SHEVCHENKO, LA LEGGENDA DI UN ANGELO SPIETATO

Con quella faccia lì, quell’aria da scolaretto nel bosco da solo alle sei di sera, quei modi garbati e soffusi come la luce di un’abat-jour mentre leggi un libro in silenzio, dove vuoi che vada in un’area di rigore italiana? Dentro a quel recinto di serie A ti prendono a spallate, calci, gomitate… Bisogna essere lottatori.

A uno come Andriy Shevchenko la prestanza fisica e lo spirito ucraino certo non mancavano, ma insomma quando sbarcò a Milano qualcuno si interrogò – dopo averlo conosciuto nella vita privata – su quale vita avrebbe l’agnello in mezzo a un branco di predatori. A condizionare il giudizio c’era quel suo legame immediato con Piero Gaiardelli, manager di grandissime aziende sportive, una vita spesa ad altissimo livello tra Formula 1, basket e calcio. Era diventato il suo secondo padre, erano sempre insieme, tanto che in quell’estate del ’99 una sera un suo compagno di squadra, a cena, gli disse: “Bisogna che ti fai vedere in giro con qualche ragazza…”. Sheva non colse la malizia, ma ci mise davvero poco a sgombrare il campo dai punti di domanda: in campo indossava la maschera di ferro, fuori si innamorò più tardi dell’avvenente Kristen Pazik, la sposò e creò con lei un connubio che non ha incontrato ostacoli. Hanno 4 figli: Jordan (20 anni), Christian (18), Oleksandr (12) e Rider Gabriel (10).

Oggi è ritenuto uno degli attaccanti più completi della storia: aveva il coraggio di puntare l’uomo, era inesorabile nei dribbling e nell’accelerazione, nel controllo in corsa, in acrobazia, nel gioco aereo e nella furbizia. Ma Shevchenko, soprattutto, faceva gol, una montagna di gol: 83 in tutto con la Dinamo Kiev, 59 con le Nazionali di Ucraina dalle giovanili alla maggiore (48, miglior realizzatore di sempre), 127 nel Milan in 226 partite (secondo miglior marcatore della storia rossonera dopo Gunnar Nordahl).

Ricordo i giovedì dopo le partite di coppa europee: ricevevo puntualmente la sua telefonata per aggiornare le statistiche, per comparare le presenze alle reti, per commentare la gara della sera prima… L’amicizia infatti era sbocciata subito dopo un’intervista che gli feci poche settimane dopo lo sbarco a Milano. Educato e gentile, imparò presto l’italiano perché soffriva troppo gli allenamenti e le serate in cui non capiva cosa i compagni e i commensali si stessero dicendo.

Tra gli stranieri approdati in rossonero, è stato fra quelli più precoci nell’apprendimento del nostro idioma. Questo lo aiutò nell’irrobustire la personalità, la possibilità di argomentare e replicare sempre in maniera equilibrata, pacata, con rari picchi nei toni. Anche in campo subiva le marcature ossessive senza battere ciglio, ma studiando invece la maniera per svincolarsi, di aggirare la ferocia avversaria. 

Scelse Londra, a un certo punto, per qualche scheggia di comprensione con Ancelotti e per la corte serrata di Abramovich, ma chiuse la parentesi alla svelta tornando a Milanello dove però non avrebbe lasciato il segno. Come in una favola, l’incantesimo si era spezzato: il che non gli impedì di chiudere la carriera alla Dinamo Kiev, dove tornò nel 2009 giocando 55 partite e segnando 23 gol. In tutta onestà, non avremmo mai scommesso che sarebbe diventato allenatore perché quella è una carriera di migranti e lui sta bene con la sua famiglia, i suoi amici, le sue abitudini. Invece sorprese tutti facendo un eccellente lavoro nei panni di C.T. dell’Ucraina, grazie anche alla vicinanza di Mauro Tassotti e Andrea Maldera con i quali formò un sodalizio fortissimo.

Mi aveva già sorpreso molte altre volte, però. In particolare subito dopo la vittoria del Pallone d’oro nel 2004 (era già arrivato terzo 2 volte): un editore mi propose di scrivere la sua biografia, gli risposi che non pensavo Andriy avrebbe accettato, invece disse di sì a condizione che i suoi proventi fossero destinati in beneficenza. Gli proposi allora di non scrivere la solita storia di racconti e aneddoti romanzati, ma di realizzare il suo alfabeto. Così facemmo: “L’oro di Sheva – parole e segreti di un campione”, comprendeva per esempio A (“Come Adriano: se non avessi vinto io il ‘Pallone d’oro’, lo avrei dato a Paolo Maldini oppure tra gli avversari ad Adriano dell’Inter), F come famiglia, film, finali, L come la sorella Lena, come l’unica lettera d’amore scritta in vita sua quando era adolescente (“Lei non mi rispose, quindi non l’ho mai più fatto”), S come squadra di cui ha un concetto forte e come stampa da cui non è mai fuggito, stando sempre tra le righe.

E Z come Zaccheroni, il suo secondo maestro dopo l’amato Lobanovsky. Dopo la parentesi sulla panchina del Genoa e l’inizio del conflitto bellico del suo Paese invaso dai russi, ha abbracciato un’attivissima carriera diplomatica invocando la pace: ha sofferto all’inverosimile perché, nonostante le sue offerte di trasferimento a Londra dove ormai vive da 20 anni, la mamma e la sorella non hanno mai voluto abbandonare Kiev.

Nel 2020, durante il lockdown, realizzammo una diretta Instagram che conservo gelosamente come uno dei ricordi più belli, sospesi tra il pubblico e il privato. Genuino, sincero, immediato, spontaneo, Sheva non ha mai paura di parlare dei suoi pregi e dei suoi difetti, mettendo il rapporto col prossimo al centro della sua vita e in testa alle priorità.

Ci scriviamo qualche volta senza perderci di vista: la passione per il golf al momento un po’ accantonata a favore delle sue ambasciate con i messaggi di fratellanza (è stato nominato consigliere indipendente di Zelensky, presidente ucraino) e dell’impegno nel ruolo di Presidente della Federcalcio ucraina, lo fanno viaggiare molto e riusciamo a incrociarci di tanto in tanto. Ne sono felice e orgoglioso, perché è una delle più belle persone del calcio che ho incontrato nella mia vita.  

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