MONDIALE PER CLUB 2025 – QUARTI DI FINALE: IL BILANCIO FIN QUI


Mondiale per Club FIFA: esperimento fallimentare?

In una stagione calcistica segnata dalle polemiche riguardanti il numero crescente delle partite da disputarsi, ad aggiungersi ad esse vi è il Mondiale per Club, l’ultimo progetto di Gianni Infantino atto a riunire le migliori squadre per ranking di ogni continente, proseguendo nel segno tracciato dalla vecchia Coppa Intercontinentale. La scontentezza generale dei Club Europei è stata nei mesi via via ammorbidita dalla prospettiva di un ricco monte premi messo in palio dalla FIFA, riportando a più miti consigli anche i maggiori oppositori, per primo il Real Madrid che per voce di Carlo Ancelotti diversi mesi fa aveva addirittura minacciato il boicottaggio, data l’impossibilità di sostenere una preparazione adeguata per i calciatori. Gli scetticismi si sono ravvivati ai nastri di partenza della nuova competizione complici il caldo rovente e una programmazione spezzettata in vari fusi orari lungo tutto il territorio statunitense.

Per molti l’unico interesse a sopravvivere era quello per le squadre sudamericane, riaffaciatesi finalmente ad un palcoscenico mondiale, con nomi quali River Plate, Boca Juniors, Flamengo, Palmeiras ecc… che sicuramente non avranno lasciato indifferenti gli appassionati di calcio latino. Oltretutto l’idea di un primo confronto fra il Calcio europeo e quello del Resto del Mondo suscitava curiosità per constatare il reale dislivello tra il vecchio continente e il resto delle competitor. Terminati gli ottavi di finale possiamo aprire un primo bilancio del Torneo, tentando di capire quante e quali polemiche abbiano realmente colto nel segno:

Il fallimento delle due grandi argentine nei gironi è stato emblematico: Boca Juniors e River Plate sono uscite prematuramente, incapaci di reggere il confronto con realtà più solide e organizzate. Il verdetto è chiaro. Dalla Pampa i migliori se ne vanno sempre più giovani, e quando ritornano, lo fanno logorati da carriere estenuanti, spesso più per nostalgia che per reale competitività. Il risultato è che resta il fascino del nome, la forza evocativa della rivalità, ma nel confronto sul campo non c’è storia. La nobiltà è solo nella memoria, mentre sul prato verde ha trionfato la modernità tattica, la freschezza atletica e la profondità di rosa. La tradizione, da sola, non basta più.

Differentemente il percorso delle squadre brasiliane ha sancito la loro innegabile superiorità nel continente latino-americano; capaci di presentarsi al torneo nel pieno della loro stagione agonistica. Una condizione che ha fatto la differenza. Al contrario delle europee e delle argentine, i club brasiliani sono arrivati fisicamente pronti, con motivazione alta e un livello di agonismo elevato, che si è subito riflesso sul campo. A questo si è aggiunto un vantaggio non trascurabile: l’abitudine a giocare in condizioni climatiche simili a quelle del torneo. Temperatura, umidità, adattamento ambientale, tutti elementi che hanno reso i brasiliani più performanti e continui nell’arco delle partite.

Invalutabili per ora le squadre europee, invogliate solamente dal cospicuo cachet, molte arrivavano sfiancate dalle fatiche dell’anno, altre cercavano di sfruttare la finestra del mercato messa a disposizione per anticipare le tempistiche degli acquisti e metterli subito alla prova sul campo, come fatto dal Manchester City, ma senza vedere nel torneo qualcosa di più di una fatica superflua. In più le temperature fuori norma per sostenere partite di calcio hanno certamente contribuito a diminuire la sperequazione tra squadre; emblematica in merito la scena delle riserve del Dortmund rimaste nello spogliatoio climatizzato al posto di seguire i compagni in panchina.

In questo scenario già complesso, si sono inserite le rappresentative asiatiche e africane, che hanno trovato enormi difficoltà a tenere il passo di un torneo dalle esigenze logistiche, atletiche e tattiche fin troppo elevate rispetto agli standard dei loro campionati. Per le squadre asiatiche il problema non è stato solo tecnico, ma anche legato al ritmo e all’intensità: raramente abituate a un simile livello di pressione e continuità agonistica, si sono spesso trovate schiacciate nei confronti diretti, incapaci di reagire alle accelerazioni degli avversari e di mantenere ordine tattico nei momenti chiave. A pesare ulteriormente è stata la limitata esperienza internazionale di molti allenatori e giocatori, nonchè una gestione delle sostituzioni spesso confusa o tardiva, indice di una programmazione ancora troppo distante dagli standard richiesti per competere a questi livelli.

Non migliore è stato il bilancio delle squadre africane, che, pur mostrando lampi di talento individuale, sono apparse scollegate, troppo dipendenti dalle giocate di singoli e prive di un sistema di gioco fluido. A penalizzarle è stato anche un certo sbilanciamento strutturale: tanta corsa, ma poca organizzazione; molto entusiasmo, ma scarsa freddezza. E quando l’entusiasmo si spegne sotto il caldo implacabile o dopo un gol subito, il divario diventa incolmabile. Le africane, come le asiatiche, hanno dimostrato di avere una base atletica notevole, ma senza l’organizzazione necessaria a trasformare lo sforzo in risultati concreti.

Deludente, invece, il percorso delle squadre nordamericane. Gli Stati Uniti, padroni di casa del torneo e prossimi ospitanti del Mondiale per nazioni, erano attesi al varco proprio per la possibilità di far crescere e consolidare la credibilità del proprio movimento calcistico, approfittando del contesto favorevole. La Major League Soccer, in forte espansione commerciale e mediatica, ha investito tanto in nomi e strutture, ma i club americani si sono sciolti al cospetto di avversari meglio strutturati, tecnicamente superiori e tatticamente più pronti. Quella che doveva essere la grande vetrina si è trasformata in uno specchio impietoso: gioco lento, difese fragili, e una sorprendente incapacità di competere con continuità per più di una partita. Il fallimento è evidente soprattutto considerando le risorse economiche impiegate: investimenti impor- tanti che, al momento, non stanno producendo il salto di qualità auspicato.

In questo contesto si inserisce la sorprendente cavalcata dell’unica squadra araba ancora in corsa, che si sta facendo valere grazie a una combinazione di fattori spesso sottovalutati: coesione di gruppo, alcune individualità di alto livello e, soprattutto, una guida tecnica che sa leggere le partite con intelligenza. Simone Inzaghi, reduce dalla delusione della finale di Champions persa, sta dimostrando qui il suo valore autentico, oltre ad una sorprendente capacità di adattamento alle caratteristiche della rosa, soprattutto alla linea a quattro, subito improntata ad un pressing aggressivo e ad un possesso organizzato con ampio spazio agli interscambi di posizioni e fluidità ammirevole di cui a farne le spese è stato per ultimo il Manchester City.

Il torneo ha così messo in luce un quadro calcistico mondiale ancora fortemente disomogeneo, dove solo alcune realtà sembrano in grado di sostenere il ritmo richiesto da un evento di tale portata. Le difficoltà delle asiatiche e africane, il flop delle americane e la freddezza delle europee restituiscono un’immagine ancora acerba dell’equilibrio tra i continenti, nonos- tante la globalizzazione del calcio. Solo le brasiliane, e in parte alcune arabe, sembrano avere colto lo spirito della competizione, presentandosi con ambizione, coerenza tecnica e reale desiderio di imporsi.

Mentre il torneo prosegue verso le sue fasi decisive, ciò che resta è un bilancio interlocutorio, dove le polemiche iniziali appaiono tutt’altro che infondate. Il Mondiale per Club, nella sua nuova veste, si conferma un progetto ambizioso ma ancora troppo sbilanciato, tanto nei tempi quanto nella preparazione dei partecipanti. Se davvero vorrà rappresentare una pietra miliare nel futuro del calcio globale, dovrà necessariamente ripensare alle proprie fondamenta: tempi di gioco, format, calendario e condizioni ambientali non possono essere lasciati al caso. Per ora, a vincere è stata soprattutto la discontinuità.

GIANMARCO COMAI

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