LA PAURA DI SBAGLIARE.

“Nino PUOI aver paura di tirare un calcio di rigore: gestione dell’ansia e reazione all’errore nel mondo del calcio”

Dov’eri la sera del 17 luglio 1994?

Così, su due piedi, sembra difficile ricordare… Ma poi, con un paio di dritte: Stati Uniti, finale dei Mondiali di Calcio…

Già, ora è tutto più semplice, almeno per chi, come me, ai tempi aveva almeno cinque anni…

A Pasadena, nel caldo infernale del primo pomeriggio, l’Italia sfida il Brasile per il titolo. Tutti, ma proprio tutti, appassionati di calcio e non, rammentano il triste epilogo di quella entusiasmante cavalcata…

Il rigore calciato alto da Roberto Baggio.

Ingeneroso ricordarsi di lui solo per quello.

Per mille motivi.

Perché ci aveva trascinato in finale con cinque reti, una più indimenticabile dell’altra.

Perché aveva voluto giocare per 120 minuti anche da infortunato.

Perché prima di lui avevano già sbagliato due azzurri, e se anche avesse segnato il suo, al Brasile sarebbe bastato realizzare il successivo per portarsi a casa la Coppa.

Perché, come lui stesso ha detto, “i rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli”.

Per tutto quello che ha fatto nel resto della sua carriera.

E se invece ti chiedessi dov’eri il 12 giugno del 1998?

Ancora più complicato, nonostante gli indizi: Mondiali di Francia, esordio azzurro.

Italia-Cile. Doveva essere una vittoria facile e invece a pochi minuti dalla fine eravamo sotto per 2-1. Un vero disastro. E invece, a pochi minuti dal triplice fischio, una magia di Baggio, ancora lui, reduce da una stagione spettacolare a Bologna. Vede Fuentes con il braccio leggermente allargato, e invece di passare la palla, cosa fa? Mira la sua mano, la colpisce e si guadagna il penalty.

Chi si prende la responsabilità?

Sempre lui, quattro anni dopo, con una palla che pesa un macigno.

Esecuzione perfetta, 2-2.

Per me Baggio è mille cose, mille emozioni che mi hanno fatto appassionare al pallone.

Ma pensando alla mia professione di psicologo, per me è soprattutto un uomo che, dopo aver commesso uno degli errori più famosi nella storia dello sport, è tornato sul dischetto per riscrivere il proprio destino.

Nel mio lavoro, mi capita spesso di ragionare sulla reazione agli errori e sulla paura di ricaderci. Nei corsi e nelle semplici chiacchierate, mi piace raccontare storie come questa, soprattutto a chi è più giovane di me. Perché sanno ispirare e fanno riflettere. Certo, non tutti sono Baggio, anzi direi che in pochi si sono anche solo avvicinati al suo livello. Ma il tema dello sbaglio, e del timore di ripeterlo, tocca tutti, dal professionista affermato al dilettante, dall’esperto navigato al giovane ancora alle prime armi. Ecco, quindi, alcune considerazioni che ho maturato in questi anni, insieme alle strategie che anche la letteratura ha indicato come utili per affrontare situazioni di questo tipo.

NORMALIZZARE PAURA E ANSIA

Innanzitutto, che cos’è la paura?

Si tratta di un’emozione primaria presente nel regno animale (e quindi nel genere umano), che Umberto Galimberti, nel “Dizionario di psicologia”, definisce così:

“Emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia.”

La paura è tipicamente considerata in modo negativo, ma in realtà, da un punto di vista evolutivo, si è rivelata fondamentale per garantire la sopravvivenza dell’essere umano. Questo perché, agli albori della nostra vita sulla Terra, di fronte al fruscìo proveniente da un cespuglio, era sicuramente conveniente ipotizzare la presenza di un predatore feroce e darsela a gambe (anche se nella maggior parte dei casi si trattava di un semplice soffio di vento), piuttosto che proseguire serenamente del proprio passo. Il problema è che tali meccanismi sono ancora profondamente radicati, nonostante il rischio di imbattersi in pericoli potenzialmente tanto gravi non sia più così frequente.

Sebbene siano spesso usati come sinonimi, paura ed ansia non sono esattamente sovrapponibili. La prima, più arcaica, è condivisa con tutti gli altri animali più evoluti, si attiva di fronte ad un pericolo reale e, una volta cessata la minaccia, scompare. La seconda sembra invece essere tipicamente umana, e può innescarsi anche in relazione ad una minaccia percepita, ovvero non tangibile e condivisa, spesso vaga e mal definita.

Parlando di ansia, si possono distinguere una componente cognitiva (la preoccupazione e l’attenzione focalizzata su di sé) e una somatica: quest’ultima riguarda le manifestazioni fisiche, come la mancanza di respiro, la tensione muscolare, la tachicardia e l’eccessiva sudorazione, derivanti da un’iperreattività del sistema nervoso autonomo (Martens, Vealey e Burton, 1990).

Se l’attivazione psico-fisica è il livello di allerta con cui mente e corpo si preparano ad affrontare un compito, le ricerche hanno evidenziato l’esistenza di uno strettissimo rapporto tra questa e la buona riuscita di una attività, secondo il classico modello a “U capovolta” di Yerkes e Dodson (1908). Nello specifico, bassi livelli (caratterizzati da pigrizia, stanchezza, noia e disinteresse) comportano una performance scadente, a causa della mobilitazione insufficiente di energie, ma anche livelli troppo elevati (associati a forte tensione, ansia, tachicardia, sudorazione e tremore) possono tradursi in risultati altrettanto negativi. Pertanto, una buona prestazione risulta essere favorita da un grado intermedio di allerta, al di sopra e al di sotto del quale si ravvisa un deterioramento: questo ovviamente vale anche in ambito sportivo, dove presentarsi in campo troppo “scarichi” (commettendo errori banali per l’assenza di concentrazione) può essere tanto controproducente quanto farlo in preda al panico.

Come fare allora per aiutare atleti ed atlete a gestire l’ansia e la paura, specialmente in relazione agli errori commessi in passato?

Un primo passo è sicuramente la normalizzazione delle emozioni disturbanti e dei pensieri negativi. Spesso i coach pronunciano frasi orientate alla negazione (“non devi avere paura”), oppure al controllo e alla lotta (“devi dominare/vincere l’ansia”), che possono essere entrambe ugualmente fallimentari. Nel primo caso, perché “nessuno della storia della paura ha smesso di avere paura quando gli hanno detto di non avere paura”, provocando nell’atleta reazioni come “grazie, se potessi non averla ne farei a meno”, ma anche “bene, ma io in questo momento ce l’ho!”. Nel secondo, perché la dinamica della battaglia rischia spesso di amplificare sensazioni già di per sé vissute in maniera complicata.

Come spiega magistralmente lo psicologo Luca Mazzucchelli, non abbiamo consapevolezza di tutto ciò che accade dentro di noi: sotto pressione, siamo pieni di energia, che molti etichettano come paura o ansia. Una volta riconosciute queste normali vibrazioni, che potenzialmente possono portare a superare gli ostacoli, occorre evitare di nasconderle o di soffocarle, perché questo non farebbe che peggiorare la situazione. Se interpretiamo un battito accelerato come segno della nostra inadeguatezza, immaginando una catastrofe imminente e cercando di controllare le emozioni, queste non ci lasceranno scampo. Se invece lo vediamo come pura energia, questa potrà essere direzionata verso i nostri obiettivi. Sempre Mazzucchelli sottolinea come sia fondamentale permettere a se stessi di vivere queste vibrazioni in maniera completa, senza contrastarle o resistervi: una volta scesi in campo, offriranno la giusta spinta per dare il meglio.

In conclusione, ogni emozione può essere tendenzialmente gestita riconoscendola e facendole spazio.

Nino, non me ne voglia di De Gregori, ma forse PUOI aver paura di tirare un calcio di rigore. È assolutamente normale che tu ce l’abbia, se la partita è decisiva e se magari ne hai già sbagliato uno in passato. L’importante è che questa non ti blocchi, che non ti allontani da ciò che più conta per te. Se non te la senti, possiamo ripartire da qualcosa di più semplice. Ma se deciderai di farlo, indipendentemente dal risultato, mi congratulerò con te per averci provato.

BIO: Michele Bisagni

Classe 1986, psicoterapeuta e psicologo dello sport.

Innamorato del pallone dall’indimenticabile doppietta di Baggio alla Nigeria, ai Mondiali di USA ‘94.

Collaboratore della FIGC per il progetto dei Centri Federali Territoriali e dell’Area di Sviluppo Territoriale. Docente di Psicopedagogia per i Corsi UEFA B,

BIBLIOGRAFIA

Galimberti, U. (2006). Dizionario di psicologia. Gruppo editoriale L’Espresso.

Martens, R., Burton, D., Vealey, R.S., Bump, L.A. & Smith, D.E. (1990) Development and Validation of the Competitive State Anxiety Inventory-2 (CSAI-2). In: Martens, R., Vealey, R.S. & Burton, D., Eds., Competitive Anxiety in sport, Human Kinetics, Chapaign, 117-190.

Mazzucchelli, M. (2020). Paura di parlare in pubblico: 3 suggerimenti. https://www.psicologo-milano.it/newblog/paura-di-parlare-in-pubblico-3-suggerimenti/

Yerkes, R. M., & Dodson, J. D. (1908). The relation of strength of stimulus to rapidity of habit-formation. Journal of Comparative Neurology and Psychology, 18(5), 459–482.

2 Responses

  1. Buonagiorno Michele . Complimenti per l’articolo . Molto chiaro , per un sessantaseinne come me , che svolge nell’attivita’ di base scuola calcio, trasmettere certe nozioni ai bambini , e’ molto importante. Perlomeno farla conoscere
    Mi e’ venuto in mente ,nel mio piccolo , in promozione , un rigore calciato ,nell’ultima di campionato all’ultimo minuto dove il sottoscritto lo sbaglia e fa retrocedere la sua squadra.
    Risultato personale ? Ho continuato a tirarli , nonostante aver vissuto un mese molto angosciante.
    Paura ? Si. Risalire ? Sempre!
    Grazie ancora !

    1. Buongiorno Claudio,
      grazie mille per il feedback e per il suo esempio: credo che ricordare, specialmente ai giovani, quanto sia “normale” la tensione quando ci si gioca qualcosa di importante, sia un messaggio educativo molto utile!

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