Quando un artista del pallone entra in uno stato di trance poetica o immaginativa, raggiunge vette tanto elevate da trasporre il proprio genio in opere d’arte sul campo. Leo Messi ha abitato quello stato con una naturalezza irritante per chi, della fatica e del rumore, ha fatto mestiere. E ora che ha compiuto 38 anni, mentre con l’Inter Miami trascina la squadra agli ottavi del Mondiale per club come se il tempo si fosse dimenticato di lui, il punto non è più come faccia. Il punto è perché non abbia mai smesso.
Di giocatori longevi ne è piena la storia del calcio. Ma pochi, pochissimi, hanno saputo invecchiare restando sé stessi, senza diventare caricature o reliquie. Messi no. È rimasto intatto. Ha cambiato latitudine, colori e accenti, ma non ha mai tradito la sua cifra: quel misto di controllo ossessivo e intuizione feroce, che lo fa apparire sempre quegli istanti decisivi avanti a tutto e tutti.
Non è una questione di numeri, anche se ce ne sarebbero a pacchi: 33 qualificazioni su 33 tra club e nazionale, mai eliminato in una fase a gironi, record aggiornato pure con la maglia rosa pastello di un’Inter Miami che sembrava più franchigia da marketing che realtà calcistica. E invece, con Messi dentro, la squadra ha messo il naso tra le grandi del mondo. Non per fortuna. Per geometria. Per logica. Per l’ultima aura superstite di un calcio che non ha bisogno di urlare.
Cosa ha contraddistinto Leo Messi, dunque? La risposta è data dalla sua inattualità. Sì, proprio così. In un calcio che ha preso a correre come un matto, che si è dato al pressing come religione e al muscolo come divinità, lui ha scelto di camminare. Camminare, osservare, calcolare, e poi, al momento giusto, colpire. Come il serpente che studia la preda per ore, immobile, finché non sferra il colpo secco. Un solo tocco, e il resto è silenzio. Lo si vede anche ora, alla soglia della terza primavera americana. Attorno a lui, ventenni tatuati come centurioni e pieni di corsa. Lui no: fluttua. Dosa. Sparisce per un tempo e poi, come nei grandi romanzi, riappare all’ultima pagina per risolvere tutto. È il suo modo di fare. È il suo modo di esserci.
Messi è stato, ed è ancora, come quegli imperatori che governano per sapienza, non per imposizione. Se Maradona era l’urlo del Sud, Messi è il sussurro che tutti ascoltano. Come un monaco zen del pallone, distaccato da ogni vanità, interessato solo all’essenziale: la palla, il movimento, il varco. Nulla più. E già quel nulla bastava a far saltare tutte le difese. A 38 anni, mentre molti coetanei allenano o commentano, lui gioca ancora. Non per capriccio, ma perché il campo gli parla ancora una lingua che lui solo comprende. E quando quel campo è silenzioso, lui lo riempie con tocchi corti, rasoiate diagonali, passaggi ciechi che sembrano venire da un’altra epoca. Un calcio che trascende la logica del tempo, come certi film in bianco e nero che emozionano anche se non gridano.
Con l’Inter Miami ha fatto quello che fece con il Barcellona e l’Argentina: ha trasformato il contesto. Non si è adattato: ha obbligato il contesto ad adattarsi a lui. Una squadra che sembrava creata per il merchandising ora gioca come se dovesse difendere l’onore di una dinastia. E lui, ancora una volta, è il principe silenzioso che la guida. Chi non capisce Messi oggi, probabilmente non lo capirà mai. Perché lui è l’antitesi del tempo moderno: non è virale, non è spettacolare nel senso social del termine, è lontano anni luce dagli atteggiamenti da divo di un Neymar. È puro. E questa purezza, oggi, fa rumore. Un rumore sommesso, ma acutissimo, come il suono della verità.
Per questo, quando ci si chiede cosa lo abbia contraddistinto, non si può rispondere solo con le statistiche, le coppe o i gol. Messi è stato, ed è ancora, l’ultimo poeta di un’epoca che ha smesso di scrivere versi. Un’epoca contraddistinta dalla fisicità e dalle interazioni sui socia. Gli altri si sparano le pose, Leo Messi scolpisce. Gli altri corrono, lui danza. E mentre il mondo si affanna, lui si limita a fare ordine nel caos.
A pensarci bene, Messi non è mai cambiato. Ha solo modulato il battito, ha accordato la frequenza del suo passo all’inesorabile metronomo del tempo. Non ha rincorso il futuro: lo ha atteso con calma, come fanno i saggi, o i predestinati. È stato il calcio attorno a lui a mutare pelle, diventando più frenetico, più sordo, più nervoso. Più smanioso di effetti speciali e meno affamato di verità. Eppure lui, Leo, ha continuato a vedere tutto. Come un samurai al tramonto, che nella quiete del giorno che muore affila ancora la lama. Una lama che non mostra per vanità, ma che quando decide di usarla… silenzia tutto il resto.E allora ti accorgi che il calcio, quello vero, non è mai andato via.
Era solo lì, nel piede sinistro più famoso del nostro tempo, in attesa della sua prossima pennellata. Il calcio di Messi. Quel calcio fatto di pause e visioni, di tocchi corti e occhi lunghi. Il calcio di una leggenda viva, che con un altro extraterrestre — il suo opposto perfetto, Cristiano Ronaldo — ha regnato su un’epoca intera. Due imperi diversi, stessi confini temporali. Un regno che dura quasi un giubileo, ma che sembra non avere fine.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.