ANDIAMO IN CAMPO – CAPITOLO 1 – PREMESSE METODOLOGICHE

Inizia la collaborazione con Mister Giovanni Valenti già allenatore nei Settori Giovanili di Brescia, Milan, Juventus e Parma nonchè tecnico nello staff delle Nazionali U19 e U20 nelle stagioni 19/20 e 20/21.

Verranno successivamente proposte esercitazioni con vari obiettivi e rivolte a categorie differenti, tenendo sempre in considerazione le seguenti premesse metodologiche:

Premesse metodologiche

Avevo 19 anni, ero da poco iscritto al primo anno di Economia e Commercio, giocavo (male) a calcio nelle più basse categorie dilettantistiche; un giorno, il mio Mister mi chiese di allenare insieme a lui i bambini della nostra Scuola Calcio. Fino a quel momento, non avevo nemmeno considerato l’idea di provare a fare l’allenatore, ma mi misi in gioco, spinto dalla curiosità. Non avevo la minima idea di cosa avrei fatto fare a quei bambini durante il mio primo giorno da allenatore.

Per avere qualche nozione di base, chiamai il mio insegnante di educazione fisica delle elementari, allenatore di pallacanestro: dovevo imparare a strutturare con cura gli allenamenti, evitare pause troppo lunghe durante la seduta, padroneggiare i contenuti e il relativo lessico.
Fin dal primo giorno, trovai gratificante stare in campo con i bambini, la passione si faceva man mano più forte, e con il crescere della passione, cresceva il desiderio di conoscenza.

Allora, l’accesso alle informazioni era più difficile, l’Era di Internet era lontana, la lettura della rivista “Il Nuovo Calcio” e di alcuni libri era il modo migliore per provare a studiare e a capire alcune basilari nozioni di metodologia. Con il passare degli anni, ho superato diverse “superficiali certezze metodologiche”, figlie di convinzioni che scaturivano dalla mia poca conoscenza e che venivano poi smentite sia dalla lettura di concetti diametralmente opposti, che dall’analisi critica della mia pratica sul campo.

Sono passati 29 anni: ho avuto la fortuna di incontrare diverse persone, superiori e colleghi, grazie ai quali ho costruito la mia personale visione metodologica, sempre più chiara e definita, con l’obiettivo di accompagnare e sostenere i giovani giocatori nel loro percorso formativo. Più si acquisiscono conoscenze, più i concetti si chiariscono e le teorie prendono forma, ma è importante che restino in continuo divenire: oggi ho più dubbi che certezze nei dettagli, ma stabilità negli elementi fondanti.

Tre sono i concetti che ritengo fondanti e rappresentativi dell’approccio metodologico

  1. Relazione e contesto
  2. Specificità
  3. Relazione partita-allenamento

1. Relazione e contesto
Nel processo di apprendimento, la relazione e il contesto giocano un ruolo fondamentale nel determinare il successo e la profondità dell’esperienza educativa. Penso sia insufficiente focalizzarsi esclusivamente (o quasi) su questioni prettamente tecniche e tattiche senza riconoscere l’impatto significativo che la qualità delle relazioni e il contesto in cui avviene l’apprendimento hanno sull’esito del processo di apprendimento stesso. In effetti, con relazioni si intendono molteplici relazioni: tra allenatore e giocatori, tra i giocatori stessi, tra la squadra (allenatore e giocatori) e il contesto. Il contesto, a sua volta, comprende anche le famiglie dei giocatori, i dipendenti e i dirigenti della società, nonché il suo clima organizzativo, la cultura e le abitudini sul calcio nella comunità sociale. L’apprendimento dei ragazzi è situato all’interno di queste dinamiche, che non possono essere trascurate e a cui dobbiamo costantemente prestare attenzione.
Ritengo che la fiducia sia cruciale per vivere esperienze formative: quella che il giocatore percepisce da parte dell’allenatore, e quella che prova nei suoi confronti.
Questa fiducia reciproca favorisce un clima di apertura e rispetto reciproco in cui i ragazzi si sentono sicuri nell’esprimere se stessi, le proprie idee e il proprio talento.

Anche l’attenzione al lato umano dei giocatori è molto importante: coerentemente con l’approccio sistemico, il giocatore e la persona non sono scindibili. Ciò implica considerare certamente le abilità e le prestazioni di ognuno, ma anche avere cura delle soggettività, cercando di coglierne i bisogni, le emozioni, le aspettative e le esperienze.

Ritengo che, grazie a questa “umanizzazione” della relazione e del contesto in cui si situa, i ragazzi si sentano più coinvolti emotivamente e motivati a impegnarsi attivamente nel proprio processo di apprendimento.

2. Specificità
Ritengo fondamentale per favorire l’apprendimento che i giocatori vivano durante gli allenamenti esperienze specifiche legate al proprio gioco-sport.
Seppur in allenamento non si potrà mai replicare la realtà della partita, in quanto non si potranno mai riprodurre tutte le condizioni della competizione, soprattutto (ma non solo) dal punto di vista emotivo, possiamo scegliere una metodologia di allenamento che abbia l’ambizione di avvicinarsi il più possibile a quanto i giocatori dovranno vivere e sperimentare durante la competizione stessa.

Durante la partita di calcio i ragazzi giocano in un ambiente vivo, in continua mutazione, in cui regnano l’incertezza e la difficoltà nel prevedere come si evolverà di volta in volta la situazione di gioco. La capacità di giocare efficacemente in questo ambiente può essere acquisita e sviluppata solo ricreando contesti simili in allenamento.
Non penso si possa dare un’unica, assoluta e definitiva definizione di specificità, ossia stabilire quando un mezzo di allenamento si possa considerare specifico rispetto a un determinato sport. La mia personale considerazione è che gli elementi minimi che rendono specifico un mezzo di allenamento siano: la palla, i compagni e gli avversari. Altri due fattori fondamentali per incrementare il livello di specificità sono la direzione di gioco e la presenza delle porte. Quando in un mezzo di allenamento scegliamo di togliere uno o più di questi elementi, ci stiamo allontanando dalla realtà del gioco: dobbiamo esserne consapevoli.

3. Interdipendenza partita – allenamento

Da un punto di vista di processo di lavoro, il rapporto esistente tra la partita e l’allenamento penso dovrebbe essere di natura circolare, in costante continuum. Per giocare una partita, una squadra può scegliere di utilizzare innumerevoli stili di gioco, molto diversi se non addirittura opposti tra loro.

Al variare dello stile di gioco, non solo cambieranno, come è chiaro ai più, le richieste tecniche e condizionali per i giocatori, ma anche quelle cognitive, relazionali, emotive e volitive. E’ quindi importante che ci sia un forte link tra come si gioca una partita e come si sceglie di allenare la propria squadra, una coerenza sinergica tra stile di gioco e metodologia d’allenamento. Se dal punto di vista operativo, come detto, questi due aspetti dovrebbero essere in costante relazione circolare, dal punto di vista teorico ritengo si dovrebbe sempre partire dalla scelta di come si vuole giocare.

Da questa prospettiva, lo stile di gioco non solo consiste nel “come” vogliamo giocare la partita, ma è un riflesso della filosofia e della mentalità della squadra, ne definisce l’identità. I singoli giocatori possono sentirsi parte di un unicum meraviglioso e più grande quando l’identità di squadra è forte, chiara e coerente con le proprie aspettative e il proprio modo di essere. Quando una squadra abbraccia pienamente il proprio stile di gioco è in grado di giocare con un senso di unità che può contribuire al risultato sportivo e che va oltre il risultato sportivo stesso. In definitiva, ritengo che lo stile di gioco sia l’anima della squadra, una dichiarazione di identità e di intenti e che, in quanto tale, dovrebbe essere la meta del processo metodologico dell’allenamento.

BIO: GIOVANNI VALENTI è Laureato in Economia e Commercio ed ha conseguito la licenza di allenatore UEFA A. È appassionato di lettura, corsa e cucina.

Una risposta

  1. Mister direi che la scrittura è limpida e lineare….se andasse male come allenatore potrebbe fare lo scrittore…scherzi a parte più leggo di lei e più mi piace come la pensa…se il punto 2 e il punto 3 dovrebbero essere “scontati” in un contesto di squadra di calcio, il punto 1 non lo è affatto e aggiungo purtroppo perchè molte volte si frappone il voler vincere al voler far crescere la propria rosa. Ci si concentra sui propri ragazzi e si mollano gli altri arrivando a fine stagione a vincere il titolo ma ad aver perso per strada diversi ragazzi delusi per l’emarginazione. su questo aspetto gli allenatori giovanili (e sottolineo giovanili perchè ritengo che invece nelle prime squadre il contesto cambia radicalmente e quindi l’approccio è di altra natura non è più ti insegno a giocare ma ti aiuto a fare prestazione) ne hanno ancora di strada da fare

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