INNAMORATO DI VALERIY LOBANOVSKYI

Possibile che un ragazzo del liceo, in un’epoca in cui Internet era ancora un miraggio e la Cortina di Ferro appena smantellata, potesse innamorarsi perdutamente della Dinamo Kiev, della nazionale ucraina e del suo condottiero, il Colonnello Valeriy Lobanovskyi?

Sì, possibile. E non per caso. Tra servizi televisivi sgangherati, libri trovati chissà dove, riviste lette fino a consumarne le pagine e almanacchi studiati come testi sacri, avevo messo insieme i pezzi di un calcio che sembrava arrivare da un’altra dimensione.

E al centro di tutto lui: un uomo di ferro, sguardo severo, mente brillante, che non si limitava ad allenare. No, lui orchestrava. Prendeva matematica, fisica, biomeccanica, teoria dei sistemi, e le trasformava in calcio. Un genio, un visionario, un’icona. E io, senza nemmeno accorgermene, ero diventato suo discepolo. Troppo facile ammirare il solo Shevchenko o il suo fido scudiero Rebrov: ero incantato dalle gesta di gente come Gusin, Dimitrulin, Husin, Kaladze, Kalytvyncev, Luzhny o del compianto Shkapenko. Alcuni di questi erano calciatori anonimi, ma che hanno avuto i loro anni di gloria grazie all’encomiabile lavoro del loro maestro.

Colonnello dell’armata rossa, Lobanovskyi trasponeva nel mondo del calcio i suoi modi rigidi, all’insegna della disciplina. I suoi metodi di allenamento e i suoi test erano una barriera all’ingresso per i più, roba da far impallidire Zeman e i suoi gradoni. Un giornalista improvvido chiese addirittura un giorno all’allenatore: «E se un giorno Shevchenko fosse stato più lento del dovuto con questi test?». La risposta fu perentoria ed emblematica:
«Allora non sarebbe stato Shevchenko».

«Nel mio concetto di calcio ci vogliono solo uomini universali, capaci di fare tutto»

Lobanovskyi non lasciava spazio a fraintendimenti. Il suo era un calcio di scienza e disciplina, un’idea totalizzante in cui il talento individuale si diluiva nel collettivo come un colore nell’acqua. I suoi giocatori si fidavano ciecamente di lui, e lui si fidava ciecamente di loro, a prescindere dalle qualità tecniche: chi veniva messo in campo, se lo meritava. Un patto non scritto, un’intesa costruita nel tempo, fatta di lavoro, sacrificio e una comprensione quasi militare del gioco.

Per il Colonnello, non esistevano titolari e riserve: tutti dovevano essere pronti, sempre. Ogni elemento della sua Dinamo Kiev era intercambiabile, un ingranaggio di una macchina perfetta. La fantasia solo se funzionale al sistema. Nessuno giocava per sé, tutti giocavano per tutti. Il calcio di Lobanovskyi era una sinfonia senza solisti, in cui la versatilità era il requisito essenziale per sorprendere l’avversario e cambiare spartito in corsa.

Il suo primo grande capolavoro, la Dinamo Kiev, non era il clone del Totaalvoetbal di Rinus Michels, ma ne condivideva alcuni principi. La differenza era data dall’approccio in trasferta: la priorità era non prendere gol per poi colpire con ripartenze fulminee, chirurgiche. Quando prese in mano la guida dell’Unione Sovietica, Lobanovskyi andò oltre, fungendo da antesignano di quel gegenpressing che Klopp ha elevato ad arte. Perdere il pallone non era contemplato, e se succedeva, la riconquista doveva essere immediata, lì, nello stesso punto in cui era avvenuta la perdita.

Ma la vera rivoluzione del Colonnello era un’altra. Il singolo valeva solo come parte di un tutto. La tecnica era dettaglio, certamente fondamentale, ma non un punto di partenza. L’obiettivo era un’organizzazione ossessiva, in cui ogni movimento era pensato per il bene del collettivo. In fase di non possesso, il pressing era costante, ma mai cieco: la difesa non giocava altissima e il fuorigioco non veniva forzato come un dogma. Il calcio speculativo di quei tempi imponeva trappole ossessive, lui no. La sua Dinamo non cadeva mai nella banalità di un solo schema ripetuto all’infinito.

Lobanovskyi era così: un uomo che vedeva il calcio prima degli altri, ma lo spiegava con una semplicità disarmante. Un uomo che non si accontentava di vincere, voleva dimostrare. Il pallone, per lui, non era solo un gioco. Era matematica, scienza, e soprattutto, un’idea di mondo.

Valerij Lobanovskyi non allenava semplicemente una squadra di calcio. Progettava un sistema, come farebbe un ingegnere davanti a una macchina complessa. Non era un caso: il Colonnello aveva studiato ingegneria meccanica, e da quegli anni universitari si portava dietro un credo ferreo: ogni elemento doveva essere al suo posto, ogni ingranaggio perfettamente calibrato, ogni giocatore incaricato di un compito preciso. Il talento era efficace solo se inserito in una struttura logica.

Negli anni ’70, in Unione Sovietica, si affacciavano i primi “cervelloni elettronici”, quei computer mastodontici che promettevano di rivoluzionare ogni ambito della società. Lobanovskyi non ci pensò due volte: li mise al servizio del calcio. D’altronde, il mondo attorno a lui si muoveva in quella direzione. La corsa al progresso tecnologico tra USA e URSS era serrata, e la sua Dinamo Kiev era persino sponsorizzata dalla Yugmash, l’agenzia spaziale sovietica. Il gap con l’Occidente si allargava, ma Lobanovskyi sfruttò ogni risorsa disponibile.

C’era però un problema: in Unione Sovietica le partite delle squadre straniere non venivano trasmesse. Le sfide europee erano un salto nel buio, un viaggio verso l’ignoto. Il Colonnello, però, aveva un contatto prezioso a Uzhhorod, città al confine con la Slovacchia, a un passo dall’Ungheria. Da lì, era possibile captare i segnali della TV magiara: i match venivano registrati su cassette e portati di nascosto a Kiev, dove Lobanovskyi li analizzava minuziosamente prima di mostrarli ai suoi calciatori. Per lui, il calcio andava intellettualizzato, studiato nei dettagli, processato come un calcolo matematico.

Kiev, d’altronde, era una città intrisa di scienza. Nel 1957, quando Lobanovskyi aveva appena 18 anni, nella capitale apriva il primo istituto di cibernetica dell’URSS. Nel 1963, l’ingegnere Victor Glushkov e il suo team svilupparono il MIR-1, uno dei primi computer progettati per eseguire operazioni complesse. Il calcio, per Lobanovskyi, non poteva rimanere indietro. Doveva essere studiato, ottimizzato, ridotto a un modello prevedibile. Una macchina perfetta, con ogni giocatore come un ingranaggio essenziale di un sistema più grande di lui. Il suo gioco era un sistema matematico complesso, un universo regolato da leggi precise, dove il talento individuale contava meno dell’ingranaggio collettivo. Ventidue elementi, due sottosistemi da undici, un unico campo di battaglia: il rettangolo verde. Un sistema sottoposto a vincoli ben definiti, ovvero le regole del gioco, ma soprattutto a un principio cardine: l’efficienza della squadra è sempre superiore alla somma delle capacità dei singoli.

Era quasi pitagorico, Lobanovskyi. Un’equazione perfetta in cui il totale valeva più della somma delle parti. Per lui, un calcio vincente non poteva essere fondato sull’estro individuale, ma sulle connessioni, sulle relazioni tra i giocatori, su un movimento orchestrato al millimetro. Non un’idea nata per caso, ma figlia di studi rigorosi presso il Politecnico e di un’esperienza diretta sul campo, prima da calciatore, poi da profeta del pallone.

Un principio che divenne quasi dogma quando gli affidarono la nazionale sovietica. “L’URSS era una Dinamo Kiev indebolita dai giocatori provenienti da altri club” dicevano i tifosi, ed era la verità. Dodici giocatori della Dinamo trapiantati in nazionale, nove titolari nel leggendario 6-0 all’Ungheria agli Europei del 1986. Per Lobanovskyi era semplice: prendere i suoi uomini, già plasmati al suo metodo, e portarli in nazionale significava risparmiare tempo. Pochi dubbi, nessuna improvvisazione, solo una squadra che si muoveva come un orologio perfetto. Quella nazionale sembrava destinata alla gloria, fino a quella notte di Monaco. Finale dell’Europeo del 1988, Olanda-URSS. Una partita equilibrata, decisa da un gesto fuori dal copione, una pennellata di follia in un calcio di scienza. Marco Van Basten, il Cigno di Utrecht, che sfida le leggi della fisica e dipinge una parabola impossibile. L’unico colpo che il sistema perfetto di Lobanovskyi non poteva prevedere.

E poi torniamo all’inizio di questa storia, là dove tutto trova il suo senso. La Dinamo Kiev di fine anni ‘90, l’ultima grande opera del Colonnello, una squadra che stregò l’Europa con il suo calcio geometrico e feroce. Il tempo di uno sguardo e il Barcellona di Van Gaal fu spazzato via da un uragano biancoblù. Shevchenko, il Re dell’Est, si fece profeta del verbo lobanovskiano con una notte da fuoriclasse assoluto, una di quelle che cambiano la carriera. Accanto a lui, Kaladze, destinato anch’egli a prendere la via di Milano, e Rebrov, il fido scudiero.

Ma quella Dinamo non era più avvolta nel mistero della Cortina di Ferro, non più una squadra che l’Europa osservava da lontano con curiosità e diffidenza. Era il calcio di fine millennio, già sedotto dalle cascate di denaro delle televisioni. Eppure, sotto l’abito nuovo, il denominatore comune con il passato restava intatto: il gruppo veniva prima del singolo, e il valore reale dei suoi uomini sembrava elevarsi oltre il limite del possibile.

Prima di lui, il cuore pulsante del calcio sovietico batteva a Mosca. Alla fine del suo secondo mandato, nessuno aveva vinto più titoli della sua Dinamo Kiev. E non era solo questione di numeri, sebbene il palmarès racconti una storia inconfutabile: otto campionati sovietici, sei coppe dell’URSS, cinque titoli ucraini, tre coppe nazionali, due Coppe delle Coppe e una Supercoppa Europea. La Dinamo di Lobanovskyi era la quintessenza del calcio sovietico. Totale, collettivo, inarrestabile.

Oggi, a Kiev, una statua veglia su di lui, come lui ha vegliato sulla Dinamo per tutta la vita. L’opera lo raffigura nel suo gesto più naturale: proteso in avanti, a impartire ordini, a cercare sempre qualcosa in più. Il Colonnello non era uomo da panchina, era un ingegnere della tattica, un ossessivo cercatore di perfezione. La sua statua non trasmette calma, trasuda inquietudine. Lobanovskyi non poteva stare fermo, perché il suo calcio non si fermava mai.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

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