“PER ME SIETE TUTTI TITOLARI”.

UN’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ SCAMBIATA, A VOLTE, PER GARANTISMO.

Decidere chi sarà titolare e chi andrà in panchina rappresenta spesso la prova del fuoco per molti allenatori, lo sparti acque umano tra chi sarà riconosciuto e rispettato dai propri giocatori e chi verrà stritolato dall’assottigliarsi dei confini tra i diversi ruoli.

Esattamente come succede ai genitori, quando si trovano davanti alla necessità di negare ai propri figli qualcosa a cui tengono molto per mandar loro un messaggio educativo, allo stesso modo per gli allenatori l’ostacolo più grande da affrontare è l’eventuale frustrazione che potrebbe nascere da una decisione difficile da accettare per l’altro.

Spesso questo momento li porta a rischiare di rinnegare alcuni loro principi per la difficoltà di reggere l’urto derivante dal malcontento degli esclusi.

A volte il dilemma può riguardare un solo giocatore:

“Posso farlo giocare domenica anche se non si è allenato durante la settimana?” il sacrificio del tutto per una singola parte.

Lo storico coach della squadra di basket dell’università di North Carolina, Dean Smith, gestì il tema della scelta dei titolari in maniera implacabile, definendo in maniera netta dall’inizio quello che sarebbe stato il quintetto base della stagione e i suoi relativi sostituti, una scelta assoluta senza se e senza ma.

Smith arrivò a definire una “second unit”, un vero e proprio secondo quintetto che potesse avere una funzione dichiaratamente sussidiaria.

Gli aspetti su cui puntò maggiormente, per far accettare ad una parte dei suoi giocatori un ruolo di rincalzo, fu il senso di appartenenza ad una squadra che potesse essere percepita come speciale, implementando la sensazione di far parte di qualcosa di unico in cui fosse entusiasmante esserci a prescindere dal ruolo.

La second unit aveva compiti precisi che i partecipanti vivevano come importantissimi ed unici, perché era loro compito esclusivo quello di dar fiato ai titolari, recuperare o mantenere il punteggio e mostrare ai compagni modalità alternative per affrontare gli avversari.

La dinamica tra titolarità e sostituzione diventa complementare, le due parti si scambiano continuamente in una interdipendenza simile ai due bulbi della clessidra senza diventare simmetriche, non saranno mai l’una l’opposto dell’altra.

Ma in questo modo non si rischia di perdere gli stimoli, di dare per scontato un ruolo definito così chiaramente?

Chiaramente il contesto e la tipologia di leadership sono determinanti per poter proporre una definizione delle gerarchie della squadra in questa maniera, contare su un ambiente che accolga i giocatori passando loro la sensazione di essere dei privilegiati a poter difendere quei colori e a lavorare con un coach di quel calibro.

L’allenatore diviene la rappresentazione fisica dei valori della società che non potrà non sentirsi sempre rappresentata e, quindi, condividere le sue scelte.

Nel basket il sostituto è spesso una variabile determinante, una rimescolata al mazzo con dentro un nuovo jolly che a volte risulta determinante.

L’espressione “sesto uomo” è quella usata per rappresentare questa variabile nella pallacanestro, una variabile lucidissima che fornisce ad una squadra di basket una vera e propria arma segreta.

E nel calcio?

Accade lo stesso?

È chiaro che il raddoppiare praticamente tutto(numero dei giocatori, lunghezza della partita) annacqui inevitabilmente anche il potere del sesto uomo ma, probabilmente, la differenza è più concettuale che numerica.

Pensiamo alla finale di Champions League giocata nel 1999 a Barcellona tra Manchester United e Bayern Monaco, potremmo definirla come la celebrazione dell’estensione, i suoi protagonisti subentrarono tutti nella fase finale, quando il tempo aveva cominciato ad andare al contrario.

Teddy Sheringham e Ole Gunnar Solskjaer entrarono poco prima della fine, cambiando tutto solamente con le loro giocate innescate dai piedi telecomandati di David Beckham, riuscendo a riscrivere una partita che, ancora oggi, vediamo come inspiegabilmente ribaltata.

Nel calcio quando si parla del dodicesimo uomo, cioè il primo dei subentranti seguendo la vecchia numerazione, s’intende da sempre il portiere di riserva, un giocatore che raramente gioca, quasi assuefatto alla freddezza metallica della panchina e al cameratismo con i compagni che però, diversamente da lui, possono vedere sempre nel campo come un raggio di speranza.

Il sesto uomo del basket è un vero e proprio ruolo, una sentenza sulla carriera di un giocatore che, pur potendo anche migliorare e cambiare le sue caratteristiche, rimarrà per sempre l’arma segreta da usare al bisogno.

Anche il calcio ha avuto i suoi subentranti letali, giocatori capaci d’innescarsi istantaneamente, anime ad alto voltaggio che non hanno bisogno di preamboli per andare al punto.

Questa tipologia di calciatori, però, raramente rimane intrappolata in quel ruolo e, molto più spesso, vive quella caratteristica come un passaggio della carriera.

Molti grandi campioni come Josè Altafini si ritagliarono un finale di vita calcistica da subentranti determinanti, miscelando delle energie ormai limitate con un’esperienza crescente.

Ma potremmo mai definire, in assoluto, il grande Josè come un “sesto uomo”?

Assolutamente no!

Possiamo definire Daniele Massaro, altro grande rappresentante della tempesta dalla panchina, come un sesto uomo?

Probabilmente avremmo bisogno di una fortissima amnesia che ci consenta di cancellare la storia di un giocatore che, come pochi, ha rappresentato il prototipo del calciatore universale, favorito da una reattività fisica speciale e da una costante capacità di adattamento a differenti compagni d’attacco, fattori che lo hanno portato a giocare una finale di un campionato del mondo…da titolare!

La stessa risposta potrebbe valere se ci interrogassimo su tanti altri giocatori, inclusi i sopra citati Sheringham e Solskjaer, con qualche dubbio solo su quest’ultimo che, probabilmente, potrebbe rappresentare l’eccezione alla regola.

“Mister quando entro io?”

Questa è una domanda che nel calcio ha una valenza molto diversa da quella che potrebbe avere in altri sport perché il calciatore, facendo il suo ingresso in campo, sente l’eccitazione di avere finalmente il destino nelle sue mani, la possibilità di smentire tutti e di ribaltare qualsiasi gerarchia preesistente.

Infatti, quando capita che un sostituto venga sostituito a sua volta, assistiamo ad un caso raro e dal significato potentissimo, quasi un’onta indelebile.

A meno che un sostituito non debba uscire per infortunio o altri imprevisti è rarissimo che torni in panchina, infatti, le poche volte che succede ha un significato potentissimo, una lettera scarlatta indelebile.

“Per me siete tutti titolari!”

È la frase del mondo del calcio più rassicurante che esista, placa ogni ansia, ogni incertezza, parifica tutti in una gerarchia ideale che, per un momento, riesce a dimenticarsi di qualsiasi altra.

Ma la trappola che nasconde questa comodità è enorme, ben celata dentro un’interpretazione qualunquistica che ci fa dimenticare come quella frase sia fondamentalmente una richiesta di assunzione di responsabilità e non un prodromo buonista per sedare la frustrazione.

Un allenatore quando la rivolge ai suoi giocatori intende rassicurarli sul fatto che, se loro si impegneranno al massimo, lui ,a sua volta, s’impegnerà a valutarli onestamente senza pregiudizi.

Il messaggio che deve passare è che lui stia chiedendo a tutti i suoi giocatori di rendersi parte del gruppo attraverso l’impegno e la dedizione. In questo modo saranno tutti titolari.

La reale potenza di questa frase sta nel fatto che non rappresenti una promessa rassicurante ma una vera e propria chiamata alle armi in cui il leader della squadra sta dicendo ai suoi calciatori che loro sono tutti importanti allo stesso modo finché rimangono disponibili a donare tutto il loro impegno, a prescindere e incondizionatamente.

BIO: Davide Bellini

  • Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.
  • Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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