“Nino, non avere paura di sbagliare un calcio di rigore”, cantava Francesco De Gregori nel 1982, raccontando di un ragazzino di dodici anni con il cuore in gola davanti al dischetto, pronto a dimostrare il proprio valore. Chissà cosa ha provato, quarantatré anni dopo, Ricardo De Burgos Bengoetxea quando si è trovato a fischiare un rigore decisivo al 96′ della finale di Copa del Rey tra Real Madrid e Barcellona, poi annullato grazie all’intervento del VAR. Il suo nervosismo era più che comprensibile, se si pensa al clima prepartita, in cui il club madrileno aveva alimentato sospetti sulla sua imparzialità.
Designato per dirigere la finale del 26 aprile 2025 a Siviglia, De Burgos si è ritrovato al centro di una vera e propria bufera mediatica ancor prima del fischio d’inizio: Real Madrid TV ha trasmesso un video critico nei suoi confronti, mettendo in evidenza presunte decisioni passate sfavorevoli al Real e insinuando una sua parzialità, senza però fornire dati di contesto o considerare le diverse condizioni di gara. In conferenza stampa l’arbitro ha mostrato un lato umano raramente visibile in chi svolge il suo ruolo: visibilmente commosso, ha raccontato di aver subito insulti sui social e nella vita privata, tanto che suo figlio sarebbe tornato da scuola in lacrime, apostrofato come “ladro” dai compagni. Quel momento di intensa emozione ha messo in luce la pressione e l’ostilità che gli arbitri subiscono, non solo sul campo, ma anche nella loro dimensione personale. Nel corso della partita la tensione è esplosa: Antonio Rüdiger, espulso per proteste, ha afferrato un sacchetto di ghiaccio e lo ha lanciato verso l’arbitro, gesto che gli è costato sei giornate di squalifica per “violenza lieve verso gli arbitri”. Anche Lucas Vázquez è stato fermato per due partite di Coppa del Rey a causa di proteste reiterate.
Questi avvenimenti evidenziano un problema ben più ampio: la deumanizzazione dell’arbitro nel calcio moderno. Un club della portata mediatica e simbolica del Real Madrid avrebbe dovuto riflettere con maggiore responsabilità sull’impatto delle proprie comunicazioni, anziché contribuire a un clima di sfiducia. In un’epoca in cui ogni parola viene amplificata, diventa imprescindibile che le società calcistiche promuovano il rispetto verso tutti i protagonisti del campo, riconoscendo la fallibilità e l’umanità che accomunano arbitri, giocatori e allenatori.

BIO: RICCARDO DI MAURO
Classe 2000, appassionato di tutto ciò che ruota intorno al pallone, anche quando rotola storto. Specializzando in Psicologia dello Sport, provo a capire cosa passa nella testa di chi scende in campo, chi resta in panchina, chi ha un cartellino in tasca e un fischietto in bocca, e chi guarda la partita dalle tribune. Credo che lo sport sia un ottimo pretesto per parlare di emozioni, identità e scelte. Scrivo per mettere ordine nel caos e dare voce a quei dettagli che spesso passano inosservati, ma che sono essenziali.