MILAN – SALERNITANA: 3-3. OVVERO, LA CHIUSURA DEL CICLO, LA FINE DEL CERCHIO

«Quando c’è amore, capita che ci siano eccessi: ho goduto tanto e ho sofferto anche tanto.»

 – Stefano Pioli –

La chiusura di un ciclo, dal latino tardo cyclus, cerchio, giro. Esiste una variegata simbologia religiosa, alchemica, letteraria, persino astrologica, riguardante la forma circolare. Il cerchio è il sole, è la totalità junghiana, è l’oro, è l’uroboro, ovvero il serpente che si mangia la coda, è il tracciato dell’eternità del divino. “Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond’elli indige,/tal era io a quella vista nova (…)”, scriveva Dante nel Paradiso.

Dio è uno e trino ed è onnipotente; l’uomo invece è l’evoluzione senza peli delle scimmie: la scimmia nuda, lo/ci chiamava Desmond Morris in un saggio che tutti dovrebbero leggere. Sopravvive l’attesa della morte, quasi mai, a bocce ferme, temendola davvero, talvolta echeggiandola, nel rito apotropaico delle preghiere di assoluzione: se fosse oggi, perdono, perdono, perdono. Ma non sarà, non deve, non voglio, non ci penso. L’uomo non vive da coraggioso, per quello servono gli eroi (che però ci maledicono, come stirpe), ma da spavaldo e sciocco. Non ha altri modi o morirebbe di continuo, impantanato nell’abulia di un non futuro già scritto. Ma Brecht diceva che erano beati i popoli che non avevano bisogno di eroi.

E allora è un po’ scontato, anche se capisco che venga spontaneo, tirare in ballo, come fu fatto in una conferenza stampa dicembrina, la dicotomia tra “eroe” e “cattivo”, di nolaniana memoria, per descrivere il percorso di Stefano Pioli al Milan. Stefano Pioli non è Batman (!) perché ha scelto di non esserlo, preferendo un’etica ferrea del lavoro, a costo anche di addossarsi responsabilità non sue, o solo in parte ascrivibili al suo operato e a eventuali errori tattici o di gestione del gruppo, che sono umani e di certo sono stati fatti. Perché non dobbiamo mai dimenticare cosa era il Milan, prima dell’arrivo di Pioli, nel 2019, e quali ambizioni ha adesso una squadra regolarmente qualificata in Champions League – una semifinale raggiunta, l’anno scorso, con pieno merito, e un girone di ferro quest’anno – e con un secondo posto in campionato, blindato a dispetto delle difficoltà, degli infortuni (troppi) e dei molti (troppi, anche questi) gol subiti.

Inutile fare finta di non sapere o girarci intorno: l’eredità appoggiata sulle spalle del tecnico di Parma non era quella sacchiana, da molto tempo, e i cocci da raccogliere erano ben più abbondanti dei pezzi rimasti, in qualche modo, interi. Ché non si vive di solo blasone o di bei ricordi antichi da rievocare alla bisogna: tre trofei in undici anni (2008-2019) – lo scudetto della stagione ‘11/’12 e due Supercoppe italiane, nel 2011 e nel 2016 – sono davvero troppo pochi per chi era abituato a un Milan che dominava in lungo e in largo e veniva ammirato ed emulato in tutto il mondo. Ammirato ed emulato, sì, perché non si è mai trattato soltanto di sudditanza sportiva, obtorto collo: il Milan di Sacchi, di Capello, di Carletto Ancelotti, con le dovute differenze, piaceva perché sapeva esprimere un gioco potente, moderno, bello da vedere. Vinceva e convinceva, come si suol dire con una frase fatta, ma in fondo abbastanza efficace. I titoli conquistati erano la naturale conseguenza di un percorso virtuoso, i campioni che arrivavano. idem.

Quando Pioli è stato chiamato, a campionato iniziato, alla guida del Milan, poco o nulla di quei lasciti era ancora riconoscibile: un ottavo posto (settimi, ma con peggiore differenza reti) nel ’13-‘14, con un divario spaventoso dalla Juventus, Campione d’Italia, addirittura decimi, nel ’14-‘15, sesto posto nel campionato ’16-‘17 e in quello ’17-’18, con il ritorno in Europa, ma non in Champions, dopo alcuni anni di digiuno assoluto. Ancora una qualificazione – quinto posto – in Europa League, nel ‘18-‘19, ma successiva squalifica UEFA a causa della violazione degli obblighi di pareggio di fair play finanziario, riscontrata durante i periodi di monitoraggio 2015/2016/2017 e 2016/2017/2018.

Arriviamo così al “sette bello”, si fa per dire, della parentesi Giampaolo: sette partite, quattro sconfitte e un esonero forse ingeneroso, ma pressoché inevitabile, dovuto a uno schiacciante quattordicesimo posto provvisorio in classifica. Si potrebbe continuare, parlando di investimenti affatto redditizi o del tutto avventati e di progetti poco lungimiranti e nati sotto la stella sbagliata. Perché è a questo punto della storia, con una bussola saltata, che entra in scena Stefano Pioli. C’era da fare tabula rasa e ripartire con presupposti nuovi: quali potevano essere, verosimilmente, le aspettative a breve termine? E allora, tra gli uomini e gli eroi, tra Batman che nasce eroe e muore cattivo, da qualche parte, là in mezzo, tangenti un po’ con gli uni e un po’ con gli altri, c’è un’altra categoria: ci sono gli artisti. E mi perdoneranno esegeti e puristi, se questo termine, di solito associato a marmi, scalpelli e tele dipinte, per oggi mi permetto di estenderlo anche alle eccellenze dello sport. Che poi, al di là della commozione del momento e del senso di riconoscenza per il nostro allenatore, qualcuno può dire, senza vergognarsi, che Diego Armando Maradona non sia stato un artista?

Allenatori e giocatori imbastiscono insieme un’arte generosa perché il loro sforzo creativo è effimero come le ore di replica di una pièce teatrale, e poi della successiva e di quella ancora dopo; sempre partite diverse, sempre creazioni in fieri che celebrano la loro stessa morte. L’atto calcistico è impermanente quanto un mandala di sabbia e altrettanto forte può essere la “traccia mnestica”, che si imprime: un’immagine fugace della/nella mente (sarà questa la ragione di critiche spesso sproporzionate? Chissà).

La possibilità di vedere (e rivedere) le partite in tv, di giudicare una prestazione dagli highlights, di accelerare e rallentare le azioni a nostro piacimento ha cambiato molte cose e i calciatori, per un verso, gli allenatori, per un altro, sono finiti sotto una lente entomologica. Non che non lo fossero mai stati prima, ci mancherebbe, ma i social network, coi suoi memorabilia e le sue rievocazioni, e gli streaming televisivi hanno cambiato molto la nostra percezione. Con la riproducibilità tecnica, sempre più raffinata e ravvicinata, la squadra, qualunque squadra, ingaggia l’agone tragico – è il caso di dirlo – contro la più grande ferocia di Dio verso gli esseri tutti: lo scorrere, implacabile, inarrestabile, del tempo (mica solo quello dei novanta minuti!). Il calciatore diventa esso stesso tempo: in eterno giovane, come Marco Van Basten che fa un gol impossibile contro l’ex URSS. Il tempo televisivo così lo ha impresso, i video su Youtube così ce lo ripropongono. Per sempre.

Ma il filamento che congiunge il pathos al logos, il caos dell’informe dionisiaco all’ordine apollineo esige un pegno da pagare. È quello della menade danzante di Skopas: il corpo teso, incurvato, incapace di rispondere a sé stesso, nell’attimo dell’ebbrezza estatica. Se ne percepisce il dolore che scalfisce appena la superficie, perché sta tutto sotto. Il profano esonda nel sacro, perché è anche quello della Pietà Rondanini, con la Madonna che sposta lo sguardo dal corpo del figlio, verso un altrove che conosceva, ma in quel momento le sembra troppo distante, magari pure un po’ ingiusto. La forza delle spalle e delle braccia sorreggono Cristo, non adagiato sulle gambe, ma quasi in piedi, quasi vivo.

E di nuovo si sfocia nel profano, con il volto di Stefano Pioli che, a bordo campo, si contorce in una smorfia – di commozione? Di cosa? – e poi di nuovo si rilassa, sembra che sorrida, nonostante le critiche asfissianti, nonostante altri abbiano deciso la fine del suo ciclo, nonostante tutto.

Non so se è per questo che gli allenatori che ci (mi) appassionano di più sono, a prescindere dai titoli, quelli che ci confondono, che ci strapazzano con le loro tattiche (che sovente non capiamo e ci fanno arrabbiare), che fanno le scelte più difficili, persi in un amore per il gioco così forte da sfiorare l’”ossessione” (ma non c’è ossessione sana senza studio costante).

Rappresentano più di altri due moti opposti, entrambi inaccessibili per chi l’arte, anche quella del pallone, può solo rimirarla da lontano: il salto prometeico a rubare il tempo a Dio e la caduta rovinosa verso terra, dalla quale il talento, in un modo o nell’altro, sembra tuttavia tenerli distanti più a lungo di quanto la loro rincorsa implicherebbe.

Se vogliamo i numeri, be’, diamone alcuni, non sempre i soliti, tenendo presente però la loro ineliminabile ambiguità: un numero, per significare, ha bisogno di una scala. Un dieci a scuola è un voto magnifico, all’università sarebbe una bocciatura sonora. Mi avvalgo del sito della Gazzetta dello Sport: su 240 partite sulla panchina del Milan, Stefano Pioli ne ha vinte 132 (in percentuale, più di Arrigo Sacchi).

Pioli può vantare il maggior numero di partite di fila, diciassette, con due gol segnati, e grazie al suo lavoro la squadra è tornata a giocare in Champions League, riuscendo a disputare una semifinale, poi persa contro l’Inter. Abbiamo vinto uno scudetto e per due volte, nel ’20-’21 e quest’anno, ci siamo piazzati al secondo posto in campionato.

Non è tutto qui perché Pioli ha fatto qualcosa che va oltre il mero dato statistico: ha saputo valorizzare i talenti, acerbi o incrinati, che ha avuto a disposizione durante il suo quinquennio: Theo e Rafael Leão, su tutti, ma anche il neo-arrivato, Christian Pulisic, rinato dopo stagioni opache che avevano portato più di un analista a metterne in discussione il talento. Con De Ketelaere non è andata bene, mi concedo tuttavia una piccola obiezione: il giovane belga non ha l’istinto puro di Messi, ma è un buon giocatore, con ulteriori margini di miglioramento, che forse aveva bisogno di una piazza diversa, con pressioni diverse, per sbocciare.

Ieri sera i ragazzi, a sorpresa, prima dell’inizio della partita hanno voluto celebrare il loro allenatore. Ammetto che quell’improvvisata è stata più commovente delle celebrazioni finali, sempre un po’ doverose e ingessate. Mi è sembrata la dimostrazione di un rapporto tenero e coeso, spontaneo, tutto il contrario di ciò che certe cronache volevano spingerci a credere. L’affetto è stato ribadito da Leão, dopo il suo gol: non ho pensato a cicli che finiscono, ma a una squadra e a una persona che mi spiacerà di non rivedere.

Davvero, pensandoci a ritroso, ci sentiamo di avere molto da recriminare a Stefano Pioli?

Grazie di tutto, Mister, per quello che hai detto e fatto (ed è tanto, al contrario di ciò che affermano i disfattisti a ogni costo), e per quello che, con l’eleganza e il rispetto che sempre ti hanno contraddistinto e che in pochi ti hanno riconosciuto come avresti meritato, hai scelto di non dire e di non fare, a costo di caricarti addosso l’ingrato ruolo di parafulmine per responsabilità altrui.

Grazie per aver sopportato, senza fiatare, le continue messe in discussione, specie sul web, della tua competenza, nonché l’urticante balletto dei nomi dei papabili sostituti, cominciato ben prima che una decisione definitiva sul tuo e sul nostro futuro venisse presa dalla società.

Grazie per aver scherzato, a giochi ormai fatti, sulla maglietta con il cognome della mamma di Rafa: “la bellezza salverà il mondo”, si ripete spesso, forzando pro domo nostra un concetto dell’Idiota di Dostoevskij. Io credo che ci salverà soprattutto la capacità di non perdere il senso profondo delle cose, di saper agguantare e trattenere la loro intrinseca leggerezza, finché ci sarà possibile.

Grazie di cuore anche a Olivier Giroud e a Simon Kjær, milanisti non di nascita, ma per appartenenza (che è ciò che importa). Siete stati due protagonisti impagabili del diciannovesimo scudetto e nessun tifoso dimenticherà mai il vostro impegno costante e la vostra dedizione al servizio della squadra. Grazie ad Antonio Mirante e a Mattia Caldara: ci sono state poche occasioni, ma quello che conta è esserci stati per il Milan.

Grazie a chi resterà e a chi, per una ragione o per l’altra, dovrà partire.

“Quanto è più crudele del morso di un serpente l’ingratitudine di un figlio”, scriveva Shakespeare nel Re Lear. E allora, di nuovo, anche a nome di chi fa fatica a dirlo: grazie a Stefano Pioli, grazie a tutti.

È vero, di Milan-Salernitana non ho parlato affatto, ma ci sarebbe stato poco da analizzare di una partita coi destini già segnati, di qui e di là, e denotata da una cappa emotiva che si tagliava col coltello. Volendo annotare un paio di questioni, si potrebbe affermare che il Milan riesca a trovare un buon ritmo soprattutto quando non gioca sotto pressione – è un’attitudine sulla quale lavorare – e che, nonostante l’impegno e la voglia, alcuni difetti non possono non manifestarsi (penso al primo gol della squadra campana). Una valutazione personale: a un giocatore come Alessandro Florenzi, preciso ed efficace in campo, indispensabile fuori, per maturità, intelligenza, senso del collettivo, offrirei già oggi un contratto vitalizio.

Altro, almeno per quanto mi riguarda, non si può dire. E allora, come diceva quello: ci vediamo quando ci vediamo.

MILAN (1-4-2-3-1): Mirante (Nava dall’88’); Calabria, Gabbia (Caldara dal 58’), Tomori (Kjær dall’88’), Hernández; Florenzi, Reijnders; Pulisic, Bennacer, Leão (Adli dal 59’); Giroud (Jović dall’85’).

A disp.: Nava, Sportiello; Caldara, Kalulu, Kjær, Terracciano, Thiaw; Adli, Loftus-Cheek, Musah, Pobega; Jović, Okafor. All.: Stefano Pioli.

SALERNITANA (1-3-4-2-1): Fiorillo; Pierozzi, Pasaridīs, Gyömbér (Pellegrino dal 75’); Sambia, Coulibaly, Maggiore (Sfait dall’82’), Zanoli (Legowski dall’82’); Candreva (Vignato dal 61’), Kastanos (Nwanko dal 60’); Tchaouna.

A disp.: Costil, Salvati; Ferrari, Guccione, Pellegrino; Di Vico, Łęgowski, Sfait, Vignato; Boncori, Fusco, Simy. All.: Stefano Colantuono.

BIO Ilaria Mainardi: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

Sono titolare della pagina IG ilarie.ed.eventuali

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Leggi anche