APPUNTI E SPUNTI DOPO UNA SETTIMANA DI COPPE EUROPEE.

Fatti i doverosi complimenti alle tre squadre di casa nostra, capaci di raggiungere la finale di una competizione europea, e sottolineato il dato che ha visto Inter e Fiorentina schierare 5 giocatori italiani nella semifinale di ritorno, viene spontaneo riflettere a seguito dei commenti che opinionisti e addetti ai lavori ci hanno proposto all’esito dei match europei.

Se l’opinionista riveste (o dovrebbe rivestire) la funzione di stimolare le riflessioni degli ascoltatori appassionati, questi ultimi sono attualmente in possesso di tutti gli elementi per formare il proprio convincimento in un’epoca in cui il pre e il post partita tendono a catalizzare l’attenzione come o più dell’evento stesso.

Una sorta di “commento al commento” è quello che si tenterà di approntare, senza la pretesa di conoscere la verità assoluta ma consci che alcuni concetti fatti passare come postulati vadano, in realtà, rimodulati.

Nemmeno il più convinto avversatore del modo di allenare e di concepire il calcio proprio di Guardiola potrà contestare che quanto posto in essere dai Citziens abbia rappresentato un delizia per  gli occhi degli spettatori.

Ciò premesso, vi sono alcuni aspetti da considerare.

L’esaltazione della prestazione del City ha tratto giovamento dal roboante risultato con cui si è conclusa la gara di ritorno con il Real.

Da giorni si dibatte in merito all’estetica, alla capacità di sfruttare l’ampiezza, alla qualità dei passaggi, dei movimenti, delle giocate degli uomini di Guardiola.

In realtà, le due compagini si sono affrontate anche nel corso delle precedenti edizioni della Champions League.

Sei sfide, per la precisione, dal febbraio 2021 al maggio 2023.

Due volte è passato il Manchester mentre in un’occasione (2022) è stato il Real a prevalere.

Se l’ammirazione per il gioco del City, che in questi giorni oblumina i ragionamenti calcistici di noi tutti, ha matrice genuina e sincera, avremmo dovuto ascoltare gli stessi ragionamenti al termine della sfida dello scorso anno.

Si proprio quella che ha visto sconfitti i celesti di Manchester.

Ciò in quanto non sussiste una palese differenza tra il modo con cui il City si è espresso quest’anno e quello con cui si propose nella passata stagione (sempre contro le merengues).

I due incontri di Champions League 2021-2022 ebbero un andamento di gara simile alle sfide di quest’anno.

Anzi. A volerla narrare in modo corretto, nell’edizione precedente, i Citiziens imposero in maniera più netta il loro gioco nella sfida giocata al Bernabeu, finita male per loro in ossequio alle variabili che rendono il calcio uno dei contesti più belli ma anche più crudeli del pianeta.

Ovviamente il pensiero che ci accompagna è di assoluta ammirazione verso Guardiola e la sua squadra, ma perché la meravigliosa espressione del suo calcio viene elogiata solo a seguito del risultato positivo?

12 mesi fa si ascoltava e si leggeva di una “lezione impartita a Guardiola”.

Ma quale lezione?

Ci sta di evidenziare i risultati (positivi e negativi) ed è del tutto normale che l’esito di una gara rappresenti uno degli elementi di giudizio ma, se da giorni continuiamo a beatificare il Manchester City per la bellezza che mostra e porta sul terreno verde, dovremmo avere la coerenza e la correttezza di farlo ogni volta in cui a prescindere dal risultato è capace di esprimersi in quel modo.

E questa prerogativa andrebbe fatta valere per il City come per tutte le altre squadre.

Entrando nel merito delle discussioni calcistiche degli ultimi giorni, il primo postulato da abbattere è quello secondo cui “Guardiola riesce a proporre quel calcio perché ha grandi interpreti” o, peggio ancora, “Con quei giocatori, chiunque farebbe giocare bene la propria squadra”.

Nessun dubbio sul fatto che il valore tecnico dei calciatori del Manchester City sia di prim’ordine ma siamo sicuri che nell’immaginario collettivo rappresentino i migliori su piazza?

Nelle discussioni di addetti ai lavori, opinionisti o semplici appassionati, quando dibattiamo  dei migliori difensori, siamo davvero soliti citare Ruben Diaz o Stones?

De Bruyne a parte, quando menzioniamo i calciatori dei nostri sogni facciamo riferimento a Gundogan, Rodri, Silva, Mahrez? O preferiamo citarne altri?

Ma se anche, per denegata ipotesi, volessimo prendere per buona la teoria che Guardiola alleni assoluti fenomeni, chi di loro, prima di incontrare Pep, aveva mostrato simili livelli di rendimento e bravura?

Torniamo indietro di tre lustri. Durante l’esperienza catalana, il nostro aveva ammaliato tutti per qualità di gioco e risultati.

Da lì partì la “solfa” secondo cui “Quel gioco si può fare solo se hai Iniesta e Xavi”.
Peccato, per i fautori di questa malsana teoria, che i suddetti prima di essere allenati da Guardiola avessero già maturato rispettivamente 150 e 200 presenze tra i professionisti, senza mai arrivare ai livelli mostrati con lui.

Ragionamento analogo da opporre a chi, ad oltre trentacinque anni di distanza, continua ad affermare che Sacchi, durante l’esperienza al Milan, è stato in grado di proporre un certo tipo di calcio solo perché poteva contare su fior di campioni tra cui i tre olandesi.

Dimenticano costoro che,  nel primo anno con Sacchi alla guida dei rossoneri, di olandese ne giocò solo uno e che otto undicesimi della squadra fossero gli stessi dell’annata precedente al termine della quale finirono sesti, nonostante chi li allenava non fosse proprio un signor nessuno….

Certo, Franco Baresi era già campione d’Italia a 18 anni e campione del mondo senza giocare a 22, ma i livelli raggiunti con Sacchi non sono minimamente paragonabili a quelli toccati in precedenza. Senza considerare altri giocatori come Tassotti, Virdis, Ancelotti dalle carriere brillanti ma molto distanti dagli apici raggiunti con il mister di Fusignano.

Non scomodiamo poi i vari Colombo, Evani e Galli, calciatori di assoluto valore ma il cui incontro con Sacchi ha rappresentato l’inizio di un nuovo modo di concepire, prima ancora che di giocare, il calcio.

Andiamo a vedere i competitor al tempo di Sacchi o al tempo dell’Ajax di Michels e Kovacs: ci accorgeremo che trattavasi di compagini che annoveravano, a loro volta,  grandissimi campioni ma non per questo proponevano un calcio pari a quello dei due citati allenatori.

Lo stesso dev’esser riconosciuto al City.

Ci sono squadre in Europa che possono vantare calciatori di assoluto valore, se non fenomeni del pallone, ma non per questo propongono le stese emozioni e la stessa bellezza.

Da qui, tuttavia, il passo è breve per l’obiezione di matrice opposta ossia “Guardiola può allenare solo soldatini”. Se nel caso precedente si trattava di una sciocchezza, in questo caso si tratta di un falso storico. Non è forse con Guardiola che Messi ha dimostrato il suo incommensurabile valore?
Non è forse nel Barcellona che è cresciuto come calciatore sino a toccare i vertici assoluti del calcio mondiale?

Certo, il Manchester City schiera grandi campioni ma il vero interesse è comprendere quanti di loro  fossero tali al loro arrivo e quanti, viceversa, lo siano diventati sotto la guida del mister attuale.

In seno a questo blog già si è dibattuto in merito a temi come la qualità o la meritocrazia nel calcio, il più delle volte rapportandoli al contesto proprio dei settori giovanili.

Guardiola (non solo lui per la verità) ci dimostra che la formazione può esser svolta anche ai massimi livelli del calcio professionistico.

 L’idea di non relegare un calciatore ad un ruolo ma di renderlo funzionale al collettivo, fa sì che vengano rimodulate in continuazione le conoscenze e le capacità cognitive di ogni singolo elemento a cui viene chiesto di conoscere non solo i “suoi” movimenti ma anche quelli dei compagni.

E’ evidente come i calciatori del City risultino dotati di ottima tecnica ma non è quella che li rende speciali nelle fase di costruzione e di sviluppo dell’azione.

La tecnica è solo un elemento funzionale da porre in correlazione ai movimenti e ai sincronismi, alla postura in fase di ricezione ed all’attitudine a  non perdere i tempi di gioco, nonché alla capacità di assumere di volta in volta la scelta più opportuna. Ed all’interno di questa corrispondenza biunivoca, tra ciò che ognuno offre al collettivo e ciò che il collettivo rende al singolo elemento, si configura il concetto di formazione da poter proporre anche in ambito professionistico.

Giusto esaltare il calcio del City dunque. Ma se davvero lo facciamo perché rapiti dalla bellezza e dalla poesia calcistica, continuiamo ad esaltarlo, sin tanto che i principi sottesi saranno quelli dianzi citati, anche in caso di risultati meno brillanti.

Tanto, lo sappiamo, alla prima sconfitta di Pep gli squali sono pronti a riemergere…

Di diversa matrice sono risultati i commenti che hanno accompagnato la qualificazione della Roma alla finale.

Doveroso complimentarsi con la squadra giallorossa, e con chi l’allena, per le due finali europee raggiunte in 12 mesi.

Le analisi emerse alla fine dell’incontro con il Bayer Leverkusen, tuttavia, anziché tener conto dei principi sottesi al calcio proposto dal loro allenatore, sono sembrate finalizzate ad un’esaltazione emotiva che non tiene conto del vero corso degli eventi.

Non sarà certamente chi scrive a muovere critiche ad un allenatore che può contare un palmares tra i più ricchi della storia. Di fronte al numero di successi ottenuto in carriera da Mourinho c’è solo da togliersi il cappello.

Ascoltare, tuttavia, opinionisti e direttori di quotidiani specializzati affermare che la Roma ha praticato un calcio totalmente difensivo perché decimata dalla assenze, e priva di alcuni tra i suoi elementi più validi, induce a riflessioni che portano a conclusioni differenti.

Il tecnico portoghese, per i suoi meriti, ha avuto modo di allenare, tra le altre, Manchester United, Inter, Real e Chelsea avendo, con particolare riguardo alle esperienze di Madrid e Londra, alle sue dipendenze autentici campioni che hanno caratterizzato la storia del calcio più di quanto abbiano fatto e faranno, a livello individuale, i giocatori del City.

Ciò nonostante, l’idea di calcio è stata sempre finalizzata a lasciare all’avversario il possesso della palla e il dominio del campo. Nulla di eretico nel prediligere un calcio più speculativo. Ogni allenatore lavora sui principi e sui concetti che sente propri ed a mezzo dei quali ritiene più agevole entrare in sintonia con i propri giocatori.

Il raggiungimento del risultato non deve però traviare i commenti degli addetti ai lavori.

E’ assai probabile che la Roma, a cui a scanso di equivoci ribadiamo i complimenti, avrebbe impostato la gara di Leverkusen in modo simile anche se fosse stata al completo, come solito fare il proprio allenatore. 

Le assenze, soprattutto se sono tante e colpiscono giocatori cardine, possono abbassare il livello di competitività di una squadra e di un gruppo, anche per la preoccupazione di non poter contare sui giocatori abituati a prendersi le responsabilità, ma non rappresentano il discrimine tra giocare un tipo di calcio e un altro.

L’idea di calcio è frutto del lavoro quotidiano e continuo e non viene meno per le assenze di questo piuttosto che di quel giocatore.

Ciò valga anche per la Juventus, uscita dall’Europa League a conclusione di una gara in cui ha prodotto diverse palle goal che qualche rimpianto sono destinate a lasciare.

Anche in questo caso si discute, e molto, sulle assenze che hanno nel corso della stagione  indebolito la compagine bianconera.

Quanto alla proposta calcistica, tuttavia, ci sia concesso ritenere che, anche con la squadra al completo, la Juventus non avrebbe proposto una qualità di gioco superiore.

Gli indizi sul punto non mancano.

Basti pensare all’eliminazione del 2019 per mano dell’Ajax, con Ronaldo presente, o a quella patita dal Villareal in un doppio confronto in cui la squadra di Allegri è praticamente partita da 1-0 considerato come Vlahovic l’avesse portata in vantaggio dopo 30 secondi dall’inizio della gara di andata.

Non si può certo affermare che in quelle occasioni la Juventus non potesse contare su una rosa superiore all’avversario eppure, a prescindere dall’esito che può dipendere da mille variabili, ha tenuto per lunghi tratti un atteggiamento a metà tra il guardingo e lo speculativo.

Anche in questo caso lungi da chi scrive criticare un allenatore con una bacheca personale colma di trofei.
La critica è rivolta agli opinionisti che, nell’analizzare la proposta di calcio offerta, pongono la questione assenze quale scrimine tra giocare un calcio propositivo o meno.

La riprova ce la offrono tutte le partite in cui la squadra bianconera ha potuto comunque schierare alcuni tra i suoi migliori elementi senza con ciò elevare la qualità del proprio gioco.

Probabile che in queste occasioni abbia tratto vantaggio dalla qualità tecnica dei suoi frombolieri (Di Maria a  Nantes, Vlahovic a Siviglia) ma la qualità del gioco non si eleva all’improvviso inserendo un fuoriclasse.

Da ultimo un cenno sui commenti dedicati alla  Fiorentina.

Anche in questo caso la critica è stata benevola nei confronti di Italiano e dei suoi.

La squadra viola, deludente per risultati in campionato, ha raggiunto due finali di coppa.

Chi in queste ore ne sta elogiando i risultati qualche mese fa criticava aspramente l’allenatore nonostante i principi siano rimasti i medesimi (e questa è stata la grandezza di Italiano) dei tempi in cui i risultati non arrivavano.

Non che la Fiorentina abbia offerto sempre prestazioni memorabili nel corso di una stagione caratterizzata da un elevatissimo numero di partite giocate, oltre a due playoff di cui uno affrontato a Ferragosto al cospetto della squadra probabilmente più attrezzata tra quelle affrontate in Europa, ma i dati sul recupero nella zona avanzata del campo oltre a quelli sul numero dei calci d’angolo erano lì, allora come oggi, a certificare una proposta di calcio finalizzata alla propensione offensiva.

Non era facile passare da una squadra che schierava un elevato numero di palleggiatori (Odriozola, Torreira, Castrovilli) con Vlahovic che consentiva di “appoggiarsi” sulla punta ad una squadra con elementi più arrembanti (Dodo su tutti) ma meno razionali.

C’è stato un periodo di transizione, durato sino a stagione inoltrata a causa dell’arrivo di alcuni elementi a pochi giorni della chiusura del calciomercato e del tempo necessario a portare in condizione elementi come Dodo e Jovic fermi da mesi.

Mister Italiano avrebbe potuto eccepire queste situazioni ed invece non ha mai cercato scusanti se non sottolineare che spesso i risultati non rispecchiavano il reale andamento delle gare.
Senza considerare che la Conference League impone trasferte in località non sempre vicine agli aeroporti, con lunghi spostamenti che portano via tempo all’allenamento e al riposo.

Anche nelle partite meno fortunate, la Fiorentina ha quasi sempre mantenuto fede ai suoi principi.

La critica per lunghi tratti ha bacchettato Italiano contestandogli, di volta in volta, la difesa alta, il troppo turnover, le imbucate che di tanto in tanto la squadra tende a patire, per poi rimangiarsi tutto all’esito di due semifinali vinte con Cremonese e Basilea che, sia detto per inciso, rappresentano compagini assolutamente alla portata dei viola.

Nelle ultime ore si sente elogiare il gioco, il coraggio, la predisposizione offensiva della squadra del presidente Commisso.

Ma  è avvero accettabile che un risultato, per quanto importante, stravolga in bene o in male l’analisi  della proposta calcistica offerta da una squadra?

Urge un cambio di passo a livello comunicativo…

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

2 Responses

  1. Alessio, innanzitutto, il tuo è un commento onesto. Hai cercato di guardare il problema da più punti di vista e questo mi è piaciuto molto.

    Condivido in pieno il tuo commento, anche se con qualche sfumatura diversa.

    Tu scrivi “Ci sta di evidenziare i risultati (positivi e negativi) ed è del tutto normale che l’esito di una gara rappresenti uno degli elementi di giudizio ma, se da giorni continuiamo a beatificare il Manchester City per la bellezza che mostra e porta sul terreno verde, dovremmo avere la coerenza e la correttezza di farlo ogni volta in cui a prescindere dal risultato è capace di esprimersi in quel modo.”

    In questa tua frase che sottoscrivo in pieno ci sono due punti centrali “che l’esito di una gara rappresenti uno degli elementi di giudizio” e l’altro “continuiamo a beatificare il Manchester City per la bellezza che mostra sul terreno verde.”

    Dove la mia sfumatura è diversa dalla tua sta nella seconda frase. Sicuramente il gioco di Guardiola è gradevole e per nulla stucchevole; ma la bellezza non ha un solo volto o un solo modello. Questo a prescindere dal calcio.

    Guarda, forse abbagliato o ancor meglio condizionato da Gianni Brera, io ho sempre ammirato la bellezza dell’assetto difensivo. Forse mi sbaglio, ma Sacchi, Guardiola e gli olandesi sono quelli che in modo diverso (dall’Inter di Herrera) hanno sublimato questa fase.

    Non più difese alla “fort apache” , bella anche quella. Ricordo i tuffi in volo di Rosato in area di rigore, l’inscavalcabilità di Burnich, la sapienza difensiva di Picchi. O quel precursore del fluidificante (prima terzino e poi centrocampista aggiunto che è stato Nilton Santos).

    Ma come non ammirare anche la fase difensiva che assicuravano Beckenbauer e Schnellinger. D’altronde la vittoria nel mondiale del 1974 della Germania è stata incentrata sulla fase difensiva che ha vanificata la capacità degli olandesi di andare a rete.

    Gli allenatori citati da te e da me condivisi hanno recuperato la bellezza della fase difensiva, spostando sempre più in avanti la “linea Maginot” .

    Quanto a Guardiola e al Barcellona, per quel che mi riguarda sono vere entrambe le affermazioni, è il modo di giocare di Guardiola che ha fatto grande Messi, Iniesta e Xavi (non solo quelli); ma è anche verso che senza quelli non si poteva giocare esattamente in quel modo.

    Quindi, nello specifico ed in questo siamo perfettamente d’accordo, da un lato Guardiola non ha rinunciato ad un certo modo di giocare (non specializzazione estremizzata per ruoli) ma ha anche adattato il sistema di gioco del Barcellona ai quattro principi che lo hanno consentito in quella modalità: Puyol nell’estrema fase difensiva; Xavi nel tenere e gestire le situazioni e nell’assicurare distanze dei reparti; Iniesta nel creare a centro campo filtro pressing e penetrazione centrale fino anche dentro l’area di rigore e Messi, che partendo da posizioni normalmente defilate riusciva regolarmente a saltare i difensori e segnare.

    Non siamo in disaccordo, ma per me la bellezza non è solo prevalenza della fase di attacco, ma lo sfruttamento pieno delle qualità tecniche e fisiche dei propri calciatori. Ma per citarti un raffronto musicale, sicuramente l’armonia presente nella Cavalleria rusticana è bellissima, ma senza quell’urlo di dolore della madre di Turiddu nel finale e le grida delle donne “hanno ammazzato compare Turiddu”, l’opera ne uscirebbe monca.

    Perdonami non sono un tecnico ma solo un appassionato con esperienze naif in questo mondo del calcio, quindi più che analisi propongo “momenti” e “flash”.

    Comunque, complimenti per questo scritto.

    Giuseppe

    1. Buongiorno Giuseppe,
      a scanso di equivoci, il pezzo era riferito ad un certo modo di fare “opinionismo”, non voleva essere un confronto tra stili di gioco.
      Detto questo, e condivise molte delle Tue osservazioni, non sono convinto che il bravo tecnico sia quello che a giocare la squadra in base alle caratteristiche dei giocatori. A mio modo di vedere il tecnico deve offrire uno spartivo. Posso rivedere la sequenza degli assoli ma lo spartito dev’essere corerente ai principi. In questo blog è stato pubblicato un pezzo sulla qualità del calcio in cui, nel nostro piccolo, abbiamo provato a confutare questa tesi. Se hai itempo prova a darci un’occhiata.
      Non credo esistano giocatori da possesso e giocatori da non possesso. Rifuggo dall’idea che un calciatore , per sua indole e cognizione, non voglia giocare con la palla.
      E ci sono molti esempi in cui l’incontro con un allenatore ha modificato, o meglio ampliato, il ventaglio di conoscenze di alcuni calciatori.
      Che Beckenbauer fosse bello a vedersi siam tutti d’accordo ma li è questione di eleganza che va oltre i concetti di squadra.
      Un certo tipo di fase difensiva può esaltare dal punto di vista emotivo i tifosi di una compagine, su questo hai ragione, ma, seguendo il senso del pezzo, se la Roma avesse perso, all’indomani della gara di Leverkusen, avremmo ascoltato elogi ed ammirazione per quel tipo di atteggiamento?
      Un caro saluto.
      Alessio

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