare riferimento per Novo fu un altro: la Juventus di Edoardo Agnelli.

Sorprendentemente erano gli acerrimi rivali bianconeri che piacevano al presidente Ferruccio; i bianconeri erano una società organizzata sullo stampo tipico delle aziende commerciali e da cui Novo non esitò prendere spunto per replicare la medesima struttura per il suo Torino.

La costruzione del ‘Grande Torino’ non avvenne dal giorno alla notte come si potrebbe pensare ascoltando i tanti racconti che circondano il mito di questa squadra.

Ci volle tempo e la strategia imprenditoriale applicata al calcio era talmente visionaria che ancora oggi avrebbe ragione d’esistere e di funzionare. Prima di tutto diede continuità e certezze all’ambiente dirigenziale, tagliando con il recente passato, quando si succedettero ben cinque diversi dirigenti tra la gestione del presidente Cinzano e quella del presidente Cuniberti (che in quattro anni collezionò una Coppa Italia, un secondo e due terzi posti in campionato grazie al trio delle meraviglie Baloncieri, Libonatti e Rossetti).

In secondo luogo il presidente Novo puntò forte su collaboratori fidati, come Copernico e Borel (ex calciatore della Juventus), e osservatori dalle grandi capacità di valutazione. Questi collaboratori erano mossi dalla passione per il Torino, come anche Giacinto Ellena e Antonio Janni.

Terzo punto. Novo ebbe l’intuizione, la forza e soprattutto il coraggio di puntare anche sul vivaio granata, ricco di giovani talenti da lanciare e valorizzare. Come detto stiamo parlando degli anni ’30/’40 del secolo scorso. Sono trascorsi quasi 100 anni, ma se fate ben attenzione sono gli stessi capisaldi delle odierne società di calcio, di quelle che finiscono per avere successo.

Il presidente Novo intervenne anche sulla gestione del calcio giocato e non solo dirigenziale. Sul campo il presidente comprese l’importanza dell’evoluzione tattica del gioco tanto da volersi affidare sempre a tecnici preparati come Mattea, Cargnelli e l’ungherese Kuttik, Ferrero e Lievesley (ultimo allenatore del Torino prima della tragedia di Superga).

Tuttavia la svolta decisiva arrivò con un cambio tattico. Si passò da quello che veniva definito “metodo” a quello che invece veniva chiamato “sistema” ed il contributo fondamentale arrivò dal mitico Erno Egri Erbstein.

Erbstein fu un personaggio dalla storia incredibile, una persona su cui ci sarebbe da scrivere più di un libro (cosa peraltro già fatta), ma ora non abbiamo tempo di approfondire.

Erbstein “sbarcava il lunario” facendo l’agente di borsa, era magiaro di origini israeliane e arrivò in Italia prima dell’emanazione delle leggi razziali del ’38. Fu un grande conoscitore di calcio (d’altra parte i migliori tecnici europei dell’epoca erano praticamente tutti ungheresi) e dopo un periodo in Italia alla guida, tra le altre, di Lucchese e Bari dovette scappare dal nostro paese con tutta la famiglia al seguito per le note vicende storiche dell’epoca.

In questo periodo rimase tuttavia in constante contatto con Ferruccio Novo. Nella sua fuga dalla follia nazista, Erbstein, sopravvisse a molte peripezie e quando finalmente riuscì a rientrare in Italia proseguì nel suo lavoro “calcistico” ricoprendo il ruolo di responsabile tecnico del Torino (non allenatore!), diventando la vera mente rivoluzionaria del ‘Grande Torino’.

Nei primi due anni di ‘presidenza Novo’, la squadra collezionò un sesto posto e un settimo posto, dopodiché iniziò ad aggiungere tasselli alla sua macchina perfetta.

Arrivarono Franco Ossola dal Varese, Romeo Menti dalla Fiorentina, Pietro Ferraris (II) dall’Ambrosiana Inter e il trio Bodoira, Borel e Gabetto dalla Juventus.

Tuttavia mancava ancora qualcosa. Dopo un derby perso per 0-3 contro la Juventus, venne presa la decisione tanto rivoluzionaria quanto semplice di cambiare il sistema di gioco della squadra.

All’epoca non c’erano molti Sistemi di gioco da utilizzare come oggi (anche se i sistemi fondamentalmente non esistono o meglio si riferiscono soltanto alla posizione prevalentemente tenuta dai giocatori in fase di non possesso) e soprattutto i sistemi di gioco non si distinguevano come oggi con le serie numeriche (1-4-4-2, 1-4-3-3 o 1-3-4-3); all’epoca c’era poca scelta su tutto e anche in questo caso si poteva solo scegliere tra due disposizioni tattiche: il “metodo” ed il “sistema”. Siamo all’alba del calcio moderno in Italia e parliamo di teorie pionieristiche.

Dunque passando dal “metodo”, che era anche il preferito del C.T. Pozzo e della nazionale italiana, al “sistema” che invece era il modello innovativo di concezione britannica, il vento girò a favore dei granata.

Durante la prima stagione a base “sistema” il Torino arrivò secondo in classifica alle spalle della Roma. Era il 1941-42. Nella stagione successiva, gettate le basi per la edificare la leggenda, la squadra venne ulteriormente completata grazie agli acquisti fondamentali di Ezio Loik e Valentino Mazzola dal Venezia (quest’ ultimo arrivato per merito di Erbstein) e così nella stagione 1942-43, il Torino conquistò il campionato, ma anche la Coppa Italia, diventando la prima squadra della storia italiana a fare il “double”.

La guerra interruppe il campionato nel 1943. L’anno successivo (1944) l’Italia era spaccata in due – anche calcisticamente – ed i calciatori, con l’aiuto dei propri presidenti, vennero assunti a fare gli impiegati o gli operai nelle grandi aziende per sfuggire alla chiamata alle armi.

Il calcio però cercò di non fermarsi, visto anche il ruolo sociale che ricopriva, e così nel campionato ligure-piemontese del 1944 esordì il Torino-F.I.A.T. (che oggi potrebbe suonare come una blasfemia).

La squadra era composta dai calciatori del ‘Grande Torino’ che riuscirono a rimanere nella città di Torino, mentre altri come Grezar e Menti andarono a giocare temporaneamente altrove.

Per questo stesso motivo il Torino-F.I.A.T. riuscì ad ingaggiare Silvio Piola che in realtà sarebbe stato un tesserato della Lazio, ma che in tempo di guerra veniva schierato dal Torino. Il campionato del 1944 vide trionfare inaspettatamente i Vigili del fuoco di La Spezia (che si qualificarono alla finale grazie al forfait del Montecatini).

Il campionato di calcio “ufficiale” riprese poi nella stagione 1945-46 e fu proprio allora che nacque il ‘Grande Torino’ con gli ultimi storici acquisti di Bacigalupo, Ballarin, Castigliano, Rigamonti (di ritorno dal Lecco) e Maroso.

A partire dalla stagione 1945-46 fino ad arrivare alla stagione 1948-49 il Torino si laureò 4 volte campione d’Italia e lo fece in modo convincente e travolgente. Semplicemente inarrestabile.

Se in Italia la forza e la fama dei granata era sotto gli occhi di tutti gli italiani, fu grazie alla nazionale di calcio, composta quasi integralmente da giocatori del Torino, che il mito di questa squadra travalicò i confini del nostro paese tanto da suscitare interesse fino in Sud America.

A quel punto il presidente Ferruccio Novo, che come detto era un visionario, iniziò a organizzare tournée ed amichevoli all’estero per fare in modo che tutti potessero ammirare e prendere coscienza di cosa fosse il suo Torino. E ci riuscì.

Piano piano tutto il mondo iniziò ad avvolgere il ‘Grande Torino’ in una sorta di mito, tutto il mondo calcistico elesse il ‘Grande Torino’ a squadra modello. Tutto andava per il meglio. Tutto andò bene fino a quel maledetto 4 maggio 1949 che spostò il Torino di Ferruccio Novo dal mito alla leggenda e di cui parleremo a breve.

PARTE 3: LIBERTI, IL RIVER PLATE E “LA MAQUINA”.

Fermiamo un attimo il racconto “italiano” e torniamo in Argentina per proseguire con i nostri parallelismi e dove nel 1902 nacque un altro grande presidente: Antonio Vespucio Liberti.

Antonio Liberti in realtà era italiano, ma naturalizzato argentino, figlio di immigrati genovesi (a cui molti paesi ed il mondo del calcio in generale devono molto). Liberti fu un imprenditore di successo con la passione sfrenata per il ‘fùtbol’ ed esattamente come Ferruccio Novo, anche Liberti non fu un grande giocatore, ma la passione era talmente tanta da riuscire a diventare presidente (per ben quattro mandati) della sua squadra del cuore: il River Plate.

Durante la sua entusiasmante vita Liberti divenne anche console generale a Genova, nel periodo della seconda presidenza di Juan Domingo Peròn e curiosamente ricoprì la carica di presidente del Torino nella stagione 1956-57 (nell’era “post-Novo”).

Tutto intrecciato, tutto incredibilmente collegato. Parlando di Liberti cogliamo l’occasione per ricordare anche alcuni membri fondatori del River Plate che come i genitori del Presidente erano genovesi (uno dei motivi per cui la maglia del River Plate è bianca e rossa, proprio come la croce di San Giorgio, vessillo della Repubblica di Genova): questi erano Livio Ratto, Bernardo Messina, Enrique Salvarezza e Juan Bonino, giusto per citarne alcuni.

Sebbene il River Plate attraversò, durante la sua storia, molti periodi ricchi di vittorie, fu sotto due delle quattro presidenze di Liberti che vennero formate squadre talmente forti da ottenere “etichette” leggendarie.

Sotto la prima presidenza di Liberti (dal 1933 al 1935) i giocatori del River Plate vennero soprannominati i Millonarios (come vengono chiamati ancora oggi), mentre sotto la seconda presidenza (dal 1943 al 1952 – proprio il periodo che interessa a noi), diventarono “la Maquina” (la macchina, e non parliamo di automobili). E ora vi spiego anche i motivi.

Perchè Millonarios? Il River Plate rappresenta fin dalla sua origine la parte “nobile” e benestante di Buenos Aires, dedita alla ricerca del bello, del gioco spumeggiante ed elegante (una filosofia che fa contraltare a quella del Boca Juniors che è da sempre più pragmatico, più concreto, più lottatore e passionale).

Questo benessere economico diede la possibilità al presidente Liberti di investire ingenti somme di denaro per attrarre i migliori giocatori dell’epoca. Da qui nacque il soprannome di ‘Millonarios’. Su tutti, vennero acquistati Carlos Peucelle (nel 1931) e Bernabè Ferreyra (nel 1932) e quest’ultimo venne curiosamente pagato in oro alla squadra del Tigre per una cifra all’epoca fuori mercato. Ferreyra fu un giocatore paragonabile all’odierno Cristiano Ronaldo per fama e popolarità. Entrambi grandi giocatori, ma per intenderci Ferreyra era la stella in una squadra di stelle, tanto da mettere a segno in maglia rojiblanca ben 202 reti in 195 partite.

Perchè ‘la Maquina’? Per quanto riguarda invece il soprannome ‘la Maquina’ questo fece la sua comparsa qualche anno più tardi, a partire dal 1941 e fino al 1947, quando il River Plate prima del tecnico Renato Cesarini (proprio il Cesarini della famosa Zona Cesarini che militò tra le fila della Juventus da calciatore per poi diventarne anche allenatore tra il 1946 ed il 1948) e poi del tecnico José Minella (anche lui figlio di immigrati italiani, di Villanova Monferrato e anche lui grande giocatore del River Plate tra il 1935 e il 1941) riuscì ad inanellare un serie di 4 campionati vinti (1941-1942-1945-1947) e 6 trofei nazionali ed internazionali, risultando una vera e propria macchina da gol. L’importante non era conquistare i trofei per ‘la Maquina’, l’importante era dare spettacolo, sommergere di gol gli avversari, deliziare il pubblico.

Ormai i parallelismi tra i due mondi sono evidenti: i titoli de ‘la Maquina’ ricordano da lontano quelli del ‘Grande Torino’. Giocatori fortissimi, gestiti da grandi allenatori e votati al gioco collettivo fatto di tecnica, passaggi e senso del sacrificio. Un antesignano del calcio totale degli olandesi o del più recente tiki-taka di stampo blaugrana. I grandi rappresentanti di quel River Plate erano Munoz, Moreno, Labruna e Pedernera. Quest’ultimo, Adolfo Pedernera, poteva essere considerato l’omologo di Valentino Mazzola nel Torino. Il migliore giocatore nella rosa a disposizione del presidente Liberti. Ed è a partire da lui che iniziamo ad unire i puntini della storia tra loro.

Per concludere è doveroso sottolineare l’importanza della figura di Liberti nella storia del club, relativamente alla costruzione dello stadio del River. Ricordiamo che oggi lo stadio “Monumental” di Buenos Aires si chiama in realtà ‘Estadio Antonio Vespucio Liberti‘ ed è dedicato a quello che è stato il Presidente più iconico della storia del club, quello che ha fatto edificare la casa “definitiva” per questa meravigliosa squadra argentina.

PARTE 4: SUPERGA, ETERNA AMISTAD.

Dualismi, coppie, parallelismi e analogie. Italia e Argentina, Torino e Buenos Aires, Novo e Liberti, Pedernera e Mazzola, ‘Grande Torino’ e ‘la Maquina’.

Poi arrivò quel maledetto 4 maggio 1949, quando alle ore 17.03, l’aereo che stava portando a casa il ‘Grande Torino’ dopo una partita amichevole in Portogallo contro il Benfica, si schiantò letteralmente sulla Basilica di Superga, sul colle che sovrasta la bellissima ed elegante città sabauda di Torino. In quell’impatto il corso della storia deviò per sempre dalla sua traiettoria naturale. Persero la vita tutti i giocatori del ‘Grande Torino’, lo staff tecnico, i giornalisti al seguito della squadra e tutto l’equipaggio di volo. In un unico sciagurato istante l’Italia intera perse la sua squadra più forte e più rappresentativa ed il mondo del calcio perse il meglio che questo sport potesse offrire all’epoca, mentre Ferruccio Novo perse i suoi ragazzi, li perse tutti.

Una tragedia che colpì nel profondo tutto il mondo del pallone e non solo. Furono tanti i messaggi di cordoglio e le manifestazioni di affetto da parte di amici, rivali, tifosi e gente comune. Basti pensare che ai funerali della squadra parteciparono 500.000 persone, quando l’intera città di Torino ne contava al tempo circa 700.000. Ma il gesto più bello arrivò da laggiù, dall’Argentina, dal paese fatto di immigrati, per lo più italiani, ed arrivò dal presidente Antonio Liberti che senza pensarci su due tese una mano per favorire la ricostruzione di una squadra magnifica che se si fosse concretizzata avrebbe (forse) piegato nuovamente la storia del calcio italiano e del Torino.

 Liberti offrì a Novo, a titolo gratuito, il suo giocatore migliore, che non era Adolfo Pedernera, perchè lui ormai aveva fatto il suo tempo e non militava nemmeno più nel River Plate, ma il suo diretto erede: Alfredo Di Stéfano.

Alfredo Di Stéfano al Torino sarebbe stato leggenda, sarebbe stato poesia, sarebbe stato rivincita contro un destino beffardo, crudele, contro il quale nulla possiamo fare.

E invece no.

 Alfredo Di Stéfano, la futura ‘Saeta Rubia’, non accettò il trasferimento al Torino perché aveva già firmato, prima della tragedia, per i colombiani del C.D. Los Millonarios che in quel periodo prendevano parte ad un controverso “campionato ombra”, non riconosciuto dalla FIFA, nel quale i giocatori venivano letteralmente ricoperti di denaro grazie ai contratti faraonici offerti dalle società colombiane.

 Troppo tardi. Il destino si era messo in mezzo un’altra volta. Di Stefano giocò in Colombia per ben 4 campionati dopo di che passò al Real Madrid, dove militerà dalla stagione 1953-54 fino alla stagione 1963-64 collezionando tra Liga, coppe nazionali e coppe internazionali ben 396 presenze e 308 gol e diventando la leggenda dei blancos e del calcio mondiale che tutti noi conosciamo. Saeta rubia al Torino sarebbe stata poesia.

Rimangono però altri gesti d’affetto che si concretizzarono e che stabilirono un legame tra River Plate e Torino che ancora oggi perdura.

Prima di tutto Liberti e Novo si accordarono per giocare un partita amichevole, il 26 Maggio 1949, a Torino, in memoria dei ragazzi del ‘Grande Torino’. A quell’evento partecipò una selezione di giocatori chiamata “Torino Simbolo”, nella quale partecipò anche la leggenda juventina Giampiero Boniperti ed il cui ricavato venne devoluto alle famiglie delle vittime del disastro aereo. La partita si concluse in parità e tra i marcatori figurò anche Alfredo Di Stéfano.

TORINO”SIMBOLO”- RIVER PLATE 2-2 (1-1)

TORINO”SIMBOLO”: Sentimenti IV (Juventus), Manente (Juventus), Furiassi (Fiorentina), Annovazzi (Milan), Giovannini A. (Inter), Achilli (Inter), Nyers I (Inter), Boniperti (Juventus), Nordhal III (Milan), Hansen J. (Juventus), Ferraris II (Novara). Sostituzioni: Moro (Bari) per Sentimenti IV; Angeleri (Juventus) per Achilli; Muccinelli (Juventus) per Nyers I; Lorenzi (Inter) per Nordhal III.
RIVER PLATE: Carizzo, Vaghi, Soria, Jacono, Rossi, Ramon, De Cicco, Col, Di Stéfano, Labruna, Lostau.
Arbitro: Scherz (Svizzera).
Reti: Nyers I 24′ (T), Labruna 25′ (R), Annovazzi 47′ (T), Di Stefano 81′ (R).
Spettatori: 40.000 circa per un incasso di circa 20 milioni di lire.

Altro gesto magnifico che vive ancora oggi nella memoria e nelle tradizioni delle due tifoserie è stato quello dello “scambio” delle maglie. In un’epoca, la nostra, dove i colori e l’affetto per le maglie “storiche” ha lasciato il passo alle politiche di marketing, i colori e le rifiniture delle divise di River Plate e Torino sono ancora mutuati dall’una e dall’altra società.

La maglia del River Plate, elegantissima, bianca con la banda trasversale rossa (la franja) è diventata la seconda maglia del Torino che la banda l’ha colorata di granata e vice-versa la maglia del Torino, tutta granata, è diventata la seconda maglia del River Plate. Ecco spiegate anche le origini delle divise moderne delle due squadre.

CONCLUSIONE.

Storie lontane 11.000 km che improvvisamente si intrecciano per sempre nella storia dello sport, vite parallele e analogie che nascono e crescono senza nemmeno saperne l’una dell’esistenza dell’altra, fino a quando non si incontrano. Lo sport e il calcio sono fatti così. Lingue universali che non si possono spiegare, gesti tecnici ed emozioni che si possono solo ammirare. Eventi che creano legami indissolubili, resistenti allo scorrere del tempo e al cambiare delle epoche. Il Torino proverà a tornare così grande.

Il River Plate grande è rimasto e ha conservato la propria ammirazione ed il proprio affetto per quella leggenda italiana che tanto affascinò gli appassionati di calcio dell’epoca e che continua ad affascinare gli studiosi del calcio storico di oggi.

Quel Torino era uno spettacolo e se fosse stata una sinfonia generalmente avrebbe assunto questo suono: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. La sinfonia del Torino di Ferruccio Novo suonava talmente forte tanto che la udirono fino a Buenos Aires, dall’altra parte del mondo, dove a quanto pare ancora oggi se la ricordano esattamente come noi.


BIO: Matteo Cigna è nato a Genova, città nella quale ancora oggi vive, occupandosi quotidianamente di spedizioni marittime.
Le sue più grandi passioni sono il calcio e la scrittura, due mondi che lo portano a leggere e documentarsi costantemente su questo meraviglioso sport e sui personaggi che lo popolano. Tra il 2020 e il 2021 con grande umiltà ed entusiasmo ha fondato, con l’aiuto di un paio di amici, il blog e la relativa pagina Instagram ‘Sport-stories’, ma il progetto è poi “naufragato”. 
Da buon marinaio non si è dato per vinto e dopo mesi di riflessioni e attese ha deciso di rimettersi in viaggio nell’immenso oceano del football. 
“Scrivere per ‘La complessità del calcio’ sarà un piacere e un onore” [cit. Matteo Cigna]
 

2 risposte

  1. Buongiorno Matteo
    Grazie per avermi regalato emozioni forti.
    E il famoso quarto d’ora granata ,dove Mazzola si rimbocca le maniche della maglia granata per suonare la carica ai compagni , insieme al famoso strumento ,se ricordo bene un corno suonato da un tifoso.
    Ho vissuto un provino al Torino al Filadelfia nel lontano 72 . me lo porto nel cuore per tutta la vita quel giorno. Lo spogliatoio intatto ancora con lo scaffale per le scarpe con i relativi nomi , la gigantografia in fondo al corridoio degli spogliitoi , un’aria davvero unica . E la domanda che mi posi” ma cosa centro io con questi grandi personaggi”
    Scusa se ho messo un ricordo personale, ma ancora complimenti per il tuo articolo.

    1. Ciao Claudio!
      grazie a te per le belle parole e per l’aneddoto sia relativo al quarto d’ora granata che tuo personale. Quella del Grande Torino è una storia che va oltre ogni fede calcistica e che resta nel cuore degli sportivi. Ricorda un tempo andato, di un mondo diverso, impossibile da replicare. Un saluto e ancora grazie

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